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da "FIGHTING PAISANO" di ALFONSO FELICI      Parte II  4

La battaglia di Natale

Le nostre azioni si limitavano a pattuglie dì disturbo per saggiare la potenza delle forze nemiche. Eravamo addestratissimi ai colpi di mano. Ognuno di noi era armato di un fucile mitragliatore "Breda", di bombe a mano e i nostri sci erano efficienti grazie alla sciolina che reggeva il freddo e l'umidità. Eravamo schierati su un fronte di oltre quattro chilometri, in un terreno privo di appigli naturali per la difesa, scoperto sul fianco sinistro in corrispondenza di un vuoto di circa sei chilometri.

La battaglia si accese con estrema violenza all'alba del giorno di Natale del 1941. Di fronte a noi erano ammassate due divisioni di fanteria e un corpo di cavalleria russo. Alle 6,30 del giorno di Natale un violento fuoco di preparazione annunciò l'attacco che dopo dieci minuti divenne cruento, sostenuto da numerosi carri armati e dalla carica a cavallo dei cosacchi. La resistenza della "Cervino" fu accanita, ma la preponderanza dei russi era travolgente. Le nostre artiglierie cominciarono a sparare a zero. I cosacchi saltavano le nostre trincee uccidendo gli Alpini e i carri armati schiacciavano inesorabilmente tutto quello che si trovavano davanti. Fu una carneficina e un intero battaglione distrutto.

Dopo quella dura battaglia ci mandarono nelle retrovie, in un "kolkos" (111), per riposare. Eravamo rimasti circa in sessanta ed i feriti erano più di duecento senza contare i morti. Per i restanti mesi i pochi rimasti facevano le pattuglie per le divisioni "Celere", "Torino" e "Pasubio". Distribuiti in queste divisioni non eravamo più Alpini. Alla fine decisero di incorporarci nelle divisioni in cui operavamo. Fu così che io da, baldo Alpino, diventai un animoso bersagliere del terzo Reggimento Bersaglieri del valoroso colonnello Amintore Carretto, della divisione "Celere".

L'impatto tra il cappello alpino e quello piumato di bersagliere fu un po duro per noi sei, ex del "Monte Cervino", ma dopo il cambio delle mostrine tutto diventò più facile, sperando che dal cielo, i fondatori dei due corpi, il generale La Marmora e il generale Perucchetti, l'avrebbero presa in allegria.

I rapporti fra noi furono buoni mentre il nemico ci aspettava. Al 31° bersaglieri fummo assegnati al 18° Battaglione. Gli altri ex alpini erano: Tosatto, Neri, Criscuolo, Bertelli e Pellissier.

II colonnello Carretto ci fece un breve discorso, e volle che sul nostro elmetto rimanesse la penna nera alla quale aggiungemmo le piume di gallo dei Bersaglieri. Ci chiamavano, infatti, "cent'un penne " per via della canzone degli Alpini che dice: "I Bersaglieri han cento penne, ma l'alpino ne ha una sola".

Trovammo come comandante di compagnia il capitano Marcheggiani, un uomo in gamba, e con lui partecipammo a diverse azioni offensive. Il sergente maggiore Meazza di Varese e il caporale Colombo di Milano, furono decorati con la Medaglia di Bronzo e con la Croce di Ferro di 2a classe, per l'azione in territorio nemico alla quale partecipai anche io. Intanto la primavera era arrivata e la neve sciogliendosi ci toglieva il lavoro, fino a quando gli sci furono messi definitivamente nel ripostiglio. Ormai si pensava ad un attacco in primavera o alla controffensiva dei russi. Il nostro comando pertanto organizzò un corso per squadre di guastatori anticarro presso il IV battaglione artiglieri del C.S.I.R. dislocato a Jassinovatoya. Eravamo in tutto quaranta uomini scelti dal Terzo, ed appena arrivati sul posto vidi l'indicazione del Btg. Sciatori "Monte Cervino", che si trovava a circa 60 km da Jassinovatoya.

