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da "FIGHTING PAISANO" di ALFONSO FELICI      Parte III  5

A due passi da casa

Rimanemmo a guardare questa ritirata senza poter fare nulla per mancanza di armi di grosso calibro, avevamo solo i mortai da 60 mm e colpivamo invano con questi.

Il 28 maggio 1944 conquistammo la valle dell'Amaseno. Il fiume mi dava il benvenuto, ricordandomi che da ragazzo ci andavo a fare il bagno ed a pescare con gli amici. Guardai Villa Santo Stefano che sembrava sfuggirmi perché c'erano ancora i tedeschi.

Proseguendo con la nostra avanzata occupammo Priverno dove i contadini ci offrirono uova, caciotte e fave fresche. Dopo occupammo Maenza, a me nota per la presenza dei fratelli Zomparelli, di Villa Santo Stefano, che gestivano un molino aiutati da Filiberto De Filippi, un valente ciclista. Non ebbi però modo di vedere né lui né la famiglia Anelli, parenti di zio Anselmo e zio Faustino Anelli, provenienti da Sezze ma oriundi di Villa Santo Stefano. L'avanzata continuò verso Roccagorga per poi raggiungere Sezze. Qui, vedendomi irrequieto, il capitano decise di farmi raggiungere il mio paese. Dalla radio aveva saputo che i francesi e le truppe marocchine stavano salendo dalla parte opposta del Monte Siserno verso Villa Santo Stefano. Per arrivare a Villa avrei dovuto fare un giro enorme perché tutti i ponti sul fiume Amaseno erano stati fatti saltare dai tedeschi.

Il capitano chiamò il caporale Morris, autista di una jeep, e con lui raggiungemmo Fondi attraversando la Via Appia. Era il 28 maggio 1944. Da Fondi proseguimmo per Lenola. Che gioia provavo nell'offrire caramelle e sigarette alla gente, ma vedevo che ci guardavano male e c'insultavano. Ci avevano presi per francesi e, passando loro vicino ci dicevano in dialetto ciociaro: "Che vapozzina accida a vuie e a cheste bestie che ve sete portate pe 'dreto. Va pozza da ' na saetta".

Risposi loro che eravamo americani. Quando mi sentirono parlare in italiano uno ribattè: "E vuie saristi i liberatori, ma iate a morì ammazzati''. In quello stesso momento passava un tenente francese cui riferii la cosa e lui, come se questo non lo interessasse, rispose: "C'est la guerre!". Mi sentii male e riferii la cosa a Morris.

Raggiunta Lenola, sul ciglio della strada, un anziano contadino ci fece segno di fermarci "Correte, correte, i marocchini stanno violentando delle donne!". Lo facemmo salire sulla nostra jeep e ci portò in mezzo a certi alberi di castagni. Una scena terrificante ci apparve davanti. Due soldati marocchini, come bestie feroci, stavano violentando due donne mentre un bambino, di circa tre anni, piangeva guardando la scena impaurito. Immediatamente io e Morris, con le armi in pugno, li separammo dalle due donne e poi sparammo contro di loro uccidendoli. Dicemmo all'uomo di sotterrarli al più presto prima che qualcuno se ne accorgesse, o di lasciarli là dicendo che li avevano fatti fuori i tedeschi. Quella di ucciderli fu una decisione presa all'istante, per rabbia.

Continuammo il nostro viaggio per Vallecorsa e notavo tutta la gente in preda all'ossessione dei marocchini, che continuavano a violentare ragazze, donne anziane e perfino i bambini. Questo era quanto ci dicevano tutti fermandoci. Ripartimmo e m'informai presso un altro ufficiale francese se Villa Santo Stefano era stata occupata. Mi rispose di si. Arrivati presso Amaseno feci imboccare a Morris la scorciatoia dei "Porcini" (177), immaginando che i tedeschi avessero fatto saltare i ponti "Calabrese" e quello delle Mole. La jeep proseguì fino a "Ponte Grande" (178), ma purtroppo i tedeschi l'avevano fatto saltare. Allora tornammo indietro e piano piano prendemmo la vecchia via che portava a "Ponte Panciacca".

