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da "FIGHTING PAISANO" di ALFONSO FELICI      Parte III  10

Eccomi Tokyo!

A questo punto la mia storia inizia a cambiare. Il capitano Hamilton mi comunicò che la mia domanda per essere trasferito sul fronte del Pacifico era stata accettata dal Dipartimento di Guerra di Washington.

Feci la domanda perché ancora non potevo andare in congedo come gli altri, infatti, mi mancavano i punti necessari per due anni di servizio al fronte. Sarei dovuto rimanere ancora per sei mesi in Germania con le forze d'occupazione, ma preferii andare nel Pacifico, area in cui gli americani ancora combattevano contro le forze giapponesi.

Munito di regolari documenti con destinazione Manila, nelle Isole Filippine, salutai tutti gli amici e, con la benedizione di father O'Hara, partii. Non riuscii a salutare il generale George Patton perché si trovava fuori zona. Fui assegnato ai reparti di operazione "Olympic and Coronet" che dall'Europa si trasferivano sul fronte del Pacifico.

Fummo trasportati ad Ulm, dove c'era il punto di raccolta. Guardando le segnalazioni stradali trovai un'insegna con sopra scritto "Observation Battalion First Field Artillery-Donauwort". Chiesi subito un permesso e mi recai dai miei vecchi amici. Quando Plummer, Geisndorfer, Vassello, Phillips e Clapper mi videro arrivare, non credevano ai loro occhi nel vedermi vivo e vegeto.

Molte cose erano cambiate nel battaglione: il capitano Fred Howe era diventato maggiore e comandava il battaglione, Tietze era stato promosso capitano e comandava la Batteria "H", il primo sergente Lawrence Presnell era diventato tenente, ed io mi presentai a loro con il grado di sergente. Fu una gran festa. Si stapparono diverse bottiglie di champagne e Harry Plummer, diventato sergente della cucina, servì molte bistecche ai ferri. I miei amici erano felici di rientrare negli stati Uniti dopo oltre due anni. Chiesi di Lupo ma mi fu detto che era stato ucciso sul fronte da una scheggia. Io mi rattristai molto. Quando ripartii per Ulm tutti mi abbracciarono e mi dissero: "Ciao paisan!". Frank Vassello, un italo-americano di Luzeme Pennsylvania, volle accompagnarmi con la jeep fino ad Ulm.

II giorno dopo ci caricarono su un lungo treno che ci portò fino a pochi chilometri da Marsiglia. Arrivati in una stazione secondaria fummo caricati su alcuni autocarri che ci portarono in un pool di attesa, ci furono consegnati gli indumenti tropicali ed altro equipaggiamento.

Andai in permesso con Ralph e girammo Marsiglia in lungo ed in largo fino alla Cannebière. Per i francesi, l'entusiasmo per i soldati americani era calato, e quasi nessuno ci filava, eccetto qualche prostituta che cercava di accalappiarci.

Il 28 maggio 1945 ci trasbordarono sulla nave da trasporto "SS Lurline" e sistemati a bordo sulle cuccette. Il viaggio iniziò la sera. Io intanto avevo fatto amicizia con Ralph Honnett.

L'indomani arrivammo allo stretto di Gibilterra e per la prima volta vidi i delfini che saltavano sulle onde. Continuò il tragitto sull'Atlantico. Passammo le isole Canarie, dopo le Antille ed infine arrivammo nel canale di Panama. Non mi sorpresi quando vidi la nave passare di vasca in vasca e i portelloni che si chiudevano dietro.

Questo movimento lo avevo letto nei libri delle scuole elementari, e la maestra Giovannina spesso mi mandava alla lavagna a disegnare le fasi di passaggio.

