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da "FIGHTING PAISANO" di ALFONSO FELICI      Parte II  5

Ritorno con la "Julia"

Rimasi ricoverato nell'ospedale per quasi tutto il mese di settembre del 1942. La ferita alla gamba guariva di giorno in giorno, ed aspettavo impazientemente di essere rispedito al reparto. Si era sparsa la voce che stavano attivando le divisioni alpine, "Julia", "Tridentina", "Cuneense" e "Taurinense", ed io provavo molta nostalgia. Ritornato alla base del Terzo Bersaglieri, andato a riposo per le gravi perdite subite nei duri combattimenti, vidi piccoli gruppi di tende vicino ad Iwanowka. Quello che era rimasto di tutto il grande organico del Terzo erano poche decine di bersaglieri, ma non ripiegò mai e rimase sul Don a combattere battaglie impossibili.

Rividi l'aiutante maggiore Introzzi, che mi comunicò l'avvenuta concessione della medaglia d'argento al V.M. sul campo. Mi disse che Bertel, Criscuolo e Pellisier avevano fatto domanda per ritornare al vecchio "Monte Cervino". Esisteva, infatti, una circolare ministeriale a tal proposito, ma io risposi che mi dispiaceva lasciare il Terzo. Commosso, il maggiore Introzzi mi propose di ritornare fra i vecchi Alpini. Ormai i superstiti del Terzo erano impiegati nelle zone di retrovia. Convinto feci domanda per tornare al mio vecchio reggimento alpino, Battaglione Cividale della "Julia", arrivati dall'Italia.

Raggiunsi il battaglione; guarda caso un ritorno sul Don! Era il mese di novembre 1942. Mi assegnarono alla 16a Compagnia comandata dal capitano Chiaradia, mentre il "Cividale" era comandato dal colonnello Luigi Zacchi. Arrivato alla compagnia mi accolsero come un complemento, ma tutti guardavano le due medaglie d'argento al V.M. sul petto. Ci pensò il capitano Chiaradia a precisare che io ero in Russia da quasi un anno. Qualcuno si ricordò di me, ossia del "bocia" (121) del fronte greco-albanese. Mi ambientai subito a vivere di nuovo con gli Alpini, ma non potevo dimenticare i giorni passati con i Bersaglieri del Terzo, che si era coperto di gloria. Ebbi un tuffo al cuore nel ricordare gli amici morti sul campo. Trovai gli alpini a scavare trincee e camminamenti, pronti per combattere i russi, gli stessi che noi bersaglieri avevamo pochi mesi prima ricacciati sull'altra sponda. Sull'alto Don, nel settore affidato a noi, l'approntamento difensivo era certamente il più organizzato di tutta la linea del fronte. Con una straordinaria quantità di lavoro, gli Alpini avevano trasformato i loro rifugi in una piccola città sotterranea provvista di eccellenti difese contro il freddo e contro i russi. Ogni quindici giorni ci mandavano nelle retrovie a riposarci in paesi distanti venti chilometri. Là trovavamo un po di tranquillità ed assistenza. Io, insieme al mio gruppo andai a Pawlowsk, un paesino abitato da donne, vecchi e bambini. Feci amicizia con la famiglia Nazarov con la quale scambiai pane e qualche scatoletta di carne in cambio del lavaggio dei panni. Un giorno entrai per caso in una casa con il mio amico Olindo Bordon, di Vezzano del Trentino, per riscaldarci dal freddo e bere del latte caldo che questi contadini non ti negavano mai. Distribuimmo gallette e sapone alle donne ed iniziammo a dialogare fra noi del più e del meno. In un angolo seduto vicino al "samovar" (122) c'era un vecchietto con una lunga barba bianca di circa ottant'anni, che ascoltava attentamente la nostra conversazione. Ad un tratto il mio amico iniziò a parlare del suo paese Vezzano e fu interrotto dal vecchio che disse: "Ghe sé ancora la bettola "Bellavista" in riva al lago? ". Olindo ed io restammo sorpresi nel sentire il vecchio parlare in dialetto trentino. Questi ci rivelò che, durante la prima guerra mondiale, aveva combattuto contro i russi con l'esercito austriaco e poi fu fatto prigioniero. Dopo la guerra diventò cittadino russo avendo sposato una russa. A quei tempi lui era cittadino austriaco, sebbene di nome italiano allora irredento. Rimanemmo amici con il vecchio, al quale portavamo ogni tanto qualche pacchetto di sigarette. Ci disse che dopo la guerra voleva tornare in Italia per rivedere le sue montagne, prima di morire.

