Il Cardinale Domenico Iorio e Don Licinio Refice

Due ciociari fra tanti

di Arthur Iorio

Roma non aveva ancora riavuto il suo impero, ma nell’Urbe si respirava aria da diarchia: gli allobrogi facevano lunghe anticamere; clienti e provinciali in orbace brulicavano negli uffici pubblici; bersaglieri, alpini, centauri e fasci d’ogni genere convergevano inneggianti verso Piazza Venezia per le adunate non ancor oceaniche, e chi si trovava a passare di buon mattino per queste sacrali vicinanze veniva tenuto a bada da quelle cariatidi di poliziotti in borghese ohe ne guardavano gli approcci, bonari ma temibili, finché non era passata la lunga auto nera che portava il duce al suo tavolo di lavoro. Correvano tempi buoni e non troppo buoni, come sempre, ma con lui che vegliava sul paese, gl'italiani potevano dormire notti tranquille… Sui marciapiedi a senso unico di Via del Corso, le belle donne del regime attillate e con ampi cappelli bianchi passeggiavano a braccetto con i loro mariti e innamorati, discutendo tuttal più di Michelangelo come quelle di Eliot. Spirava aria da grandi epoche, ed il sole che sorgeva puntualissimo quelle mattine splendeva condiscendente sui vetusti ruderi e sopra i nuovi marmi dell’eterna città, e con particolare auspicio sulla scenografica Via dell’Impero, sorta come per incanto tra giugno e ottobre con pini già chiomati, aiuole fiorite e imperatori dal cipiglio ammonitorio, quasi fosse tornato fra noi il gran mago Pietro Bailardo. E ci venne quasi fatto di toccar la gloria con le punta delle dita quando sulla spiaggia di Ostia una meravigliosa sera di agosto si videro sbucare dalle nuvole attediate al tramonto i Savoia Marchetti reduci dalla crociera transatlantica e calare uno per uno con la grazia di gabbiani sull’idroscalo di Fiumicino; e poi comandante, piloti, navigatori e meccanici sfilarono all’imbrunire sul lungomare nelle auto decappottate stanchi e sorridenti diretti per Via dei Trionfi a Roma. Noi collegiali vivevamo al margine di questi grandi eventi, quasi comparse in un film storico. Ci interessavano più le prosaiche vicende della Roma e della Lazio, e magari gli occhi neri di qualche ragazza intravisti durante le passeggiate del giovedì pomeriggio.

In quegli anni lo zio monsignore abitava un ampio appartamento in Via dello Statuto. Quando vi andai la prima volta, il portiere calzolaio seduto nella guardiola in fondo all’androne rattenne la lesina e mi sbirciò come un poliziotto fin quando non ebbi risalite le scale. Lo zio, mi era invero prozio quale fratello del nonno, mi aveva chiesto di visitarlo di tanto in tanto ed io lo facevo, telefonandogli sempre prima. M'invitava immancabilmente a pranzo, di giovedì. Era un rapporto un pò difficile quello di un tredicenne con un curiale sessantenne, e la conversazione si sarebbe facilmente arenata se non fosse stato lui a tirare il filo del discorso, generalmente su cose del paese dal quale mancava da decenni. Raccontava del suo babbo che aveva terrazzato uno scosceso clivo di monte Siserno per piantarvi non so quanti piedi di ulivo, una vera ricchezza in quei tempi. Ricordava nonna Mènica, sua mamma, con una serie di vignette verbali vivaci ed affettuose, e mi narrava come lei aveva continuato a vestire alla foggia caratteristica del suo paese nativo e conservata orgogliosa la parlata e come, non senza una punta di polemica, insisteva a chiamarlo con l'antico nome di San Lorenzo invece di Amaseno, datogli dal nuovo governo Talvolta lo zio si lasciava scivolare con compiacenza nel linguaggio dialettale, e allora la conversazione si popolava di cose spicciole, e gl’interessava sapere se i falchi nidificavano come sempre nella diruta chiesa di San Giovanni, se le vallecorsane scendevano con le ampie ceste in capo colme di arance di Fondi a vendere "purtucàglia" in paese, e se si trovavano ancora a Vallaréa quelle susine verdi ed asprigne, le "pronga ùerdacchje", delle quali parlava quasi gli fosse rimasto il sapore in bocca. II ricordo della valle dell'Amaseno chiusa tra i monti Lepini e gli Ausoni gli faceva vagare lo sguardo lontano; lui la chiamava questa la terra della Pentapoli, per i suoi cinque vecchi paesi: Amaseno, Giuliano di Roma, Prossedi, Pisterzo ed il suo Villa Santo Stefano.