La nostra nave attraccò dopo aver navigato ai Gatun Locks. Scendemmo a terra e, camminando in due lunghe file, attraversammo Gatun e poi ci sistemarono nelle baracche di una caserma situata in un fresco posto tropicale. Facemmo la doccia, pranzammo e la sera dormimmo in un bel letto con le lenzuola pulite. La mattina dopo c'imbarcammo di nuovo sulla nave "Lurline" e continuammo a navigare sul canale fino a quando uscimmo sull'oceano Pacifico. Fu una bella esperienza. Due città, che si affacciano sul canale, sono intitolate a Cristoforo Colombo, che in spagnolo è chiamato Cristobal Colòn.

Ci accorgemmo che, in quella zona, ancora eravamo in guerra, infatti, tutti gli oblò della nave furono oscurati per paura di qualche attacco giapponese sia aereo sia sottomarino, ma questo poteva essere solo un caso giacché la marina americana aveva quasi annullato quella giapponese. Dopo una lunga navigazione, passando vicino a tante belle isole del Pacifico, in alcune delle quali si erano svolte famose battaglie, finalmente arrivammo a Manila, nelle Isole Filippine. In mezzo alla rada e nel porto si vedevano navi affondate e i relitti in balìa delle onde. Per tre giorni ci accampammo vicino al Clark Field, un aeroporto ora riattivato dagli americani che, in precedenza, era stato utilizzato dai giapponesi. Manila era stata liberata, ma il generale Yamashita aveva ancora sotto il suo comando più di 170.000 uomini a Luzon.

Durante questo periodo fui assegnato alla 25th Infantry Division, ma persi il mio amico Ralph che fu trasferito in un altro reggimento. La nostra divisione era comandata dal generale Mullins. Ci furono consegnate le divise da combattimento e stavamo aspettando di essere portati a Luzon nella zona delle operazioni. Ho dimenticato di dire che durante la navigazione, da Marsiglia a Manila, avevamo avuto un addestramento simulato dei combattimenti nella giungla, e ci avevano insegnato i trucchi tratti dai filmati realizzati durante la guerra.

Ci portarono a Luzon dietro le retrovie e là vidi il primo giapponese prigioniero portato da due fanti americani che lo avevano appena catturato. In una radura trovai un gruppo di soldati con la barba lunga e molto stanchi. Li salutai ma non risposero al mio saluto. Poi uno di loro mi disse, vedendomi vestito con la divisa nuova di zecca: "Sei arrivato fresco dagli Stati Uniti. Ti hanno mandato per firmare l'armistizio?". Gli risposi: "No, sono venuto a portare i saluti della vittoria in Europa... e a darti una mano per conquistare Tokyo!", Quel soldato era John Butler. Volle saper tante cose e quando gli dissi che avevo fatto molte pattuglie in Italia, in Francia e in Germania, mi raccomandò al suo tenente che comandava la "Monkey Patrol" (186).

Il tenente Parks volle vedermi e disse che mi avrebbe accettato dopo le pratiche necessarie al comando. Il tenente mi chiamava Mussolini e, durante l'addestramento mi diceva di aprire gli occhi perché pattugliare nella giungla era diverso che pattugliare in Europa.

Difatti un giorno, mentre eravamo nella giungla, una voce mi chiamò in perfetto inglese ed abboccai come un fringuello. Gridai forte ai miei amici di scappare e alcuni soldati mi portarono lontano e qui mi perquisirono. Nel portafogli mi trovarono fotografìe e altre cose italiane e s'insospettirono. Fui mandato a Formosa e poi a Tokyo ed internato nel campo di concentramento di Omori. Li fui interrogato da un ufficiale della marina, che era stato addetto militare nell'Ambasciata giapponese a Roma, e che parlava molto bene l'italiano.

Pensavano che fossi una spia perché sul mio piastrino notarono, oltre al nome italiano ed al numero di matricola, l'indirizzo di mia madre residente in Italia. Loro non vedendo alcun indirizzo americano pensarono che fossi italiano. Riuscii a spiegargli che il Dipartimento di Guerra americano, se fossi morto, avrebbe comunicato la notizia, come da regolamento, a mia madre che era residente in Italia. Mi andò bene.

