| prefazione | nota d'appendice |

La bella Cammilla*

di Arturo Iorio

Ai tempi antichi, prima ancora dei briganti con i cappelli pizzuti, prima di papa Sisto, ma molto molto prima quando i boschi di querce, castagni e lecci calavano dal filo di Monte Siserno fino alla riva del fiume Amaseno, quando tutte le dimani i falchi si libravano dalle gobbe rocciose sporgenti dalla montagna tra Tartarone e Caùto in cerca di serpi, lucertole od altro rimpinzo per i loro figlioli sempre a gola aperta nei nidi. Millanta e millanta anni fa, comandava a Piperno il rè Metàbbo, bello, forte e buono come un San Giovanni, tale che tutta la gente gli voleva un gran bene e che le femmine se lo sarebbero voluto abbracciare e baciare quando passava in giro per le vie. La moglie gli era morta di parto lasciandogli una bambina molto vispa, la quale non tardò molta a diventare una bella maschietta. Quando accompagnava il padre per le strade della città, la gente la salutava sventolando fazzoletti e le augurava di crescere bella, buona e forte come il padre, per poterla avere poi un giorno come loro regina. A Cammilla, che cosi si chiamava la principessina, tutto questo dava gran piacere, e già da piccola cercava imitare il fare del padre; a tré anni sapeva comandare e farsi ubbidire.

Ma, come sfortunatamente capita un pò a tutti, a Metàbbo non mancavano nemici, ed uno di questi era proprio un suo cugino carnale, il quale pensava, chi sa perché, che rè sarebbr dovuto esser lui; e dagli e dagli, ci rimase convinto a tal punto da ricercare qualche modo di come procacciarsi il regno. Sapendo però che Metàbbo era tanto benvoluto dai pipernesi che non c'era nulla da fare, pensò allora di rivolgersi ai sezzesi, da sempre nemici di Piperno, e si mise a combuttare e congiurare con loro.

Un sera, i soldati di Sezze, al comando del loro re, calarono dalla loro roccaforte sulla montagna, si accostarono quatti quatti a Piperno senza esser scoperti - che quella notte non c'era luna- e verso l'alba assaltarono la città all’improvviso ed in un lampo si misero in comando del popolo ancora addormentato e delle loro cose. Con l'aiuto di alcuni traditori pipernesi, la presa fu cosi rapida che il re di Sezze, marciato difilato al palazzo reale con i suoi scherani, quando irruppe nelle stanze reali, sorprese Metàbbo che, cingendo l’armi, s'era arrestato un momento per prendere in braccio la piccola Cammilla che era corsa da lui spaventata. Nel pandemonio che segui l'imperversare delle soldataglie nelle sale del palazzo, il re di Sezze, con al fianco quel giuda del fratello cugino che glielo indicava, afferrò Metàbbo dal di dietro per i lunghi capelli, gli tirò il capo su ed il mento e lo scannò di colpo, mentre il sangue che sgorgava a fontana dalla gola del re bagnava di rosso il corpo della figliolina che Metàbbo ancora si stringeva in braccio; poi stramazzò in terra con la bimba sempre stretta al petto quasi se la volesse portare con lui all'altro mondo. Nell'euforia della vittoria, nessuno si curò della piccola lasciata li pure essa per morta nella pozza del sangue di suo padre, mentre il corpo del rè veniva trascinato come capra da macellare dai soldati sezzesi e buttato dal finestrone della reggia sulla scalinata sottostante per incutere paura ai pipernesi. Nella confusione generale, un servo di Metàbbo, la cui moglie aveva tenuta a balia Cammilla, il quale aveva seguito l'orrenda scena impotente quasi congelato contro una parete della sala, riavutosi, si accoccolò sul corpicino intriso di sangue della principessina, quasi per nasconderla non sapendo se fosse ancor viva o morta, l'avvolse in un fazzolettone che si era gettato addosso appena svegliato dall'assalto, e con il fagotto della bimba nelle braccia mezzo spogliato com'era, Ofenzio, che cosi si chiamava quel servo leale, sparì per passaggi di servizio a lui ben noti, lasciò il palazzo, correndo per le strade della città cercando di confondersi con la tanta gente, uomini, donne, vecchi e bambini, che scappano mezzo ignudi per sfuggire all'impazzata alle violenze dei soldati sezzesi; e non si fermò fin che non cadde sfinito in un pagliaro nelle terre di suo padre oltre Fossanova. Quando finalmente si riebbe, raccontò al suo vecchio quanto era accaduto a Piperno, ma non gli disse che quella creaturina ancora stramorta che aveva salvato dal massacro era la figlia di rè Metàbbo. Quindi per accertarsi che la bimba, che rimaneva in uno stato catalettico, fosse ancor veramente viva, se la prese in braccio ed andò a sommergerla in un fosso d'acqua corrente li vicino; ve la immerse, che lei reagì visibilmente al fresco dell'acqua, e dopo la pose sopra una morbida pelle di pecora per asciugarla. Cammilla, viva senza nemmeno uno sgraffio, aveva un'aria sbigotita e giaceva sulla pelle immobile fissando a vuoto is suo piccoli occhi tanto pieni di paura da far pena.