Siccome avevamo tutta la giornata di riposo e non trovando il tenente Angelo Cagnacci di Roma, andai da solo senza permesso. Non riuscivo a capire l'esistenza del mio ex battaglione che era stato quasi distrutto. Lo capii quando vidi che era stato ricostituito con i nuovi complementi giunti in seguito dall'Italia.

Il colonnello D'Adda era rientrato in Italia malato. Era il 15 ottobre, festa della fondazione del corpo degli Alpini. Per sentirmi uno di loro, tolsi le mostrine cremisi da bersagliere, che avevo cucito sopra quelle verdi di alpino, rimossi il piumino sull'elmetto e lasciai solo la penna nera. Tutti mi fecero festa. Rividi qualche vecchio amico e partecipai al rancio speciale. Il comandante del "Cervino" era il maggiore Giuseppe Lamberti e insieme a lui salutai il capitano medico Enrico Reginato.

Trascorsi una bella giornata rievocando le vecchie battaglie, ma arrivò l'ora del commiato e salutando tutti mi avviai sulla strada che mi doveva riportare a Jassinovatoya.

Fermo sulla strada, provai a fermare qualsiasi mezzo tedesco, ma loro neanche mi notavano e passavano diritto senza fermarsi. Si faceva sempre più buio e stavo per ritornare all'accampamento del "Cervino", quando passò un motociclista della Regia Aeronautica che doveva andare al campo d'aviazione, situato dalla parte opposta di Jassinovatoya, che mi rimorchiò fino ad un crocevia. Rimasi lì ad attendere altri veicoli militari ma con il buio non mi vedevano, perché tenevano i fari spenti per non essere bombardati da qualche aereo russo in ricognizione.

Si fece notte fonda e fui costretto, mio malgrado, a bussare ad una casa (domoi) di contadini russi. Sapevo che era proibito passare le notti in case di civili ma, vinto dall'impossibilità di camminare per 40 km per raggiungere il mio accampamento, bussai ed attesi. Mi fu aperto da una donna di circa 45 anni che s'impauri vedendomi ma, con il russo "imparaticcio", le spiegai il problema. La donna mi fece entrare con la dovuta cortesia e mi presentò ai suoi figli quasi tutti "malenchi" (112), eccetto la figlia bionda e con gli occhi azzurri, di quasi vent'anni. La donna mi raccontò che il marito era partito per il fronte e non era più tornato. Erano ucraini di Kiev trasferitisi là per lavorare nelle miniere di carbone. Mi fu usata molta gentilezza e m'invitarono a cena. Sulla tavola vidi dei piatti nei quali la donna versava una brodaglia calda, e "kartoske" (113) per contorno. Allorché tirai fuori dal mio zaino delle scatole di carne, il tonno, le gallette, la cioccolata, un paio di arance ed un limone.

Cenammo in tranquillità. A tratti conversavo con la figlia, che aveva molto interesse a sapere dell'Italia e ogni tanto diceva: "Italia mnoco crassiva" (114).

Il suo nome era Tonia Kossokowka, era una studentessa che aveva interrotto a causa della guerra la facoltà d'ingegneria al primo anno. Era bellissima con seni possenti compressi dentro un reggipetto di tela ruvida. Con me ridacchiava intimidita per rompere il ghiaccio. Io insistevo nel fargli domande di approccio e piano piano lei si scioglieva e dal modo in cui mi guardava capii che gli ero simpatico. Finita la cena mi chiese di cantargli una canzone italiana (talianski zavadilla) e vedendo che io titubavo, lei prese una balalaika e cominciò a cantare, "Rasvidali la blugni e grushi popoliti tumani nat rikojj, vikadilla nabirec Katiusha ". Era una canzone della primavera molto popolare, che in Italia era conosciuta come "Soffia il vento della primavera", usata in seguito nei festival dell'Unità.