L'ufficiale della marina giapponese alle prime fu molto gentile. Mi parlò di Roma, delle fettuccine di Alfredo, di Frascati, di Ostia. Lui mi parlava in italiano mentre io gli rispondevo in inglese perché gli spiegai che ero nato in Italia, ma all'età di 14 anni ero emigrato in America con mio padre e con le bugie cercavo di sviare le sue, più che certe, intenzioni. Mi sentivo sicuro perché non esisteva più l'Ambasciata giapponese a Roma e le indagini su di me sarebbero state difficili. Loro sapevano che ero un italo-americano e dovevano trattarmi come un prigioniero di guerra, secondo le ben note convenzioni di Ginevra. Alla fine, mi portarono insieme agli altri prigionieri americani. Al campo incontrai due capitani della Marina Mercantile Italiana di Trieste, uno si chiamava Mayer e l'altro Damasso. Per sicurezza parlai poco di me.

Loro avevano rifiutato di guidare la loro nave dopo l'armistizio dell'8 settembre e per questo li avevano internati per tradimento. Non fummo informati dai giapponesi delle bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki né del cessate il fuoco fra America e Giappone, e che praticamente la guerra era finita. Lo sapemmo quando gli aerei americani paracadutarono sul nostro campo pacchi pieni di ogni ben di Dio, e giornali che dichiaravano la fine della guerra. Fummo molto felici nel vedere le guardie giapponesi fuggire in fretta. Le porte furono aperte e l'imperatore Hirohito annunciò al popolo giapponese la resa. Il 2 settembre 1945 vennero a liberarci i soldati americani e ci condussero, con alcuni automezzi giapponesi, all'aeroporto di Tokyo. Decollammo con i B-29 che atterrarono al Clark Field di Manila.

Ci salutò il Generale Mc Arthur che volava a Tokyo per prenderne possesso, e strinse la mano a tutti. Ci caricarono sugli automezzi militari ed attraversammo Manila e in un'ora giungemmo al porto, al molo 13. Ci accolse, con tutti gli onori, la nave trasporto "Brazil". Tutti noi, ex prigionieri, fummo controllati da un'equipe medica e mandati ai nostri reparti nelle cabine. Intanto la nave si riempiva di soldati veterani che avevano combattuto nel Pacifico e tornavano felici a casa, dopo molti mesi di guerra, e durante la notte si sentiva un continuo vociferare.

Alle 9,00 di mattina la SS "Brazil", salpò alla volta di San Francisco. Ero così eccitato che non avevo fame. America! America, America! Passammo le isole Leyte, le Caroline, le Marshall, ed ad ogni isola la nave gettava l'ancora per accogliere altri soldati, marinai, nurses, che arrivavano con i motoscafi sottobordo. Feci amicizia con alcuni soldati italoamericani che si chiamavano Musoneri, Fornari, Tomello e Bernardino e così, durante il viaggio, ebbi modo di parlare un po' con loro, giocammo alla "morra" e cantammo tante canzoni italiane. Sulla nave vi furono molti spettacoli di varietà con la cantante Francis Langfrod e l'attore Bob Hope. Finalmente giunse il gran giorno quando la nave arrivò sotto il "Golden Gate Bridge". Finalmente ero in America tra gli alti grattacieli di San Francisco. Da lontano si leggevano grandi cartelloni pubblicitari con nomi italiani: Ghirardelli chocolates, Gallo wine, Cinzano, Strega.

Non avevo mai visto un ponte grande come il Golden Gate. Ai lati campeggiavano due gigantesche scritte "Welcome Home" e "Well Done" (187). Sui moli, dove la nave stava attraccando, c'erano migliaia di persone che ci applaudivano e dicevano: "Hey Joe. Thank you!".

