p ö r c u, sm.: maiale, porco, var. purcjöglju, purcellìttu, f. purcèlla; fig. anche in vari sensi spregiativi -Chiglju mà.gna j béue accùmmu nu pörcu, ed imprecativi Nel senso specifico, ju pörcu era il classico maiale da ingrasso domestico la cui carne lavorata provvedeva salumi vari a lunga conservazione e per condimenti, cotiche da cucinare in umido con fagioli o in salse, budella per salsicce e sanguinacci, rete per i fegatelli da fare allo spiedo ungendoli con fraschetta d'alloro, zampetti ecc., oltre ad altri prodotti utili e necessari all’economia domestica come setole per pennelli e spazzole e grassi per la confezione del sapone. Animale abbastanza ripugnante 'sotto molti aspetti, il suino era però una vera cuccagna per l'alimentazione della famiglia, tale da giustificare gli antichi detti: Diglju pörcu nse jètta prépja njèntu. Ju pörcu tè pò auastà n'ànnu. E quello salace di: Ghj se nzóra sta bènu pe na nòttu, ghj accide ju pörcu st’ bènu n*ànnu. Ogni autunno si andava alle fiere a comprare il porcellino da ingrasso che si allevava nelle stalle dentro il paese o in rólle fuori le mura alimentandolo con ghiande e castagne raccolte lungo strade di campagna o nei terreni proprietari, scarti di frutta stagionale ecc. e la broda di cucina che ogni sera le donne di casa travasavano nell'apposita tinèlla aggiungendovi semola e rimasugli di cucina e portavano loro nelle stalle. Anni addietro, in seguito all'abolizione dei feudi ed il taglio di gran parte dei boschi di querce e castagne sul monte Siserno che mise fine all'allevamento brado ed in grande di suini da parte di operatori romani i benestanti del paese affidavano i loro maiali a porcari che li tenevano in montagna a sfamarsi nei boschi per poi rimetterli a sera nelle tuàne. Ma ad alcuni conveniva far rientrare gli animali in paese nelle proprie stalle, e a sera questi venivano ngaràti all'ingresso del paese dove, lasciati liberi, scorribandavano grugnendo e ronfando per le vie dell'abitato verso le proprie stalle che, come diceva chi raccontava queste cose, ritrovavano istintivamente. Con il rinfrescar dell'aria, a novembre s'incominciava ad accida ju pörcu, rito sacrificale al quale partecipava tutta la famiglia. Preso appuntamento con il "carnefice", generalmente uno scarparo, di buon'ora gli uomini di casa levavano il battente da un uscio e messolo per terra sopra il selciato davanti casa vi tiravano su il maiale già inferocito cercando di tenerlo immobile, ma con difficoltà, finché il mattatore trovato il punto giusto sul petto della povera bestia, con la sùbbja, lesina, stretta nel pugno in un attimo portava a termine il suo compito. Si dava quindi mano alla rasatura delle setole con appositi coltelli ricurvi, tipo strigili romani, che richiedeva abbondante acqua tenuta a bollire dalle donne nelle callàre in casa o sulla strada, e finito questo tedioso lavoro si passava allo squartamento e alla macellazione vera e propria eseguendo a regola d'arte i vari tagli per prosciutti, guanciali, lonze, ventresche, salsicce, fegato, spuntature, braciole ecc. La famiglia si organizzava quindi come un opificio da lavorare le carni per la conservazione e stagionatura invernale, mettendo prosciutti, guanciali e ventresche sotto peso per spremerne i residui sanguigni, lavando e rilavando le budella, disossando e tagliuzzando polpa con grasso insaporando tutto con sale, aromi e uajàna prima di dar via all'insaccatura delle salsicce. Entro la settimana, il soffitto della cucina si festonava di prosciutti, guanciali, pancette, lonze e cannàcche di salsicce che si aggiungevano alle sèrte di. peperoncini rossi, uajàne mare cùmmu djàula, a quelle dei profumati, funghi porcini infilati a collane già parzialmente secchi, a trecce d'aglio e cipolle, rametti con pomodori rossi-corallo per il sugo, e non mancava neanche qualche ben turgido melónu di mmjörnu, quasi a farne un orticello gastronomico pensile da racconto di fate che faceva venire l'acquolina in bocca pure ai gatti. In tutto questo fare il maiale rimaneva il re della pacchia. Ma la bontà delle sue carni faceva brusco contrasto alla natura insaziabile, sudicia e antisociale di questo animale domestico, ed aveva dato corso a proverbi e detti spesso scurrili e salaci come altrove. Oltre a quelli sopra notati, eccone altri due abbastanza caratteristici. Parlà pörcu pulitu, si diceva di persona ignorante che arrotondava le parole dialettali per far vedere che sapeva parlare italiano. Ed ecco un prov. socialmente e storicamente particolare: Pörcj, pröti j pùglj, nnu nsjötu màju satùglj. Il suo tono acre e della crudezza di un epigramma di Marziale fa pensare ad una origine forestiera, dato che di sfegatati anticlericali di tal risma in paese non ce n'erano stati dai tempi dei giacobini nostrani e dei "balletti angelici" dell'occupazione napoleonica del Basso Lazio; v. Villa S. Stefano, pag. 229-232. (Lat. porcus).

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Dal "Lessico Paesano": dialetto, storia, vita, tradizioni ed usanze del popolo di Villa S. Stefano di Arthur Iorio

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