Al fronte, intanto, arrivavano sempre cannonate e colpi di mortaio ma mancavano i viveri che non arrivavano spesso. Le nostre trincee erano coperte da molta neve e ci tenevano compagnia gli innumerevoli pidocchi, che si trovavano annidati nei farsetti a maglia e nei mutandoni dateci in dotazione dall'Esercito Italiano.

La posta arrivava in ritardo e, quindi le notizie vecchie, ma in ogni modo apprezzate. Le lettere mi arrivavano da mia madre dai miei fratelli, che si trovavano nei vari fronti di guerra, da don Amasio, dalla mia madrina Jole Ghisleri e da bella Tonia Kossokowka, che mi scriveva in russo con la solita matita copiativa viola. Lei consegnava le lettere al mio amico Armando, al comando della posta militare di Jassinovatoya, ma per leggerle erano dolori. Difatti non avevo più vicino Sommariva e dovevo mandargliele al Terzo. Lui con tanta pazienza traduceva sia le mie lettere dirette a Tonia che quelle che lei scriveva a me. Era un andirivieni. Alla fine non ne ricevetti più!

Nel settore tedesco forze russe sfondarono, e noi della "Julia" dovemmo tamponare la falla. Vi furono sanguinosi scontri e numerose perdite. Il supremo comando tedesco, in uno dei suoi bollettini di guerra, definì la "Julia" come la "divisione miracolo".

La loro ostile attitudine verso gli Alpini, in ogni modo, non cessò ed in cambio ci davano di Croci di Ferro al valore Militare. Io stesso ne ricevetti una di 2a classe.

Il 15 gennaio 1943 una colonna di carri armati dell'Armata Rossa, con un attacco a sorpresa, entrò a Rossoch dove il Corpo d'Armata Alpino aveva il suo Quartiere Generale. Immediatamente gli ufficiali dello Stato Maggiore, gli autisti e tutti gli altri dell'organico vennero a combattere sulle strade contro i carri armati.

Come fecero i carri armati ad entrare nella città?

La verità è che il Corpo d'Armata Alpino fu abbandonato a se stesso, senza alcun preavviso da parte del Comando Tedesco, i cui reparti si ritirarono davanti avanzata russa.

A Nikitowka il generale Nasci incontrò il generale tedesco Obsfelder, comandante del 30° gruppo d'armata tedesco e con rabbia gli chiese perché non era stato avvisato della ritirata. La risposta del generale tedesco fu: "Pensa a resistere fino all'ultimo uomo".

"Lei è un vigliacco herr (123) generale, perché è fuggito davanti al suo nemico ", rispose il generale Nasci e, quando tornò indietro, trovò il Corpo d'Armata Alpino distrutto. I suoi valorosi Alpini erano morti combattendo contro le forze nemiche. Quando, finalmente, arrivò l'ordine di ritirarsi era tardi. I superstiti delle quattro Divisioni alpine iniziarono il loro duro calvario in una tragica ritirata che divenne più gloriosa di una grande vittoria. Centinaia di uomini con le loro uniformi fatte ormai di stracci, si ritiravano combattendo per la sopravvivenza. Con decisione, con armi italiane e tedesche trovate sulla neve, respinsero ogni attacco nemico costringendolo alla fuga. Marciammo sulla neve col freddo e col vento sui 48° C sotto zero. Attaccati dagli aerei e dai carri armati, ci ritirammo in affanno. Sfiniti raggiungemmo Nikolajewka per la quale si doveva combattere la nostra ultima battaglia, quella più sanguinosa.