Alcuni giorni dopo, Ofenzio tornò con molta cautela a Piperno per ricercare la sua buona moglie, ma non la ritrovò che forse era andata a finire come tante altre persone del palazzo e della città sopra i fasci di cadaveri che i soldati sezzesi ammucchiavano sui carretti per portarli fuori le mura e poi gettarli sulle molte pire che bruciavano tutto intorno. Scoraggiato e con il cuore pieno di tristezza, se ne tornò in campagna e scacciò la pena che lo assillava dando mano al suo padre nei lavori per il fieno maggese. Il tempo guarisce le ferite, o almeno così sembra, ed a Piperno tornò la calma: l'estate venne e poi passò, i giovanotti si misero nuovamente a far l'amore, le donne a partorire, i vecchi a morire e la gente ad abbozzare sotto la tirannia sezzese; ed anche se a molti le ferite sofferte facevano ancor male, impararono a sopportarle, e nessuno osava più lamentarsi. Unico a lagnarsi della misera sorte della città era un passero solitario che immancabilmente tutte le sere si appollaiava sopra il cucuzzolo di una torre del palazzo reale e cantava melodiose e meste rapsodie sulla tragedia toccata al re Metàbbo, alla scomparsa principessa Cammilla e a tutta la razza pipernese; il suo canto irritava gli arcieri sezzesi della guardia reale i quali gli tiravano frecciate, senza però riuscire mai a colpirlo. Nel frattanto il re, che era uomo crudele e tiranno, fece uccidere il cugino traditore di Metàbbo che si era illuso di farsi re con l'aiuto dei sezzesi, e si mise a comandar da solo.