Tutto filò liscio fino a quando arrivammo alla Piazza Umberto I. Trovai la piazza piena di francesi, pochi civili e il garage della signora Emma, dove Angelino Palombo una volta riponeva l'autobus, pieno di prigionieri tedeschi. Nessuno mi aveva riconosciuto con la divisa americana, eccetto Stefano Planera a cui chiesi dove stavano mia madre e mio fratello Antonio. Stefano mi assicurò che tutti e due erano a casa. Salutai Morris che si apprestava a raggiungere la mia compagnia a Sezze, e gli dissi di informare il capitano che sarei tornato il giorno dopo. Jerome Morris ripartì con la sua jeep per Giuliano di Roma e poi per Prossedi, dove ci avevano assicurato che i ponti più importanti non erano stati fatti saltare e quindi poteva essere sicuro di arrivare a Sezze.

Con il mio fucile automatico "garand", bandoliera, bombe a mano ed elmetto in testa, mi avviai verso casa, squadrato dai francesi. Vedendo un americano, raro nella loro zona del fronte, qualcuno mi salutò "Hallo Yankee". Di paesani c'era qualcuno, ma gli altri si erano rifugiati in montagna o nelle campagne.

Arrivato a casa, bussai alla porta ripetutamente, ma nessuno mi apriva. Dopo un po', avendo dato voce, la porta si aprì ed uscì Antonio e subito dopo mia madre che mi abbracciarono. Non mi avevano risposto perché avevano paura dei marocchini.

Entrai in casa, posai le armi e subito cominciai a raccontare tutto quello che era successo durante il tempo in cui non c'eravamo visti, circa otto mesi. Mi lavai alla buona ed indossai i vestiti che avevo lasciato, erano un po' fuori moda, ma mi fecero sentire di nuovo a casa. Devo dire che ero arrivato verso l'una e mezza del pomeriggio ed ero un po' stanco, quando qualcuno bussò alla porta. Era Vittorio Anticoli che cercava aiuto da Antonio. Il cugino Mario Anticoli, mio caro amico, era stato ucciso da una scheggia di proiettile durante la notte al Macchione, e con lui un bambino, suo nipote, figlio di Duilio. Vittorio chiedeva aiuto per trasportare i cadaveri giù in paese.

Era stata la nostra artiglieria a bombardare il paese la notte precedente. Il bombardamento aveva procurato anche molti danni alle case. Anche casa mia era stata colpita da un proiettile che aveva sfondato una finestra, mentre il tetto era ridotto ad un desolante ammasso di tegole spaccate in mille pezzi. Mi unii a loro e con altri paesani, fra i quali Antonio Iorio "Pizzacalla", raggiungemmo il "Monticello" e, con quei tristi fardelli, tornammo giù in paese. Alla curva "Luigino" facemmo un altro incontro, ancora più triste. Trovammo il cadavere di un mio amico, Giuseppe Ruggeri, trasportato su una scala, anch'egli colpito a morte da una cannonata durante la notte. Li trasportammo al cimitero senza nessun corteo funebre e li deponemmo al centro della chiesetta senza un fiore. Seppi dopo che alcuni cani randagi affamati, durante la notte, li avevano azzannati e sfigurati.

I paesani, intanto, ritornavano giù, ma erano tutti impauriti dopo che i marocchini avevano violentato molte donne. Tutte le malcapitate cercavano di nascondere la verità, come se fosse una vergogna: ma quale vergogna, povere e care donne indifese di fronte alla violenza di quelle belve. La mia casa fu un viavai di amici che vennero a salutarmi. Mia madre mi diede la notizia che Anna Battistini era tornata a Roma con i suoi, ma da allora non si era più fatta viva per chiedere mie nuove. Capii così che lei m'aveva già dimenticato ed avevo perso tutte le speranze che mi amasse ancora! Finalmente potei dormire nel mio letto, che era rimasto vuoto per circa otto mesi. Dormii fino a mattino inoltrato, svegliato da mia madre che mi servì un caffè allungato con una bustina di Nescafè, che le avevo portato insieme a scatolame, biscotti vari, caramelle e tanto cioccolato. Dei miei fratelli solo Antonio era tornato, mentre Alfredo era in Corsica e Giuseppe era stato fatto prigioniero dagli inglesi a Rodi, poi portato in Egitto ed internato in un campo di prigionia.

Indossai la divisa americana, uscii in piazza e trovai i soldati americani di artiglieria cui chiesi un passaggio per rientrare al mio reparto che, ormai, avanzava sulla sinistra della Via Appia.