Incoraggiato, anch'io iniziai il repertorio italiano con "O Sole mio", "Chitarra romana" e "Non ti scordar di me". Subito bussarono alla porta e la casa si riempì di donne e bambini del vicinato, attirate dai miei acuti. Fui applaudito e tutti mi dicevano "Dobro tenor, dobro tenor" (115). Si fece tardi e la mamma ed i bambini andarono a dormire. Tonia rimase con me sola fino a tarda ora e cominciammo a baciarci ed abbracciarci. Più tardi mi accompagnò in una cameretta dove avrei dovuto dormire. Si sedette sul lettino e con quegli occhi azzurri mi fece capire che sarebbe rimasta con me tutta la notte. L'indomani la salutai e le promisi che sarei venuto a trovarla ogni sera per tutta la durata del corso Guastatori.

Raggiunto Jassinovatoya trovai il tenente Angelo Cagnacci "incazzatissimo", voleva mettermi agli arresti per diserzione e deferirmi alla Corte Marziale. Era inviperito anche perché mi vide con le mostrine degli Alpini che non avevo più rimpiazzato con quelle dei Bersaglieri. Cercai tutti i modi per fargli capire che ero andato a trovare i miei amici, e che non ero riuscito a tornare per mancanza di mezzi. Il tenente Cagnacci, che era romano mi disse alla romanesca: "Sei un grande stronzo e figlio di mignotta, ma ti farò rapporto appena tornati al Reggimento".

Il corso Guastatori anticarro continuò per una settimana ed ogni sera, con alcuni commilitoni andavamo a Berozinè a ballare con le "barisnie" (ragazze), amiche di Tonia. Bastava un grammofono con qualche disco o una semplice fisarmonica per rallegrare l'ambiente.

Le ragazze danzavano e ridevano allegramente. Ogni tanto le danze s'interrompevano e qualcuna proponeva qualche gioco, poi le più ardite ci obbligavano ad un "puzzului" (116) alla ragazza con cui si ballava. Io e Tonia ballavamo sempre insieme perché voleva essere baciata solo da me e non voleva che baciassi qualcun'altra. Allora capii che mi amava e che era diventata gelosa, e cercava di farmelo capire con sguardi travolgenti.

Tornati nella sua casa ci appartavamo nella cameretta, lontani dagli sguardi materni e fraterni. Le ragazze non avevano i tabù delle "morose" lasciate in Italia. Erano libere e vivevano le loro avventure senza avere alcun senso di colpa. Tonia si concedeva a me come una fidanzata e fra un bacio e l'altro mi diceva: "Ja liubbiti" (117). Con l'andar del tempo ci fidanzammo ufficialmente e, dopo la guerra, era disposta a venire in Italia con me. Venne alla fine il triste giorno della partenza e, senza dir niente alla mamma, venne a Jassinovatoya a salutarmi, e a dirmi "dasvidanje" (118). La presentai al mio amico romano del quartiere San Lorenzo, Armando Pagliaro, con cui giocavo a calci al campo sportivo "Cavalieri di Colombo", quando da Ostia andavo a trovare mio fratello Alfredo.