Non sapevamo quale notte ci attendeva. Insieme ai superstiti della mia 16a Compagnia del Battaglione "Cividale", comandato dal capitano Chiaradia, cominciammo a scavare trincee e appostamenti. Là avevamo trovato i superstiti del Corpo d'Armata Alpino. Centinaia di loro erano feriti, mentre altre migliaia erano sulla gelida steppa, sparpagliati in una visione desolante e dolorosa. Si diceva che l'Armata Rossa avesse ammassato settemila uomini con il supporto di più di duecento carri armati, artiglieria pesante, e "katiusce" (124). Erano decisi a distruggere il resto del Corpo d'Armata Alpino.

Le schegge cominciarono a pioverci addosso incessantemente. Uno dei nostri urlò: "Guardate laggiù arrivano!". Immediatamente sulle colline apparve una scena mostruosa che non avrei più dimenticato. Le colline diventarono nere, era la valanga dell'Armata Rossa che scendeva giù per annientarci. Ci volle poco per capire che il momento era critico e che tutti dovevamo darci da fare per tentare di fermarli. Ma come? In quel momento eravamo circondati su tutti i lati e i generali Ricagno e Riverberi, sorpresi da quell'inferno, decisero di attaccare per dimostrare che per prendere Nikolajewka erano pronti a tutto. La nostra controffensiva, infatti, li obbligò alla difensiva. Si era creata una strana situazione; i russi difendevano il loro suolo e noi la nostra pelle!

Un altro attacco fu preparato a sorpresa durante la notte, vi furono atti di eroismo e tre carri armati furono di strutti.

Il 23 gennaio era il mio ventesimo compleanno ma niente spumante, niente pane, niente vino ma solo cannonate!

Molti miei amici caddero. Battistuti, Venier, Longoni, Petruzzi e il nostro comandante di plotone, il sottotenente Severini, giacevano là sulla neve mentre il cappellano improvvisava una preghiera ed una benedizione, ma noi non avevamo tempo di guardare. Gli aerei sovietici, vista la nostra accanita resistenza, iniziarono a scaricare una pioggia di volantini sulle nostre linee per indurci alla resa. I nostri reparti erano dissanguati. Sentivamo la nostra fine. Seguì un altro attacco dei russi con gli "hurrà, hurrà" che si avvicinavano, e questa volta dovemmo intervenire con le baionette e le bombe a mano. Ecco che, ad un certo punto, incominciarono ad avvicinarsi sette carri armati con le loro torrette che sparavano all'impazzata. Ci furono molti morti nei vari Battaglioni e indietreggiando trovammo i loro corpi sparsi ovunque. Non avevo mai visto tanti morti nello stesso posto.

Il giorno dopo ci buttammo tutti avanti per aprirci un varco. La disperazione ci fece ottenere un successo di sangue, ma alla fine passammo. Più di tremila Alpini caddero valorosamente, fra loro il generale Martinat ancora con il fucile in mano. Fu aperta la via che ci avrebbe portato in Italia grazie al grande eroismo di ogni singolo Alpino.

In quella battaglia fui ferito al braccio destro, dopo aver collocato una mina sul retro di un carro armato T/34 che esplose in fiamme. Mi fu data una medaglia al V.M. sul campo. Sparpagliati in piccoli gruppi, con slitte improvvisate e i feriti a bordo, procedemmo alla ricerca delle linee tedesche che si erano attestate per contenere l'avanzata russa. Io non volli montare sulle slitte, anche se ero ferito, perché, con il braccio ben stretto da una fasciatura, ero ancora autosufficiente. Avevo bombe a mano e mitra "Breda" che potevo usare con la mano sinistra appoggiandolo sotto l'ascella destra, il braccio mi faceva male, ma bisognava arrangiarsi. Il giorno dopo il bollettino di guerra sovietico annunciò: " Solo il corpo alpino non è stato sconfitto in suolo russo ". L'ammirazione del nemico nei nostri confronti ci rese orgogliosi.