Un soldato italo-americano, certo Sal Di Cavolo, mi accompagnò dal suo primo sergente Lawrence Presnell, il cui Observation Battallion (179) era accampato al cimitero. Consegnai le mie credenziali al sergente. Questi, a sua volta, le consegnò al capitano Fred Howe il quale mi accordò un passaggio sul loro convoglio che partiva nel pomeriggio. Quelli dell'Observation Battallion furono così gentili da darmi della carne, pane e barattoli di ogni ben di Dio che portati a mia madre, contentissima di avere una riserva alimentare per qualche settimana.

Una volta salutati mia madre ed Antonio, gli americani mi fecero salire su una jeep mentre il capitano Howe mi disse di fare da guida fino a Patrica. Furono soddisfatti della mia conoscenza delle strade e dei luoghi dove accamparci. Sotto Patrica, fra i castagneti, piantammo le tende e con gli amici appena conosciuti, Frank Vassello, John Geisendorfer e Hany Plummer andammo a fare una capatina in jeep a Patrica e Supino. Vi furono scambi di sigarette, uova, polli e vino fra gli abitanti e tutti erano contenti di me, compresi gli ufficiali e sottufficiali mentre spolpavano le ossa dei polli che io avevo loro procurato.

L'indomani ci trasferimmo a Colleferro, bivaccando durante la notte in un bosco. A Valmontone c'era in atto una grande battaglia fra tedeschi e varie divisioni americane che provenivano da Anzio, fra le quali la mia 3rd Infantry Division. Rimanemmo a Colleferro fino al giorno dopo, quando gli americani ricacciarono i tedeschi fino a Palestrina e Tivoli.

Ci spostammo fino a Labico attraverso stradicciole di campagna, giacché era impossibile passare per Valmontone fra cumuli di macerie e veicoli abbandonati in fiamme.

A Labico ci accampammo in mezzo ad un castagneto e giù, sulla ferrovia, trovammo tanta gente che abitava da mesi nelle grotte adiacenti per evitare i bombardamenti.

Là seppi che la mia Divisione si trovava vicino Velletri, a circa 40 km da Labico. Quando annunciai che ormai dovevo lasciare la Batteria, per rientrare alla mia compagnia di fanteria, vi fu quasi una rivolta perché tutti volevano che rimanessi. Li salutai con simpatia, ed il capitano Howe disse scherzando: "Ti faccio ritornare, vedrai, sei stato una buona ed eccellente guida ".

Trovai una jeep che andava al bivio di Cori-Velletri e riuscii ad arrivare con altri mezzi nelle campagne veliterne raggiungendo la Compagnia "A". Spiegai al capitano Blower le mie difficoltà a raggiungere la compagnia, ma mi assicurò che non c'erano stati problemi. I miei amici furono lieti di vedermi. L'avanzata continuò fino a quando non riuscimmo a vedere il panorama di Roma, la Città Eterna.

Io fra i primi entrati a Roma nel giorno della liberazione. Alfonso Felici, 3rd Bn, 349th, gives the news to the civilians on liberation day in Rome, 4 june 1944, He's in the piazza in front of St. Jhon in Laterano. After working 30years for Alitalia, in a number of US cities, Alfonso has retired to live in Rome.

Da Marino convergemmo sulla Via Casilina, questi erano gli ordini e proseguendo arrivammo a due chilometri da Porta Maggiore. Era il 4 giugno 1944, alle ore 16.00. Fui chiamato dal comando di reggimento ed unitomi al maggiore Milner, ai soldati Crawford e Zabszenni, con la jeep feci da guida per una pattuglia dentro Roma per vedere se i ponti sul Tevere erano intatti.

In venti minuti andammo e tornammo, dopo aver visto i maggiori ponti sul lungotevere ai loro posti. Nessun tedesco si era visto in una Roma deserta. Fatto il nostro rapporto ci fu dato il via per la conquista della capitale.

Tutte le divisioni si mossero, ma noi della 88th fummo i primi a conquistarla, anche se alla First Special Force affermano che i primi furono loro. Bugie di gloria! Da Porta Maggiore con una jeep, insieme al sergente Carter ed al caporale Smith andammo a trovare Anna Battistini in Via Taranto 132. Fu Silvana Battistini ad aprire la porta rimanendo sorpresa vedendomi come la signora Armida, Anna ed Erminio Leoni. Entrato andai a salutare Anna che si mostrò imbarazzatissima. Mentre i miei amici americani riempivano il tavolo di sigarette e di chewing-gum, la signora Armida mi portò in cucina e mi diede una brutta notizia: Anna si era sposata con Erminio Leoni, il figlio di Angelo. Capii la situazione e non ebbi nessun rancore verso di loro. La signora Armida mi informò inoltre che suo marito era morto in un incidente di lavoro qualche mese prima. Rientrato in sala abbracciai fortemente Anna ed Erminio e gli augurai tanta felicità.

