Index | Sommario

da "FIGHTING PAISANO" di ALFONSO FELICI      Parte II  7

Un soldato sconfitto ritorna a casa

Arrivai sulla Casilina dopo aver lasciato l'Appia, tutta la zona pullulava di mezzi tedeschi, ed io ero costretto a nascondermi ogni volta che sentivo un rumore di macchine, cercavo di attraversare campi ed orti trovando sempre qualcosa da mangiare, come frutta e pomodori.

Ad un tratto sulla Via Prenestina trovai un plotone di fanteria che si era appostato ai lati della strada, erano ben armati e pronti all'intervento. Mi avvicinai e chiesi al tenente che comandava il plotone notizie sulla situazione. Mi rispose che loro erano fuori da ogni contatto ed attendevano ordini che non arrivavano mai, e mi chiese se volevo aggregarmi a loro. Gli risposi che ero un ferito di guerra, e la sera prima ero stato rastrellato per strada con altri soldati e mandato a combattere facendo del mio meglio. Allora mi consigliò di tornare all'ospedale del Celio anche se per strada avrei corso molti rischi. L'ufficiale mi assicurò che i tedeschi finora non s'erano visti. Peregrinai fino a raggiungere una casa abbandonata, e dentro vi trovai un sergente di cavalleria che stava mangiando carne in scatola e pomodori. Mi salutò e disse di fermarmi lì per la notte perché la situazione era caotica. Lui era fuggito dalla caserma Macao prima che i tedeschi la occupassero e si trovava lì disperso. Per quella sera ci addormentammo nella casa abbandonata; a turno facevamo la guardia, avevamo rimediato dei vestiti civili e dei sandali di gomma ed eravamo pronti a scappare ad ogni evenienza.

La mattina del 10 settembre era un viavai di soldati italiani che fuggivano in tutte le direzioni. I tedeschi avevano sopraffatto ogni resistenza e tutta Roma era sotto controllo.

Invece di andare da mia cognata Angelina, al quartiere San Lorenzo, preferii tornare a Villa Santo Stefano da mia madre. Dopo sei giorni, camminando fra campi e montagne per evitare di farmi catturare dai tedeschi, finalmente riuscii ad arrivare a casa.

Dopo qualche giorno dal mio ritorno arrivarono i tedeschi, che fissarono il loro comando a San Marco, nel palazzo di Angelino Palombo, nello stesso tempo requisirono i cinque palazzi della Vigna per utilizzarli come ospedale. Cominciarono a pitturare sui tetti il simbolo della Croce Rossa ed internamente attrezzavano le camere con i reparti e corsie ospedaliere. I tedeschi non ci disturbarono affatto, dovevamo solo rispettare il coprifuoco ordinato dalla Feldgendarmerie (134). Odiavo, nonostante tutto, la loro presenza in paese perché mi ricordava i loro modi crudeli durante la ritirata di Russia. Non si fermavano con i loro camion, e quando noi cercavamo di salirvi ci colpivano le mani con il calcio dei loro fucili.

Villa Santo Stefano fu invasa dagli sfollati provenienti da Roma, Frosinone, ed altri paesi. Il motivo era che qui i tedeschi stavano allestendo l'ospedale e che, secondo le convenzioni di Ginevra in atto fra Stati belligeranti, il paese non sarebbe stato bombardato.

Durante i giorni di noia ci riunivamo con gli amici e passavamo le ore seduti sui parapetti dei muretti della Porta a parlare della guerra e dei tedeschi, che rubavano il bestiame per poi macellarlo sotto la Loggia. Ricordo che i maiali venivano spellati e i tedeschi gettavano le cotenne che tanti paesani raccoglievano e mangiavano.

Un giorno arrivò da Roma la famiglia Battistini composta da quattro figlie femmine e due maschi, la madre Armida ed il padre Umberto. Il signor Umberto era il socio di Angelo Leoni, che aveva sposato una donna di Villa Santo Stefano, Emilia "Frusina", ed insieme gestivano una carrozzeria vicino Via Taranto, a Roma.

Io ed il mio amico Vittorio Anticoli iniziammo a frequentare le due figlie più giovani dei Battistini, Silvana ed Anna. Io andavo con Anna diciassettenne, una brunetta, con la quale facevo lunghe passeggiate al fiume Amaseno. Conobbi la madre e poi il padre Umberto che mi promise un lavoro nella sua carrozzeria a Roma. Ero pazzamente innamorato di Anna! Presto però gli alleati iniziarono con i loro aerei a mitragliare la strada Priverno - Amaseno, dove si muovevano i convogli di rifornimento tedeschi verso il fronte. Vedevamo i caccia alleati volare in basso nella valle dell'Amaseno e colpire con le pallottole traccianti i mezzi tedeschi che prendevano fuoco, ma gli alleati non bombardarono mai l'ospedale rispettando il trattato di Ginevra. Intanto arrivavano i primi feriti tedeschi. Molti di loro morivano e venivano tumulati nel nostro cimitero dove si vedevano, insieme alle croci dei nostri cari, le diverse croci nere con la svastica con sopra l'elmetto.