Il 9 marzo 1943, dopo un centinaio di chilometri di marcia forzata nella steppa, attaccati da partigiani, mitragliati dagli aerei ed abbandonati dai tedeschi, che non si fermavano con i loro camion, mangiando semi e tutto quello che trovavamo nelle ìsbe (125) abbandonate (rape, cetrioli e barbabietole in salamoia), raggiungemmo le linee tedesche affollate da soldati ungheresi e romeni senza armi. Noi Alpini, con le divise logore e malconce, arrivammo a Solbin dove i tedeschi avevano formato una linea di resistenza. Arrivammo armati dopo aver combattuto per giorni, trascinandoci dietro i nostri feriti. I tedeschi ci guardavano meravigliati perché noi eravamo ancora armati mentre gli ungheresi e i romeni erano disarmati e ci guadavano a testa bassa. Subito furono distribuite scatolette di margarina, caffè, pane e cognac. Vedevo che i tedeschi ci guardavano ammirati.

Mentre i feriti erano medicati, gli altri alpini furono inviati ad un posto di tappa per poi essere rimpatriati in Italia. L'avventura era finita! Vedendomi il nastrino della Croce di Ferro sulla giubba, fui portato su un treno tedesco. Dopo lungo attraversamento della Polonia e della Cecoslovacchia, arrivammo a Vienna. Ci portarono in un ospedale militare che si trovava in un gran parco e, debbo dire, che l'assistenza medica fu irreprensibile. Il mio braccio stava andando in cancrena ma fecero in tempo ad evitare l'amputazione.

Mi fu ingessato il braccio destro come se facessi il saluto nazista. Tutti ridevano appena mi vedevano. Siccome potevamo andare in libera uscita (ovviamente i feriti meno gravi), mi consegnarono la divisa della Werhmacht perché, essendo l'unico italiano ricoverato lì erano sprovvisti di quella da Alpino, così mi regalarono una divisa completa di stivali, berretto e cinturone con su scritto "Gott mit uns".

Andato in libera uscita la prima cosa che feci fu di rintracciare Myriam Goldberg, la ragazza ebrea che avevo conosciuto prima di raggiungere il fronte russo. Ormai conoscevo la lingua tedesca e in un paio d'ore riuscii a trovare Naglerstrasse ed il portone dove lei abitava. Domandai ad una signora dov'era la porta dei Goldberg ma questa, con aria stranamente sospettosa, mi additò il terzo piano al numero 14. Salii in fretta ed arrivato alla porta vidi che c'era un altro nome ma suonai lo stesso. Ero emozionantissimo! Alla porta venne ad aprire un giovane ragazzo che vedendomi in divisa mi fece un bel saluto nazista. Entrai e subito gli chiesi se c'era Myrian Goldberg, ma il ragazzo si rabbuiò e mi chiese perché stessi cercando un'ebrea, e alla fine mi disse che la ragazza era stata deportata in un lager in Germania. Questa notizia mi rattristò molto. Mentre mi trovavo ancora lì da una camera venne fuori la madre del ragazzo alla quale il figlio raccontò tutto. La signora mi disse seccata: "Quella ragazza era un 'ebrea!". Salutai bruscamente ed uscii da quella casa e mentre scendevo le scale sentivo la donna che urlava in malo modo.

Dopo un mese di degenza in quell'ospedale finalmente arrivò il giorno di ritornare in Italia. Non ero del tutto guarito, ma già stavo meglio ed avrei dovuto fare un periodo di permanenza in ospedale militare italiano per poi essere inviato in licenza di convalescenza a casa.

Dopo aver salutato con tanti "Heil Hitler" (126), i miei amici tedeschi ricoverati in ospedale, fui condotto alla stazione ferroviaria di Vienna e caricato su un treno della Croce Rossa Italiana proveniente da Leopoli (Polonia), con a bordo molti feriti di guerra.