Che differenza dall'accoglienza di Tarvisio, quando tornammo dalla Russia. Qui mi sentivo quasi un intruso, ma gioivo alla vista di quella folla eccitata che ci acclamava da vincitori ed allora pensai che anch'io avevo vinto. Appena scesi da quella nave mi presi tanti baci dalle ragazze che mi venivano incontro. Il grosso traghetto sul quale c'imbarcammo, fece il giro dalla baia, mentre San Francisco si allontanava piano piano, e si diresse verso un'insenatura da dove raggiungemmo la base militare di Pittsburgh. Con una lunga fila di autobus ci inviarono a Camp Stoneman dove, fra viali con ai lati numerose baracche militari, giungemmo in alcune camerate con letti a castello. Ognuno di noi ebbe panni puliti, una nuovissima uniforme e delle scarpe. Ci venne dato in dotazione una borsa con lo spazzolino da denti, le saponette, i rasoi e tutto il necessario per la toilette. Facemmo una doccia e, sbarbati, ci recammo alla mensa per la cena.

Mentre seguivo la fila dei soldati per prendere il vassoio per la cena, notai che i camerieri erano tutti prigionieri e, tra loro, parlavano in italiano. Dissi ad uno di loro che anch'io ero italiano ed avevo combattuto con gli americani. Gli promisi che sarei andato a trovarli al loro campo. Riuscii ad andarci il giorno dopo e fui attorniato da tutti. Volevano sapere com'erano ridotte le città che avevano lasciato in patria, tanto che dovetti accettare di rimanere a pranzo con loro. Fra i cento prigionieri ne trovai uno di Abbadia San Salvatore che conosceva benissimo la mia ex ragazza Lara F. Il suo nome era Rizieri Volpini, e dovetti dirgli tutto quello che avevo visto ad Abbadia San Salvatore.

Un giorno mi ammalai e fui ricoverato nell'ospedale interno del campo. Dopo un controllo medico mi riscontrarono un'infezione ai reni ed iniziarono le cure. In corsia, quando seppero che ero italiano, vollero sapere le mie avventure di guerra con l'U.S. Army. Le infermiere Mary Peluso di New York, Ann Cain di Boise (Idaho), e la capo sala, tenente Margie Cavanaugh dell'Ohio, furono molto gentili con me, e un giorno cucinai loro gli spaghetti all'italiana. I medici videro che non miglioravo e decisero di mandarmi a San Francisco al "Letterman General Hospital".

In quell'ospedale c'erano molti feriti di guerra provenienti dal fronte del Pacifico, ed un giorno venne a visitarci il generale Capo di Stato Maggiore dell'esercito Dwigh D. Eisenhower.

Si fermò vicino ogni letto stringendo la mano ai feriti. Quando mi arrivò vicino mi chiese di dove ero (domanda che faceva a tutti) e, non appena seppe che ero italiano, volle sapere tutto di me e mi disse: "Se hai bisogno di qualche cosa scrivimi a Washington!". La mattina dopo tutti i giornali pubblicarono la foto mentre parlavo con il generale Eisenhower. A Camp Stoneman vi rimasi fino al giorno del mio congedo, avvenuto il 15 gennaio 1946. Avevo fatto molte amicizie e fra i tanti ricordo Toni Vaccaro di Boston, Patsy Gallo di Youngstown (Ohio), Jack Delfrè (Ohio), Charles Federici di Belle Vernon Pa. Con questi amici, andavamo sempre a fare un po' di baldoria a Port Chicago e ci scazzottavamo con i marines per via delle ragazze. Vincevamo sempre noi perché, Tony Vaccaro, era un boxeur e li metteva tutti K.O. Con disprezzo i marines ci chiamavano "four wops" (188).

 

 

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186. Pattuglia delle scimmie.

187 Benvenuti a casa e benfatto.

188. I quattro scimmioni.

 

 

 

 

 

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