Carnauàlu, sm.: Carnevale. AI paese, il carnevale si festeggiava dal giovedì Grasso a mezzanotte del susseguente martedì, detto anche esso Grasso, vigilia delle Ceneri che apriva il periodo penitenziale della Quaresima. Era l'unica festività completamente profana dell'anno, caratterizzata da giovialità, allegria, rumorosità e baldoria goduta nello spirito dell'antico detto latino "Semel in anno licet insanire". Ma zu Clìniju la metteva in una prospettiva umana, dl càrna j òssa, quando poetava:

A Carnauàlu glj’òmu se spöglja

di nnjentu s'abbruuögna

j araddeuènta túttu nnaturàlu.

Ma la religione non abrogava completamente le sue prerogative, e per contrastare e fare ammenda per l'atmosfera da Saturnalia che impazzava con sostenuto crescendo per le piazze e le strade il martedì Grasso, nella chiesa si teneva solennemente esposto Gesù Sacramentato per l'adorazione delle Quarantore. Gli attori in questa festa paganeggiante erano gli uomini, mentre le fémmene, se non andavano in chiesa, si godevano la baraonda affacciate alle finestre o appoggiate alle ringhiere dei balconi. La partecipazione della popolazione era quasi completa, vecchi, adulti, giovani, ragazzi, signori, artigiani e contadini si abbandonavano all'esuberanza che per un breve tempo capovolgeva coreograficamente i valori civili e religiosi della società nella quale vivevano durante tutto l'anno, ma senza alcun intento dissacratore, nemmeno quando si parodiavano riti religiosi, nello spirito del vecchio proverbio che "A Carnevale ogni burla vale," cosa che lo riallacciava al Festum stultorum che si celebrava alle calende di gennaio nei paesi nordeuropei. Gli attori di questa commedia umana si comportavano in un'atmosfera di pura canzonatura fine a se stessa -la maschera rappresenta in effetti una contraffazione o finzione temporanea dell'individuo- vestiti nelle fogge più strane, da monache, frati, vescovi, da mostri con due teste, paladini di Francia, da donne imbellettate e procaci, da tutori dell'ordine o come la fantasia loro dettava, che si esibivano individualmente o in gruppi in rappresentazioni mimiche estemporanee; caratteristica un anno fu la formazione di un corteo che ricreava il corruptus medievale con bara, ceri, lamentose prediche e canti funebri volutamente rituali nell'intonazione ma scanzonati nel testo. Alle mmàschere era concesso il privilegio di entrare nelle case, mettersi cosi in mostra come per dire a parenti e conoscenti, e specialmente ai piccoli: Mi riconoscete chi io veramente sono...? ed in un certo senso comunicare a tutti quello spirito di libertà conferito dalla maschera, dalla finzione di essere per un istante quello che non veramente erano, e risolvere tutto in una grassa risata... visione tragica della escatologia umana forse? La Sera del martedì, pranzato di grasso il meglio che si poteva in casa, salsicce, fagioli con cotiche, panupanúntu con fette di guanciale arrostite alle brace e simili tutto bagnato con sorsate di vino, gli uomini mascherati si riversavano fuori casa in gruppi chiassosi cantando, strombazzando, zufolando, facendo il più clamore possibile con padelle, casseruole, coperchi e qualsiasi altro arnese di casa atto a far rumore per unirsi al corteo che già cominciava a fare il giro pèlla tèra con il fantoccio di Carnevale fatto di sacchi ripieni di paglia e scartjöccj, tutto agghindato a festa da Re burlone, portato a spalla sopra una macchina improvvisata per l'occasione. Risalendo nell'ultimo tratto dalla Portella, la processione usciva fuori Porta dove Carnevale veniva intronato nella piazza sopra un cumulo di fascine già pronto sul posto, con le maschere a fargli gazzarra tutt’intorno fino a quando a mezzanotte il campanone cominciava a suonare a morto per Carnevale e in un'ultima ondata di strepiti, fischi e pernacchie si dava fuoco alle frasche ed in un baleno Carnevale diventato un gran falò nella notte buia se ne andava in gloria fra i riverberi del rogo. All'ultimo rintocco dal campanile, la piazza diventava silenziosa e la gente guardava muta le fiamme che presto diventavano cenere, battendosi il petto con forti mea culpa, memori che il giorno delle Ceneri era alla porta con il monito: "Memento homo quia pulvis es..." e poi piano piano gli uomini si dirigevano verso le loro case seri e silenziosi preparati per la stagione della penitenza. C'era un antico ritornello che può servire da epitaffio, un pò operettistico invero, a questa festa profana:

"A scúrtu Carnauàlu,

à scúrtu amóru,

à scórta l'allecríja di chístu còru.'

Da ricordare che in molte città la celebrazione del Carnevale incominciava con feste e cotillon il giorno dopo Natale, e fino a non molti anni addietro la stagione dell'opera si apriva a Roma con gran gala il giorno di Santo Stefano, e cosi pure a Bologna "grassa con le squisite sue mortadelle", già seconda città del cessato Patrimonio di S. Pietro. Tra le varie immagini che il pagliaccio del Carnevale aveva suscitate nella parlata paesana c'era quella rimasta nella loc.: Chígl’ómu jè accümmu nu carnauàlu, cioè buono a nulla, fatto di paglia e cartocci. (Etim. incerta).

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Dal "Lessico Paesano": dialetto, storia, vita, tradizioni ed usanze del popolo di Villa S. Stefano di Arthur Iorio

www.villasantostefano.com

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