Cammilla cresceva come un fiore all'aria aperta tra i pagliari di Fossanova e le pendici dei monti Ausoni, più vicina agli animali che alla gente, e già da fanciulla incominciava ad aiutare con le cose di campagna: portava fuori le capre e le pecore, e a sera le mungeva, preparava la ricotta, metteva la cagliata nelle fiscelle di canniccio lavorando e ripassando le caciotte. I ricordi di quell'alba infernale quando il padre le venne brutalmente ucciso fra le braccia si affievolivano sempre di più, facendosi però vivi di tanto in tanto durante la notte nel sonno con l'incubo di fantasime. Con il passare degli anni, la bambina diventava sempre più bella e meravigliosa come una stella. Per assicurarsi che nessuno avrebbe mai saputo chi lei veramente fosse -sicuro che se i reali sezzesi avessero saputo che lei era viva l'avrebbero fatta scannare come il padre- Ofenzio, che ne era diventato il padre putativo, le aveva dato il nome di Lòdona, allodola, forse perché fin da piccola lei era vispa, allegra e canterina un pò come l'uccello che nascosto nelle stoppie si alza volando a piena gola verso il sole. E Cammilla sentiva un gran bisogno di cantare quando si aggirava per le balze assolate tra le macchie di ginestre, lentischi, saracchi e mortelle, quasi avesse qualcosa dentro di se prorompente e che si poteva liberare dalla prigione del suo cuore solo con il canto. Il suo amore per i greppi fioriti e rocciosi con gli uccelli che vi svolazzavano un pò dappertutto, le capre e pecore brucanti, il passare silenzioso delle farfalle era compensato, dal lato umano, dall'affetto che sentiva per colui che credeva essere suo padre, Ofenzio, il quale se la teneva altretanto cara; e nelle lunghe sere invernale davanti al fuoco crepitante, ed in quelle d'estate addossati ai pagliari smozzicando fili di paglia mentre il sole calava sulle paludi, lui le raccontava del buon re Metàbbo del quale era stato leale servitore per molti anni, descriveva dettagliatamente ogni angolo della reggia di Piperno, faceva i nomi dei parenti del re, dei suoi amici e cortigiani, e a volte se la portava con lui, fantasiosamente, nelle battute di caccia al cinghiale e fagiani nell'agro pontino dove lui, che ne conosceva bene i posti, soleva accompagnare il suo re; ma tutte queste narrative con le quali Ofenzio forse cercava di ricreare nell'animo della bimba il quadro di una realtà che potrebbe esser stata la sua vita, chi sa se non alimentare in lei il desiderio di vendetta... Infatti questo panorama di luoghi e persone faceva sempre da preludio alla rievocazione dei tragici eventi di quella notte di sangue e di fuoco quando il re legittimo venne barbaramente trucidato ed i sezzesi si impadronirono di Piperno. Le raccontava come il re di Sezze si era poi sbarazzato del traditore cugino di Metàbbo facendolo cadere, con un inganno, in un pozzo cupo lasciandolo poi li a gridare ed affogare. Queste immagini affollavano ed assillavano la mente della piccola e la confondevano, al punto che, tra i sogni che questi racconti evocavano durante la notte e certe vaghe ricordanze presenti nella sua coscienza, si sentiva essercisi trovata anche lei veramente nel mezzo di questi fatti. All'età quando alle giovani incominciano a sbocciare i fiori della carne e a svegliarsi nel cuore i primi aneliti dell'amore, Cammilla veniva facendosi una tale immagine di re Metàbbo quasi fosse veramente li tra loro di carne ed ossa con tutto il fascino dei grandi eroi d'epopea dei quali cantava spesso il nonno quando il vino gli dava l'estro. La figura dell'eroico re pipernese le riempiva tanto la mente da voler sapere tutto di lui, il colore dei capelli, degli occhi, la sua statura, il portamento, se avesse le fossette sulle guance come lei quando rideva; e Ofenzio ne assecondava i desideri, creando con i suoi ricordi un eroe vivente di questo giovane signore allegro e pieno di vita, il quale ogni mattina alzandosi andava alla finestra a salutare il sole che sorgeva, su Campo Lupino per chiedergli: Cosa facciamo oggi? Di tutti questi fatti Lòdona ne aveva talmente pieno il capo che a volte non riusciva a capacitarsi se viveva realmente a Fossanova o per caso non si trovasse nella reggia con re Metàbbo a Piperno. Una sera, per la prima volta, quando Lòdona aveva allora quindici anni circa, il padre le raccontò per la prima volta come Metàbbo, quando venne colpito a morte, aveva in braccio la figlloletta, la principessina Cammilla, la quale era poi scomparsa, chi sa dove, forse trucidata come tante altre persone, ma che non s'era mai più fatta viva. A sentir questo, la ragazza s'irrigidì come colpita da fulmine a ciel sereno e si mise a tremare pateticamente nella subitanea rivelazione sprigionata nell'interno di tutto il suo essere senza possibilità di equivoci che la bimba in braccio al re era lei, Cammilla. Ofenzio ne rimase tanto impressionato che non potendo trattenersi oltre, l'afferrò per le spalle scuotendola, ed invaso dal terror panico anche lui, le confessò:

"Tu non sei mia figlia, piccola Lòdona, anche se crescesti con il latte dalle mammelle della mia povera, che tua madre mori nel partorirti. Tu sei la figlia di re Metàbbo, tu sei la regina dei volsci, tu sei Cammilla che io salvai tutta intrisa del sangue di tuo padre.

Cammilla parve invasata da questa rivelazione; fece un salto e si mise a gridare quasi fosse in preda alle furie:

"Lo sapevo ! Lo sapevo! Me lo sentivo nel sangue.