Quando il treno si mosse non vedevo l'ora di arrivare in Italia. Passarono molte ore ma finalmente arrivammo a Tarvisio. Ai lati del marciapiede fummo accolti calorosamente dai Balilla e dalle Piccole Italiane dell'O.N.B. che ci distribuirono arance, e bottigliette di grappa. Fra loro vi erano i gerarchi fascisti e crocerossine.

Affacciato al finestrino vidi dei ferrovieri che parlavano fra loro con accento romano. Chiesi come stava in classifica la mia squadra del cuore, la Lazio. Questi mi rispose malamente: "Sta andando in serie B!". Evidentemente era un romanista e seppi dopo, leggendo un giornale, che invece la Lazio era quarta.

Man mano che il treno correva, gli ufficiali medici ci dicevano in quali ospedali militari saremmo stati assegnati. A me fu detto che sarei stato ricoverato all'ospedale "Rizzoli" di Bologna. Qui A Bologna vi rimasi 25 giorni e fui nuovamente operato da medici esperti che mi sistemarono l'avambraccio con le dovute cure e in seguito mi trasferirono all'ospedale militare del Celio a Roma.

Qui vennero a trovarmi mia madre ed Antonio, mio fratello. Fui molto felice di riabbracciarli.

Durante i mesi di degenza al Celio ogni tanto ci concedevano permessi speciali per recarci gratis all'Opera, oppure ad assistere alle partite di calcio. Io che ero un acceso tifoso della Lazio andavo sempre a vedere le partite dove era impegnata la mia squadra del cuore. Una domenica andai a vedere allo stadio (allora del P.N.F., ora Flaminio), la partita Lazio-Juventus. Vestito da Alpino con tutte le mie decorazioni e con il braccio destro ingessato, mentre ero seduto nella tribuna centrale, mi sentii bussare sulla spalla e voltandomi vidi il commissario unico della Nazionale, Vittorio Pozzo, che abbracciandomi mi disse: "Hei Bocìa, io sono stato capitano degli Alpini nella prima Guerra mondiale, nell'intervallo ti offrirò un grappino al bar, bravo!"

Prima dell'intervallo scendemmo al bar e immediatamente gli chiesi se mi poteva portare alle docce per farmi parlare con Silvio Piola. Acconsentì e così mi fece parlare con Silvio Piola al quale ricordai che, quando la Lazio venne a giocare a Frosinone per l'inaugurazione del nuovo campo sportivo, lui mi chiamò e mi diede una lira per comprargli una gassosa. Quando gli portai la bevanda mi regalò la mezza lira di resto e mi fece entrare per vedere la partita.

Durante la convalescenza, scrissi una lettera al maresciallo d'Italia Ugo Cavallero, allora Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, che durante una visita al fronte greco-albanese mi vide in trincea con gli alpini e quando seppe che avevo sedici anni mi strinse la mano e mi regalò trecento lire che mandò a mia madre. La sua risposta non si fece attendere e tramite il suo Aiutante di Campo, il Colonnello Asinai di San Marzano, mi convocò allo Stato Maggiore a Via del Corso, per una visita di cortesia.

Mi prelevarono con una macchina dell'esercito e fui condotto davanti al maresciallo. Qui ebbi la sorpresa di trovare il feld marshal Kesserling, comandante delle forze tedesche in Italia. Il generale Kesserling, cui fui presentato, si congratulò con me quando vide il nastrino della Croce di Ferro tedesca, ma dal suo sguardo capii che era molto preoccupato per gli eventi bellici in Africa che stavano precipitando irreparabilmente. In seguito feci una visita al maresciallo Rodolfo Graziani, caduto in disgrazia. Fu molto contento e mi mandò dal cardinale Domenico Jorio (127), mio concittadino. Gli telefonò e mi fece accompagnare dal suo autista. Durante il nostro incontro il cardinale fu molto affabile. Volle sapere a chi ero figlio e subito gli risposi che ero il nipote di Lucia Reatini, moglie di suo fratello Andrea. Mi domandò molte cose del nostro paese e se le "c'rasa" (128) erano buone come una volta.