Quando lasciammo la casa fu penoso per me, ma subito mi ripresi. Lo raccontai al sergente Carter che mi disse: "Non ti preoccupare, ti farò sposare una bella ragazza americana!".

Andammo in mezzo alle vie con la folla giubilante per la liberazione di Roma. Cantammo, bevemmo vino, baciammo ragazze che saltavano sulla nostra jeep. Arrivammo a Via dei Fori Imperiali, dove avevamo fissato un appuntamento con la nostra compagnia, quando notammo molta gente che attorniava un nostro carro armato. Accorsi vedemmo un civile morto schiacciato sotto i cingoli.

Poco dopo mi vide il tenente Walker barcollare verso di lui e mi chiese: "Alfonso sei ubriaco?". Risposi di no, ma ormai i fumi dell'alcool mi avevano fatto dimenticare tutto e caddi ingloriosamente davanti a lui sul marciapiede. Ci fu dato un breve riposo a Marino con libere uscite a Roma. Da Roma avanzammo verso Civitavecchia, incontrando una leggera resistenza. I tedeschi distruggevano tutti i ponti e le strade. A Tarquinia ci riposammo per un giorno.

La nostra marcia continuò attraverso Grosseto fino a 10 km da Volterra. Alla 349th e la 350th fu affidato il compito di conquistare Volterra. La città era circondata da campi minati e si richiese l'intervento dei genieri del 313th Battallion per bonificare il terreno. Subito dopo intervenimmo, occupammo Roncolla e, dopo un'accanita battaglia, entrammo a Volterra. Dentro la fortezza etrusca si era asserragliato un nucleo di tedeschi che si difendevano accanitamente e noi del Terzo fummo mandati per snidarli. Comandati dal tenente John Lamb riuscimmo ad entrare nella fortezza accolti da un violento fuoco nemico. Cinque nostri soldati caddero colpiti a morte invece un gruppo, del quale facevo parte anche io, assaltò i tedeschi con un lancio di bombe a mano e scariche di mitra. L'operazione portò alla cattura di 18 tedeschi mentre 13 rimasero uccisi. Era l'8 luglio 1944. Per questo gesto ci fu conferita la Medaglia d'Argento in una cerimonia a Montecatini alla presenza del generale Mark Clark.

Qui ebbi la sorpresa di vedere John Geisendorfer a bordo di una jeep che recava un ordine di seguirlo all'Observation Battallion. Il capitano Howe, infatti, era riuscito ad ottenere, dal quartiere generale della Quinta Armata, il mio trasferimento come guida all'Observation Battallion. Ero seriamente dispiaciuto di lasciare la 88th Infantry Division, con la quale mi ero affiatato, ma gli ordini erano ordini e dovetti salutare tutti e raggiungere quelli della Batteria "B", che avevano bisogno di me per infiltrarsi tra le linee nemiche per scoprire da dove partivano i colpi dell'artiglieria avversaria. Raggiungemmo Bolsena e, nella boscaglia trovai i miei vecchi amici e da fante diventai artigliere.

Io decorato della Stella d'Argento dal Generale Clark a Montecatini.

Trovai un cucciolo di pastore tedesco che adottammo e chiamammo Lupo. Insieme al tenente Tiezte ogni mattina andavo a scrutare sulle colline il bagliore degli spari delle artiglierie tedesche. Nel momento esatto del lampo inviavamo un segnale via telefono alla base, che cronometrava il tempo di volo del proiettile nemico. In questo modo le nostre artiglierie riuscivano ad individuare il luogo di partenza e rispondere al bombardamento. Così iniziò la nostra marcia per la conquista di Siena.

 

 

Est, Est, Est  >>>

 

 

177. Strada comunale che unisce Villa con Amaseno.

178. Ponte sulla strada provinciale Villa - Amaseno

179. Battaglione di osservazione

 

 

 

 

 

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Parte III   Arruolamento con i "commandos" americani | Ritorno in Italia | Lo sbarco di Anzio-Nettuno. |  In forza alla 88th Infantry Division per la conquista di Roma.A due passi da casa. | Est, Est, Est. Invasione e sbarco nella Francia del sud. ! II riposo del guerriero. | Ritorno al fronte. Eccomi Tokio! Il sogno dell'America si avvera.Ellis Island.

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