Di solito lo zio non prendeva telefonate durante il pranzo, salvo una che arrivava regolarmente verso fine pasto e si preannunziava con uno squillo oltremodo stridulo, quasi l'apparecchio venisse investito da una eccessiva carica elettrica. Nel dialogo che seguiva, la natura bucolica dello zio si trasformava ed il suo parlare pacato prendeva fiato con tonalità da avvocato concistoriale. A parte la drammaticità di questa giostra verbale, m'incuriosiva il persistente riferimento ad una certa Cecilia, nome che saltava fuori dalI’apparecchio a volte urlato dall'ignoto interlocutore come grido di battaglia. Coglievo l'occasione durante queste lunghe conversazioni per divagarmi ad osservare da vicino le tante cose che si trovavano nella sala e nel salone adiacente, e a leggere le dediche autografe nelle foto di eminenti personalità, tra le quali Guglielmo Marconi in divisa di accademico. Mi piaceva soprattutto sfogliare i numeri di Radiocorriere e i libretti di opere che posavano su un tavolo sul quale si alzava maestosa una radio Telefunken. Fu allora che lessi  "LAnello del Nibelungo", saga che mi affascinava da quando si era data, in collegio, la proiezione di un film muto sulle avventure del pallido Sigfrido, e ad accompagnarle dal pianoforte con le fosche ed esilaranti armonie di Wagner c'era stato un ciociaro dalle dita d'avorio, Manlio Maini.

Un giorno l'enigma della Cecilia si sciolse, melodrammaticamente. II cameriere aveva servito una squisita crème caramel, e dentro me contavo i secondi per l'arrivo della solita telefonata; invece s'udì sbattere la porta d'ingresso ed ecco irrompere in camera da pranzo a passo da granatiere un prete, il cappello clericale in pugno ed un viso rabbinico quasi volesse scagliare gli "improperia" del Venerdì Santo; dietro gli correva il cameriere spaurito come chi cerchi di rattenere l'uragano. Questo terremoto di prete mi sfioro con la tonaca senza nemmeno notarmi, e piantatesi davanti allo zio intonò una geremiade di cose che andavano a rovescio. Ci volle tutta l'affabilità e la bonarietà di Monsignor Jorio, che nel frattanto s'era alzato a riceverlo, per quietarlo, e sedutisi poi si parlarono abbastanza sommessamente, non senza però qualche altro brontolio, come fa il temporale che si allontana.

Questo prete tempestoso era don Licinio Refice, di Patrica, allora maestro di cappella della Liberiana a Santa Maria Maggiore, e musicista di una certa fama nell'ambito religioso e concertistico. Aveva recentemente completata una sua opera lirica, "Cecilia" accettata per l'inclusione nel cartellone del Teatro Reale dell'Opera, salvo le dispense ecclesiastiche necessario per lo stato clericale del compositore. Era per ottener queste che da tempo lo zio s'impegnava con sottile lavoro diplomatico nelle varie istanze della Curia; cosa non facile a quei tempi, sia per lo strascico di recenti contrasti tra Chiesa e Stato, sia per l'ambiente profano nel quale un'opera di soggetto sacro si sarebbe presentata, ma più di tutto per il fatto che il cocciuto maestro patricano insisteva a voler essere lui stesso a dirigere le prime rappresentazioni dell’opera. Non potendosi permettere ad un prete di salire il podio dell’Opera in abito talare, occorreva la dispensa per far scambiare a don Licinio la tonaca con il frac e lasciarlo, per così dire, mettersi a capotavola di una brigata frivola, mondana con donne scollacciate, concubini pubblici e politicanti dichiaratamente anticlericali e perfino atei; cosa che in certi ambienti curiali rasentava il sacrilegio. Ma i negoziati non andavano male, anche perché lo zio sapeva di contare sull'assenso, tacito, di Sua Santità, uomo di gran raffinatezza culturale. La lotta corpo a corpo tra lo zio diplomatico ed il maestro insofferente di indugi burocratici continuò durante l'estate nella villa sul lago di Albano dove passai qualche settimana con lo zio che vi villeggiava. II maestro Refice arrivava trafelato da Roma impugnando come al solito il cappello clericale quasi fosse un'arma; e li osservavo andare avanti e indietro per il viale che si affacciava sul lago, l'uno come cavallo che morde il freno, mentre l'altro cercava tenerlo per la briglia. "Cecilia" arrivò poi all'Opera con la bellissima voce di Claudia Muzio e il maestro sul podio.

