cantína, sf.: bettola, taverna, locale dove si beveva vino e magari birra. Ce n'erano varie dentro le mura cittadine prima che arrivassero i più "civili" bar; due erano le più frequentate negli anni Venti e Trenta, quella di zu Urdurícu ju Súrdu al gomito di sóttu Ila Löja, e quella di Marjétta Cincéttu sotto la chiesa in quel tratto di via S. Pietro già detto via Pasquino. Le cantine esercitavano un forte richiamo sociale e psicologico in particolare per i contadini che jettàti fòra tutta la settimana sentivano il bisogno di ritrovarsi e riconoscersi con l'altra gente del paese, tanto da dar vita al famoso distico:

'Alla ghiésija ncju uàu ca su zòppu, alla cantina cj'arríu pjànupjànu.'

"Alla chiesa non posso andarci perchè sono zoppo, alla cantina ci arrivo piano piano"

La cantina era veramente l'antichiesa, e come tale offriva un certo sfogo contro quella ch'era la preponderanza, la tirannia si potrebbe dire, della religione sulla vita paesana, e sopperiva alla necessità umana di peccare per poi pentirsi e poter godere la gioia della purificazione, una specie di hubris rusticana. Dato l'ambiente verbalmente peccaminoso di questi locali nel quale lo sfogo contro la durezza della vita prendeva forma escatologica e dissacrativa, la gente ci si teneva lontano perché considerati luoghi di bassa moralità, e infatti per dire persona perbene si diceva: chíglju nn'à òmu di cantína. Anche se l'arciprete don Amasio tuonava quasi domenicalmente dal pulpito contro queste sentine di bestemmie e del parlar sconcio, gli uomini, sentitasi la messa e fatto pranzo, si riversavano nelle cantine per giocare a carte, bere e chiacchierare chiassosamente, forse più che per ubriacarsi per potersi ritrovare in un mondo tutto di uomini dove ci si poteva parlar schietto senza peli sulla lingua far sproloqui e sputar fuori oscenità, trattarsi insomma da òmu a òmu in un ambiente proibito a fémmine, pröti j mammöccj, con il vino che alimentava lo spirito liberatore mettendo ullàni artigiani e qualche signore che ci bazzicava -cfr. il caso di sor Gigi Popolla- tutti allo stesso rango, e trasformando spesso il timido in leone; era uno spurgo catartico settimanale. Ai bambini era tassativamente proibito di avvicinarvisi, e se qualche donna ci si trovava per caso a passare davanti a queste bocche d'inferno, affrettava il passo e si tappava le orecchie. Qui si beveva vino e birra, Peroni o Paskowski in quei tempi, e si giocavano partite a carte, la più impegnativa e drammatica delle quali era quella di patrónu j sóttu, ricordata nei documenti medievali come il gioco ad passatellam. Ma non era proprio un gioco, era come se questi uomini, ruvidi o no, recitassero inconsciamente un tragica parodia della secolare condizione umana dell'homo rusticus. Gli spettatori si accalcavano attorno ai giocatori con i litri di rosso sufficienti per tutti loro, e già pagati, inquadrati sul tavolo con i relativi bicchieri. Fatte le carte e scelto il padrone, questi si sceglieva il sottopadrone, ed il gioco aveva inizio. Il padrone aveva potere assoluto sulla distribuzione del vino, mentre il sottopadrone non ne aveva alcuno oltre quello che gli conferiva il padrone, il quale poteva dar da bere a tutti in allegra compagnia, chiedere l'opinione del sotto a riempire il bicchiere, darlo ad alcuni dei giocatori negandolo agli altri che cosi venivano fatti ùlumi cioè lasciati al secco, bersi tutto il vino lui ed il sotto, o forzare uno solo dei giocatori a berselo tutto finché non fosse briaco fradicio tra lo sghignazzare di tutti. Venir fatto ùlumu era un affronto quasi uno sfregio che si tollerava ed ingoiava perché tali erano le regole del gioco, rigide e da rispettare pena l'onore personale, ma non si dimenticava; non era difficile immaginare in questi nodi drammatici veder guizzare la lama di un coltello, cosa che per altro non avveniva mai. Era gioco e rimaneva tale, come la vita in mano alla sorte; dopo tutto c'era sempre la probabilità che la domenica prossima le carte avrebbero parlato diversamente, e che il "secco" di questa poteva essere il padrone della prossima. Questo convivio bacchico durava fino a sera tarda, e fattosi buio questi ulissidi rusticani che per un giorno la settimana non dovevano misurarsi contro l'orrido polifemo della vita giornaliera, cominciavano a sfollare dalle cantine rigidi nei loro vestiti da dì di festa, facendo un sosta obbligata in qualche angolo per una profusa pisciata, traballando per le vie, vicoli e strétte come tronchi d'albero scossi dal vento, canticchiando qua e là finché non ritrovavano l'uscio di casa per poi risalivano nelle loro stamberghe dove le mogli li mettevano al letto. (V. cantina).

cantina, sf.: scantinato. Questi locali, seminterrati e a volte sotterranei, formavano tutto un alveare al di sotto dei casamenti entro le antiche mura castellane scavato nella roccia tufacea sulla quale sorgeva l'abitato e nella quale la presenza di sacche poco cementate di tufo, rapíglju cioè lapillo, permetteva un facile scavo. Quelle seminterrate, che si aprivano con qualche gradino al disotto del livello della strada, erano perlopiù adibite a ripostiglio di cose per le quali non c'era spazio in casa e cianfrusaglie che non si buttavano via perché non si sapeva mai quando potevano esser utili, e per magazzino delle damigiane per il vino, giare per l'olio, vasi di coccio per i sottaceti, legna, frasche e carbonella, ed era da questo livello che poi si scendeva nelle grotte dove si conservavano al fresco bottiglie di vino e provviste; i commercianti le utilizzavano per botteghe alimentari, Ì falegnami, scarpari e fabbri come laboratori artigianali, ed in esse venivano messi in opera i telai per la tessitura del lino e della canapa, mentre la classe contadina ne faceva stalle per gli animali domestici, maiali e capre, e per pollai. In quelle sotterranee, che a volte erano molto estese, usate anche esse come magazzini con grotte per il vino ecc., c'erano spesso profonde cisterne, scavate ab antiquo, nelle quali si raccoglievano le acque piovane dai tetti sovrastanti per usi domestici ma non per bere, eccetto in tempi di grande secca quando le fontane non pisciavano, con a volte annessi lavatoi per il bucato. Le cantine, in specie quelle sotterranee, generalmente proprietà della classe padronale, erano dominio incontrastato degli abitatori del mondo sotterraneo, animali e spiriti, e chi doveva recarvicisi oltre al lumino acceso si portava un bastone o manico di scopa per far gran fracasso per impaurire zòccole, sóreche, spìrdi j mönici. (Dal Gr. canthos, angolo dell'occhio venuto poi a significare canto o angolo).

 

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Dal "Lessico Paesano": dialetto, storia, vita, tradizioni ed usanze del popolo di Villa S. Stefano di Arthur Iorio

www.villasantostefano.com

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