a j ó c c u , avv.: quì, il più vicino possibile. Janna ajóccu Ascolta... prepjaméntu ajóccu, su dittu, intima la mamma al bimbo ricalcitrante puntando un dito in terra. E quando finalmente ubbidiva: mó nte móua d'ajóccu nfènta ca te lu dícu jö, aggiungeva con cipiglio. D'estate il sole infuocava il paese, ma c'erano posti dove si respirava. Aglju astàtu, ajóccu ncíma stà lu pjù bjöglju friscu gglju múnnu, diceva za Filotea seduta all'imbocco del sottoportico del vicolo Bellavista, già Cafegna, che da sotto casa Panflli portava da via S. Pietro giù a scavezzacollo alla Portella, posto dove negli afosi pomeriggi dl canicola si radunavano come in un salotto le donne del vicinato a far chiacchiere e qualche volta anche a dire ca pòsta di rusàriju. C'era za Sabbetta seduta con la figlia Peppinella davanti casa nell'attiguo sottoportico insieme a qualche Lucarini troppo vecchio per seguire la famiglia che d'estate si trasferiva nella casetta di campagna a Drento, e più in là sotto il campanile qualche rampollo dei Marella; davanti il portone di casa sulla stretta che calava da via Santa Maria sedeva gnòra Peppina, la mamma dell'arciprete don Amasio Bonomi, insieme al marito sor Giuseppe prima che morisse, e poi con la fedele Mariangela, mentre a basso di quel torrente di scalette ch'era il vicolo Cafegna, così chiamato una volta da una famiglia che vi abitò, c'era altra gente e giù in fondo sulla cimasa Bravo, anch'essa una volta dimora arcipretale, qualcuno di famiglia; nel largo antistante la Posta da dove veniva il tic-tic del telegrafo punteggiato dai colpi secchi dei timbri d'affrancatura posti da patínu Saruccio sulle lettere in partenza, sedevano sotto l'occhio sornione di sor Eusebio con il muso all'inferriata della finestrella di casa, oltre a za Filotea, gnòra Ausilia, zia Cleonice che di tanto in tanto si scambiavano parole tra di loro e gnòra Ida seduta più in giù sotto il pergolato della sua bottega con una delle due figlie superstite dalla strage che la funesta spagnola aveva fatto della sua numerosa famiglia, che chiacchiarellava con za Diadema all'imbocco di vicolo Malpasso, nonna Nunzia seduta sui gradini di casa, e più in fondo za Marziuccia e poi za (Eu)frusina. La scena s'animava tutto d’un tratto quando prorompeva per la strada una frotta di ragazzi schiamazzando rincorrendosi allàbballu in un loro gioco. Piccolo mondo antico, per dirla con Fogazzaro, scomparso per sempre, chissà perchè e per dove? Questi crocchi di donne si ripetevano un pò dappertutto per l'intero paese, dovunque ci fosse un pò d'arietta da captare: alla Portella sotto il forno di za Candida, al Cegneraro, a basso di via Gentile, Sotto la Loggia, sotto l'arco della Rocca viclno alla casa di za Angelica Maschione, alla Urizzia nel sottoportico di sor Pompeo prima che quella contrada crollasse nel 1933, ed anche davanti il palazzo del Marchese; fuori Porta era come un deserto infuocato, nce rifjatéua màncu nu cànu. Noi ragazzotti di certe pretese culturali, ci andavamo ad allungare sotto qualche albero frondoso a dormire, con la benedizione di Antonio Filotea che traduceva il famoso detto di papa Leone X quando arrivò al Vaticano: Ajóccu ce stàmu prépja bènu. (Lat*. ad hic)

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Dal "Lessico Paesano": dialetto, storia, vita, tradizioni ed usanze del popolo di Villa S. Stefano di Arthur Iorio

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