Da quel giorno il rapace della vendetta prese a far nido nel suo cuore ed incominciò a covarci le sue uova funeste, mentre nella mente di Cammilla era tutto uno sciamare di vespe con i loro pungiglioni velenosi. Per liberarsi un poco da questi pensieri che la invadevano tutta anima e corpo, la giovanotta incominciò a portare le sue capre e pecore sempre più in alto verso mezza costa dove l'aria più fine, il sole, i venticelli, il profilo dei monti da una parte e l'infinita estensione della palude dall'altra, i mirti, ligustri, ginestre, le rose canine sfiorenti tra i rovi con il biancospino, il canto degli uccelli e la lontananza di anime umane scacciavano i tristi pensieri, le rasserenavano i sentimenti e la facevano sentire un'altra volta come quando era bambina; ritrovata cosi l'allegria e la spensieratezza, saltellava gioconda, mangiava mirtilli a piene mani che le tingevano le labbra di rosso viola, si coronava dei pampini di viti selvatiche, si cingeva i fianchi con vitalbe e, seduta sopra un rupe, cantava accompagnandosi con l'arpa.

Un giorno passò da quelle parti il figlio del re di Sezze, giovanotto e bello, che era andato a caccia con gli amici, e poi si era allontanato da loro; quando udì quel melodioso canto, si fermò ad ascoltarlo e poi, avvicinandosi piano piano quasi per non far scappar via gli uccelli, scorse la ragazza assisa sulla roccia con l'arpa in mano che cantava, le trezze come un mazzo di spighe d'oro intrecciate che le ricadevano sulle spalle. Ammaliato da quella visione, il ragazzo senti qualcosa bollirgli forte nel corpo e stringergli forte forte il cuore talmente che si trovò immediatamente ed Irrevocabilmente preso d'amore per quella giovinetta, che non era sicuro ancora se fosse umana o divina fanciulla. Non volendo rompere l'incanto, che era giovane molto fantasioso e gentile, rimase ad ammirarla da lontano. Quando poi si ritrovò con i suoi compagni, questi si accorsero subito che qualcosa di strano era occorso al loro principe, e gli chiesero se per caso non fosse rimasto stregato da qualche apparizione. Ritornò il giorno dopo con pochi amici tra i più fidi e seri ai quali aveva precedentemente confidato il suo segreto;

e da quel di, tutti i giorni risaliva la costa per ascoltare ed ammirare la divina ragazza, finché un giorno, trovato il coraggio, le si presentò sbucando dalle macchie di lentischi e la sorprese, senza però impaurirla e quasi lo aspettasse, e le protestò tutto il suo amore confessandole che da tempo veniva sui dossi ad ammirarla ed ascoltarne il canto. Da Quando l'aveva vista la prima volt, le disse, lui non riusciva a far altro che pensare a lei notte e giorno, e che il suo amore era tale che non si lavava con la pioggia ne si seccava con il solleone, e che l'avrebbe amata per sempre, e che perciò il suo destino era di sposarla o sarebbe morto. Lòdona lo ascoltò con aria seria prima, anche perché non riusciva a capire tutte quelle parole d'amore che quel bel giovanotto riccioluto le rivolgeva con tanta gravità e passione; poi, quasi trovasse la scena spassosa, si mise a ridere e a saltellare come fa la capinera a primavera quando zompa di fratta in fratta. A Lòdona , che della donna aveva tutte le grazie, mancavano però il cuore e la carne calda di femmina, e la comparsa di questo bel ragazzo e le sue attestazioni d'amore la lasciavano fredda; finché un giorno, per convincerla a sposarlo, le rivelò di essere il figlio del re di Sezze che comandava a Piperno e fratello di Arunte, che ora teneva il potere a Sezze.

 

Questa inaspettata rivelazione fece saltare il cuore della ragazza così forte che le parve sentirselo scappare fuori dal petto. Per contenere la gioia ed allo stesso tempo il disagio che l'avevano presa -quel bel giovanotto le aveva suscitata qualche fantasia nella mente- Lòdona si mise a dire tante piccolezze per non tradire il suo stato di emozione, lusingando il principino, protestando: Come poteva lei, povera pastorella, diventare la sposa del figlio del re? Ma quello insisteva.

"Pastorella o no, tu sarai mia sposa ed un giorno regina di Piperno."