L'avevo ritrovato alla Posta Militare come impiegato e lo pregai di inoltrarmi al fronte le lettere che Tonia gli consegnava. Tornai al fronte e dopo il rapporto del tenente Cagnacci al comando del Reggimento, per il mio possibile deferimento alla Corte Marziale per diserzione, fui graziato dal colonnello Amintore Carretto per i miei meriti di guerra, ma per punizione fui trasferito al 25° battaglione comandato dal maggiore Enrico Manca, un valoroso sardo. Quasi settimanalmente mi arrivavano le lettere di Tonia che mi facevo tradurre dal sergente Sommariva, interprete russo nel reggimento. Sommariva oltre a tradurre quelle di Tonia, traduceva le mie dirette a lei. Le lettere di Tonia erano appassionate e piene d'amore ed io avevo preso una vera "cotta". Gli avevo dato i miei tre indirizzi in Italia, quello di Villa Santo Stefano, quello di Ostia e quello di Roma qualora, dopo la guerra, non avesse avuto mie notizie. La prova d'amore me la diede quando un giorno mi arrivò una sua lettera nella quale mi comunicava che si era recata ad Oblenski, a circa trecento km dal fronte, ospite di una famiglia amica. Mi chiedeva di andarla a vedere e che mi avrebbe aspettato fino a quando non sarei arrivato. Questo fatto mi preoccupò un po' e alla fine chiesi un permesso di cinque giorni che mi fu concesso. Non fu difficile ottenere questo permesso poiché il fronte era fermo sulle trincee nell'attesa di sferrare l'attacco di primavera. Dopo aver messo lo zaino in spalla, pieno di cibarie e di viveri a secco, da consumare durante i cinque giorni, intrapresi il lungo viaggio prendendo decine di mezzi per arrivare ad Oblenski. L'incontro con Tonia fu meraviglioso.

La famiglia che la ospitava fu di un'eccezionale gentilezza riservandomi una camera pulita e tanta riservatezza. Furono cinque giorni d'amore infinito. Quella fu l'ultima volta che la vidi; la tragica ritirata non mi permise più di rivederla. Non arrivarono più le sue lettere. E intanto i mesi passavano. Tornato al fronte, il capitano Nicola Cataldo di Bari, mi mandò molte volte di pattuglia ed una sera quando, con cinque Bersaglieri, andammo ad oltrepassare le linee nemiche per depositare volantini di propaganda da far leggere ai soldati russi, c'inoltrammo vicino a un fortino notammo quattro soldati russi intenti a consumare la cena. Mandai il caporale maggiore Leonardo Di Stefano, insieme ai quattro bersaglieri, all'accerchiamento. Io imbracciai il M.A.B. intimai "Davajrucà" (119), e li facemmo prigionieri portandoli alla nostra linea.

A Giugno iniziò la nostra avanzata vera e propria. Lasciammo le linee invernali e notammo che i russi si erano ritirati oltre. L'avanzata continuò fino a quando ritrovammo il nemico nei pressi dell'ansa del Don. Durante l'avanzata trovammo un aereo russo RATA, atterrato con il pilota che si arrendeva. Era un ucraino che disprezzava la guerra.

Il nemico, appoggiato da potenti mezzi corazzati, scompigliò il nostro schieramento. Intervenne l'aviazione tedesca con gli Stukas (120) in picchiata che distrussero cinque carri armati russi, ma uno Stukas della squadriglia sbagliò obiettivo ed uccise più di venti Bersaglieri, fra i quali l'attendente del maggiore Manca. Dopo aspri combattimenti raggiungemmo il fiume Don. La nostra avanzata procurò inestimabili perdite nello schieramento. I carri armati russi distrussero tutti i pezzi d'artiglieria della Divisione "Celere" ed i loro automezzi. In uno di questi scontri cadde, alla testa dei suoi bersaglieri, il colonnello Amintore Carretto e con lui il cappellano del Terzo, don Giovanni Mazzoni. Ci fortificammo sulle rive del Don. Questo fiume era placido e, in certi punti, guadabile. Gli uccelli acquatici pescavano tranquillamente i pesci con i loro lunghi becchi, fra due nemici che da una sponda all'altra aspettavano il momento per attaccarsi. I cecchini non davano tregua e, non appena si muoveva qualche cosa, sparavano raffiche da ogni parte. Al paese, il comando faceva circolare gli abitanti anziani ai quali i cecchini non sparavano. Noi, allora, vestiti da donne con i copricapo bianchi, potevamo circolare tranquillamente senza essere colpiti, anche se alcune volte qualche Bersagliere veniva ucciso perché i russi gli scorgevano addosso il luccichio delle armi o delle gavette.