Da piccolo, un'estate, mi portarono a Patrica a respirare l'aria salubre di quel paese. Fummo accolti nella casa della zia Maria, suocera di una mia zia sposata nel paese, donna traboccante di cordialità ed ospitalità; lo zio Francesco era emigrato negli Stati Uniti. Patrica è un paese incantevole al quale si arriva in una nuvola di capogiri. Le giovani donne dai nomi caratteristici risalivano le straduzze e scalette che portavano alla piazza della fontana e passeggiavano a braccetto a due e a tre per l'unica strada piana, che passava davanti l'uscio della zia Maria per portare poi verso la montagna. Le vedevo passare allegre e belle chiacchierando delle cose loro con una tale intonazione di linguaggio che pareva che cantassero parlando. Per questa strada venivano ogni mattina due preti; uno lo zio monsignore che si fermava a farmi una carezza o per darmi una caramella, l'altro, don Licinio Refice, restava impettito nel mezzo della strada guardando in alto; andavano a prendere l'aria verso monte Cacume. Conobbi lo zio Francesco negli Stati Uniti dopo la guerra; lo andai a trovare nella sua casa sopra un colle a ovest di Pittsburg nella Pennsylvania. Questa casa si apriva sull'unica strada in piano dell'abitato e nel retro si affacciava su una gran scarpata, come la sua casa di Patrica. Faceva l'operaio in una delle tante acciaierie a valle lungo il fiume Ohio nelle cui acque di notte le fiamme sulfuree degli altiforni si rispecchiavano con riverberi che, passandovi col treno, evocavano visioni di Sodoma e Gomorra. C'erano altri paesani nella zona; i più abitavano in una bolgia di paese, chiamato Aliquippa, sul quale il vento scaricava le scorie ed i fumi delle acciaierie. "Mèrica mara", come dicevano i vecchi emigranti, contenti pero di avercela fatta.

La guerra era venuta inesorabile, quasi apocalittica investendo tutti e ovunque fino agli antipodi. Durante le operazioni militari dell'estate 1943 nell'isola di Nuova Georgia, nel Sud Pacifico, un plotone di fanteria fece sosta insieme ad altri reparti sul ciglio di una savana in attesa d'ordini. Nella calma minacciosa di tali momenti, qualcuno si mise a fischiettare un'aria che vagamente familiare dapprima, venne poi a farsi chiara con tutta la prorompente vitalità di "Quando la ciociara si marita…" Mi voltai istintivamente, incredulo, e vidi spuntare sopra un dosso il "becco micidiale di una mitragliatrice calibro 30.

"Ehi, paesano", gridai senza rendermi conto di quel che facevo. "Di dove sei?"

"Su de Castro," rispose quello quasi ci trovassimo sul ponte di Ceccano il giorno della festa di San Giovanni. Indugiai un poco, e poi gli chiesi la prima cosa che mi venne in mente:

"Conosci Rocco Bartolomucci?"

Ma la risposta non venne mai, che in quel momento si spalancarono le bocche dell'inferno e quello che seguì è difficile ricordare, e più ancora raccontare.

Nel dopoguerra, il maestro Refice condusse un coro di voci bianche in un giro di concerti nelle Americhe, e ci fu anche uno nello stadio di baseball di una città industriale degli Stati Uniti. C'era poca gente, e tra il rumore dei treni che transitavano nella vicinanza ed un venticello che risalendo dal lago Onondaga sperdeva le polifonie verso le alte gradinate vuote, la serata non fu davvero un successo. Ciononostante, si poteva percepire lo spirito del maestro che dirigeva con ampi gesti delle braccia come se avesse alle spalle una sterminata platea. Fu l'ultima volta che c'incontrammo; morì poi nel Brasile. Lo zio, da anni cardinale di Santa Romana Chiesa, abitava nel Palazzo del Sant'Uffizio quando l'andammo a trovare nella primavera del 1950. A 83 anni, conservava tutto il vigore di ulivi nostrani anche quando sono scarniti dal tempo e dalle intemperie. Anche lui morì alcuni anni dopo e venne sepolto a S. Apollinare, nel cui collegio si era formato e della qual chiesa aveva portato il titolo cardinalizio.

Oggi le vie del mondo si sono allargate e diventate più battute, ed e facile incontrarsi con gente ciociara sugli aerei in rotta dal Nord America per l'Italia. Anni addietro ci si ritrovava nelle terze classi del Saturnia, del Vulcania, e più tardi in quelle alte del Constitution, Colombo, Leonardo e così via. Intrattenersi per qualche ora con loro e come tornare a casa, dovunque ci si trovi.

 

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