Mi chiese ancora come era tenuta la chiesa della Madonna dello Spirito Santo della quale egli era molto devoto. Gli dissi che don Amasio teneva la chiesa con molta cura e vi celebrava la messa almeno due volte al mese e che il santuario era meta di continui pellegrinaggi da parte dei nostri cari paesani.

 

S.E. il Cardinale Domenico Jorio

Fu contento di queste buone notizie e nell'accomiatarsi da me disse: "Saluta mio fratello Andrea, le mie sorelle Maria e Loreta, e digli che prima di morire farò visita a Villa Santo Stefano". Ma, purtroppo non gli riuscì mai! Il cardinale mi fece accompagnare al Celio dal suo autista, che era Umbertino Rossi padre del mio amico Luigi. Quel giorno rimediai due mila lire, mille dal maresciallo Graziani e mille dal cardinale Jorio.

La mia libera uscita dall'ospedale la passavo andando a trovare amici e paesani. Seppi che Aldo Spaziani, Remo Venditti e Claudio Zomparelli si erano arruolati nella Guardia di Finanza e prestavano servizio come allievi nella caserma di Viale 21 aprile a Roma. Era da tanto tempo che non vedevo miei amici d'infanzia e decisi di andarli a trovare.

Mi presentai al portone della caserma della guardia di finanza con il braccio ingessato, in divisa e con le tre medaglie d'argento al V.M. sul petto e chiesi al capoposto se potevo vedere i miei amici. Immediatamente venne l'ufficiale di picchetto che a sua volta chiamò il comandante della compagnia informandolo della cosa. Sinceramente non mi aspettavo tanti saluti militari e rispetto, ma capii che lo facevano per onorare un ferito di guerra decorato, ed inoltre, anche loro avevano un cappello alpino con la penna e vollero associarsi allo spirito di corpo. Il capitato della compagnia fu disposto a concedere un permesso a Remo Venditti e a Claudio Zomparelli ma non ad Aldo Spaziani che si trovava agli arresti disciplinari. Ci rimasi male e il capitano dispiaciuto mi disse di avere un po di pazienza e di attendere. Dopo quindici minuti apparvero i miei amici Aldo, Remo e Claudio pronti ad uscire con me. Il capitano aveva chiesto al maggiore in servizio di far uscire anche Aldo. Ci abbracciammo tutti e quattro e di corsa uscimmo per divertirci. Girammo Roma in lungo ed in largo trattenendoci in ogni osteria, fermando le ragazze e schiamazzando mentre i passanti ci guardavano divertiti e ci offrivano da bere.

Decidemmo di andare a Piazza Vittorio, dove esisteva un centro di divertimento per le Forze Armate. Là vi erano molti tipi di gioco e dopo averli provati tutti ci dirigemmo al tiro a segno dove, se colpivi al centro, ti regalavano una foto. Io ci provai con la mano sinistra, poiché l'altra era ingessata, ma feci cilecca. Astutamente la bella ragazza addetta al banco, viste le mie difficoltà, fece finta che avevo fatto centro e fece scattare i flash sotto il banco. Mi diede la foto e un bacio!

 

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121.Ragazzo in dialetto veneto.

122.Sorta di stufa a legna.

123.Signor.

124.Particolare tipo di lanciarazzi di fabbricazione russa.

125.Case di campagna.

126.Saluto Nazista.

127.Nato a Villa Santo Stefano il 7 ottobre 1867 ed eletto cardinale il 16 dicembre 1936. Nel 1932 fondò una scuola materna nel nostro paese e morì a Roma il 21 ottobre 1954 dove riposa nella chiesa di Sant'Apollinare.

128.Ciliege.

 

 

 

 

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dicembre 2004

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