Una vampata di rabbia invase Cammilla: "Come mai..." pensò fosse una bestia ferita alla caccia. "Regina di Piperno?... Io, che già sono di diritto regina di queste terre?" Ma si contenne lasciandosi prendere fra le braccia di lui che gli scoccò un bacione sulle labbra; fu un attimo, ma per la prima ed ultima volta un brivido d'amore le scosse il corpo e l'anima.

Il giovane aveva parlato di questo suo amore ai reali genitori i quali ne erano rimasti molto contrariati; avevano già pensato di alleanze coniugali con genti della loro razza a Trachan, Terracina, e Velletri; ma convinti poi dell'ostinazione del loro figliolo a portar a termine questi suoi propositi di nozze, anche a costo di rinunziare ai suoi diritti al trono, e conoscendo anche la natura non guerriera del ragazzo che si dilettava più delle cose belle che di quelle forti, e soprattutto perché temevano la baraonda politica che poteva seguire una tale rinuncia, finirono per acconsentire.

Si fecero grandi preparativi per festeggiare le nozze; il re di Sezze sperava di abbonire una volta per sempre i pipernesi e renderseli leali con una futura regina della loro razza; ed i pipernesi ne furono infatti contenti. Quando scoccò l'alba del giorno delle nozze, si imbandirono tavole a Piperno e nei villaggi vicini ed altrettanto si fece nelle campagne, con il vino che pisciava dagli otri come fosse acqua dell'Amaseno; dappertutto si faceva una gran festa: i cantastorie venuti dalle terre pontine facevano a gara nel lodare la stirpe dei re sezzesi, poeti delle stirpi latine inneggiavano con epitalami agli sposi, i commedianti atellani facevano crepar dalle risa la gente con le loro grasse farse, e la popolazione mangiava, beveva e ballava senza freno per le strade della città e sulle aie nelle campagne. Gli sposi facevano il giro della festa tra gli applausi scroscianti e gli auguri a canestre, lui bello e focoso come il sole quando alza il carro nel cielo, e lei nel suo manto rosso fiammante sulle spalle come la dea Minerva. La gente si rallegrava pensando che questi due giovani cosi simpatici un giorno sarebbero diventati i loro sovrani -come re Metàbbo e Ia sua regina, s'azzardava a dire qualcuno. Con il calar della notte, l'euforia crebbe; si accesero fuochi di festa per le campagne, e nella valle dell'Amaseno le fiamme dei falò bruciarono fino a tarda ora con le fiamme che lambivano il cielo quasi volessero incendiarlo. A Piperno, uomini e donne gongolanti nell'ebbrezza di Bacco impazzavano per le piazze e per le strade, i più sfrenati camuffati da satiri e le femmine da menadi, sonando crotali, pifferi e tamburelle, cantando sguaiatamente canzoni fesceninine; il re e la corte gozzovigliavano nel grande cortile del palazzo. _Ad una cert'ora, i novelli sposi decisero di ritirarsi nei loro appartamenti; il vecchio re, che aveva molto bevuto, insistè di accompagnarli insieme alla regina fino alla soglia del talamo per dar loro il programmatico augurio di figli maschi. Mentre risalivano le scalinate del palazzo e passavano lungo i corridoi dove gli arcieri di servizio scattavano sull'attenti, Lòdona si rivolse al re chiedendo, con aria d'innocente dolcezza, perché non mandasse anche queste povere guardie a far festa. Detto, fatto. Il re chiamò il capitano della guardia e gli ordinò di mandare gli arcieri a far baldoria, che dopo tutto era festa anche per loro. Dato l'ordine, che risuonò per lungo e per largo nella reggia, ne risultò un immediato e rumoroso fuggifuggi di questi giovani, come quando arriva il gallo e fa starnazzare le pollastrelle fuori dal pollaio.