Sul Don rimanemmo in trincea per alcune settimane: sempre scaramucce da parte nostra e da parte russa. Di notte, con colpi di mano, sia noi sia il nemico facevamo prigionieri raggiungendo le due sponde. La distanza da una riva all'altra era di circa trecento metri, e quasi tutte le sere i fuoriusciti italiani, quali D'Onofrio, Togliatti, Longo, Secchia ed altri, tramite gli altoparlanti, sputavano frasi esortandoci a disertare e raggiungere le loro linee. Una notte il nemico attraversò il fiume con le zattere con a bordo ingenti forze. Ci ritirammo in disordine sulle alture opponendo una valida resistenza contro il nemico incalzante. A quota 232,2 mi lanciai per primo alla conquista di una posizione munita, trascinando tutto il plotone all'attacco. Nell'azione fui ferito e per tale fatto mi conferirono una Medaglia d'Argento al Valore Militare sul campo. Quello stesso giorno il Don fu riconquistato, ed io fui inviato in un ospedale da campo per guarire la ferita ricevuta alla gamba sinistra.

Mentre l'ambulanza scendeva sulla strada fummo attaccati da un gruppo di soldati russi infiltratisi nelle nostre linee. Ci volle il coraggio dell'autista che, con peripezia, riuscì fra buche e zolle a portarci in salvo tra colpi di parabellum e di fucilate. Sull'ambulanza eravamo sei feriti impauriti. Andando verso l'ospedale da campo nelle retrovie incontravamo lunghe colonne di prigionieri russi, comandati dai soldati tedeschi. Un prigioniero esausto cadde al suolo sfinito, un soldato tedesco gli intimò di alzarsi e proseguire, non ottenendo risposta il soldato eliminò il prigioniero con una scarica di "machine pistolen". Immediatamente alcuni prigionieri russi si avventarono sul morto e lo spogliarono di tutto.

L'ambulanza arrivò all'ospedale da campo 230 situato a circa 80 km dal fronte. Erano delle tende bianche con sopra l'insegna della Croce Rossa. Mi portarono su una brandina e subito mi medicarono la gamba. La ferita, provocata da una scheggia, non era grave anche se presentava una lacerazione profonda sopra il polpaccio vicino l'osso, ma mi assicurarono che in un mese sarei guarito.

Nell'ospedale erano ricoverati molti soldati del Terzo Bersaglieri, del Sesto Bersaglieri, della "Sforzesca" e di altri reparti del C.S.I.R. Vi erano amputati agli arti inferiori e superiori e malati di vario genere. Vi erano due soldati guardati dai carabinieri perché si erano sparati una fucilata al piede ed alla mano. Sarebbero stati processati, in seguito, dalla Corte marziale di Guerra. All'ospedale da campo eravamo trattati bene con cibo caldo, vino, caffè e sigarette. Soprattutto la pulizia ci aveva liberato dai pidocchi. Ci faceva piacere parlare con le crocerossine italiane che si adoperavano per esaudire ogni nostra richiesta. Esse scrivevano lettere ai soldati cui erano state amputate le mani. Era triste vedere i feriti rimasti ciechi che piangevano pensando al ritorno a casa, dove non potevano vedere più niente ma solo sentire la voce della moglie o fidanzata.

Vedevamo le numerose ambulanze che ogni giorno trasportavano i feriti più gravi ai treni ospedali con i quali erano portati in Italia. C'era quasi invidia nel vederli partire, ma poi pensavamo che fosse stato meglio tornare in patria in buone condizioni e non come loro invalidi al cento per cento.

 

 

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111. Azienda agricola nella quale c'erano dei grossi capannoni per il ricovero del bestiame, che servì come accampamento per il riposo dei soldati

112.Piccoli.

113.Patate.

114.L'Italia è molto bella.

115.Bravo tenore!

116. Bacio.

117.Io ti amo.

118.Arrivederci.

119.Mani in alto.

120.Caccia bombardieri tedeschi.

 

 

 

 

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dicembre 2004

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