Nel talamo, dove le faci a muro creavano un'intima penembra, stavano ad aspettare le ancelle; ma le mandò via subito lo sposo il quale, accaldato ed irrequieto come un montone,non vedeva l’ora di abbracciare la sposa; ed infatti le fu subito addosso. Lòdona cercava di tenerlo a bada, ma con difficoltà, che quello era come un torello alla prima monta; finalmente riusci a convincerlo che, giovane e vergognosa com'era, la lasciasse spogliarsi in un angolo un pò buio. Acconsentì malvolentieri, e liberatesi degli ingombranti abiti cerimoniali, si gettò nudo sul letto ad aspettare. L'attesa, anche se non lunga, gli parve interminabile; e finalmente ecco Lòdona muoversi nel barlume della camera ed accostarsi al letto, i capelli sciolti sulle spalle, coperta solo dal suo manto scarlatto che le ricadeva trascuratamente sul corpo nudo, i lembi raccolti sul braccio destro che ne rimaneva coperto. E como lo sposo focoso saltò dal letto ammaliato per abbracciarla, con la daga che teneva nascosta nei lembi del manto, Cammilla vibrò un colpo deciso nel cuore del giovane che cadde rantolando sulle coltri in un fiume di sangue, per morire con un grido che gli rimase strozzato nella gola. Terribile ed imperterrita, riavvoltosi il nudo corpo nel manto che nel momento fatale, per lo sposo, le era caduto dalle spalle, usci avviandosi all'appartamento reale, con la spada sanguinante in pugno come portata dal vento della vendetta; il corridoio era deserto e le guardie si sentivano gozzovigliare nei cortili con le schiave. Cammilla, che aveva attentamente studiato gli interni della reggia maturando il suo piano, entrò senza esitazione nella camera da letto del re sbattendo a terra una nutrice la quale, in qualche modo forse presaga, si era alzata a sbarrarle l'accesso, marciò senza esitazione all'alcova, strappò via le coltri dai corpi freddolosi del re e della regina che si svegliarono sbigotti, e mentre essi si sollevavano sui gomiti a rendersi conto di quello che stava succedendo, lei gridò con una voce più tagliente di una lama:

"Sono Cammilla... Sono la figlia di re Metàbbo... Sono la vendetta e la retribuzione!..."

E senza aspettare che quelli si mettessero a ragionare, vibrò come forsennata un colpo di daga prima nel petto del re e poi in quello della regina mandando anche loro, come il figlio, a rantolare nella pozza del loro sangue. Quando usci dalla camera, la nutrice, ancora in terra inorridita, vide passare una furia furente e non una donna.

Seguendo il piano d'azione che aveva ordito con l'aiuto di Ofenzio, Cammilla corse nella sala del trono dove, tra gli altri, era conservato anche il vessillo di re Metàbbo; lo afferrò per l'asta, ne scrollò la polvere e le ragnatele degli anni ed alzatelo con la mano sinistra -che nella destra impugnava ancora la spada- scese per il palazzo verso il portale della reggia, senza che alcuno la notasse tale era l'allegria ed il frastuono che ancora prevalevano. Sui gradini della scalinata che portava al livello della piazza antistante, si notavano grovigli e mucchi di persone apparentemente ubbriache; ma come Cammilla comparve nel suo manto rosso fiammante alla prima luce del sole, i cumuli di cenci si scossero e presto ne saltarono fuori uomini armati e tra essi Ofenzio, il quale aveva qui radunati compagni, amici, parenti e partigiani tutti leali al ricordo di re Metàbbo. Rapidamente inquadratisi al seguito di Cammilla che portava alto il vessillo del suo real padre, si riversarono per le strade al grido di: "Viva Cammilla, regina dei volsci. Morte ai sezzesi. Questo grido di riscossa presto echeggiava da una contrada all'altra, ed i pipernesi che covavano odio contro la tirannia sezzese, sbucarono a torme dalle porte socchiuse, dai sottoportici ancor bui e si riversarono per le vie della città armati come meglio potevano con randelli, zappe, vanghe, forconi, asce e roncole e qualsiasi altro arnese utile a dar caccia ai sezzesi ed ai loro fautori. Il sole era già alto quando Cammilla tornò alla reggia e, accompagnata da Ofenzio ed altri, risali la scalea nel suo manto fulgente di regina dei volsci, con il vessillo di Metàbbo in una mano e la spada vendicatrice nell'altra, seguita dagli occhi sbarrati nella morte violenta dei reali sezzesi i cui corpi erano stati gettati giù dal finestrone del palazzo sulla scalinata sottostante. E fu cosi che la bella Cammilla, ancor vergine, tornò a riprendersi il regno del padre annunziando ai pipernesi la ritrovata libertà civica.

 

 

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IN MEMORIAM: ANNA IORIO

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