Giorno dopo giorno la situazione cambiò considerevolmente, giacché le SS arrivavano all'improvviso, facendo prigionieri gli uomini che poi portavano a lavorare alle fortificazioni che i tedeschi stavano erigendo sul fronte di Cassino. Molti miei amici furono catturati. Noi rimasti alla larga, decidemmo di rifugiarci nelle grotte e negli anfratti della montagna. Un giorno Anna venne a trovarmi nel mio rifugio e vidi che piangeva. Gli chiesi cosa fosse successo e mi disse che suo padre Umberto e il suo socio Angelo Leoni erano stati arrestati dai tedeschi a Roma. Mi raccontò che, mentre guidavano un camioncino di loro proprietà, erano stati fermati ad un posto di blocco dai tedeschi che, dopo averli perquisiti, avevano trovato armi e munizioni dirette ad un gruppo partigiano romano. Furono arrestati e trasferiti al carcere di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, in attesa di giudizio. Naturalmente sarebbero stati giudicati dalla Corte Marziale e fucilati per tradimento.

Insieme alla signora Battistini e alla signora Leoni andammo a Roma per vederci chiaro. La prima cosa fu di parlare con la persona che aveva informato le signore dell'arresto dei loro mariti. Questi era Mario Muzi, un amico di famiglia, il quale ci rispose con parole evasive, ma io lo costrinsi a dire tutta la verità. Su mia insistenza fissò un appuntamento con una persona che ci avrebbe spiegato tutto. Il giorno dopo io e le signore, fummo accompagnati da Mario Muzi in un appartamento sul Lungotevere della Vittoria. Là ci ricevette un distinto signore, il dottor Ailati, il quale assicurò alle donne che si sarebbe rivolto a due grandi avvocati per la difesa dei loro mariti presso il Tribunale Militare Tedesco, ovviamente senza dover pagare una lira per la parcella. Nel suo discorso il dottor Ailati non fu troppo chiaro sul perché il Battistini ed il Leoni erano stati indotti a trasportare quel pericoloso carico sul loro camioncino. Il dottor Ailati ci disse che qualcuno li aveva ben pagati per trasportare quel materiale e che loro due erano ignari del pericoloso carico, credevano che si trattasse di mercé da borsa nera. Io non ero convinto di tutta quella storia e gli domandai per quale motivo volevano rivolgersi a due avvocati di nome, pur sapendo che le donne non avrebbero potuto pagare la parcella. La risposta fu: "Lo facciamo per motivi umanitarii". Allora intuii e chiesi al dottor Ailati se per caso loro erano membri di qualche gruppo clandestino che combatteva i tedeschi. Colsi nel segno, gli dissi che anch'io odiavo i tedeschi e gli raccontai tutto il mio passato di Alpino. Il dottor Ailati diventò più convincente e rispose: "Anch'io ero un Alpino, capitano del 5°".

Si fidò e mi confessò che era il responsabile del C.N.L. (135) e che potevo contare su di lui. La difesa di Battistini e Leoni fu sostenuta dagli avvocati Camellutti e Sotgiu e dalla nostra parte avevamo un giudice italiano facente parte del tribunale tedesco.

Purtroppo le cose non andarono bene e, dopo la Sessione, il tribunale tedesco trasferì il caso al tribunale militare tedesco di Bologna. Fu il peggior momento della mia vita. Due famiglie senza speranza, tredici figli (136) con la paura che i loro padri sarebbero stati fucilati da un plotone di esecuzione. Mi ricordai che a casa, a Villa Santo Stefano, avevo la divisa tedesca che mi era stata data a Vienna all'ospedale militare tedesco, inoltre ero in possesso dell'attestato della Croce di Ferro Tedesca di 2° classe, conferitami sul fronte russo.

Ritornato a casa misi in uno zaino la divisa tedesca, nascosi gli stivali e dissi a mia madre che dovevo andare a Roma a portare generi alimentari da vendere a borsa nera. Baciai Anna e le dissi che andavo a Roma per vedere se potevo fare qualcosa per la liberazione del padre.

Non sapevo cosa avrei fatto, ma il mio cervello era alla ricerca di qualche idea per aiutare quei due poveri diavoli. Arrivato a Roma mi precipitai dal dottor Ailati pregandolo di procurarmi un falso permesso della Wermacht a mio nome, quale soldato che raggiungeva un ospedale nel nord Italia. Volli spiegargli che con un tale permesso, parlando il tedesco, decorato col nastro distintivo della Croce di Ferro, e vestito con la divisa della Werhmacht sarei potuto entrare a visitare i prigionieri alle prigioni di Castelfranco Emilia e saperne di più. Ammirò il mio coraggio ma cercò di dissuadermi per il gran rischio che correvo. Alla fine vinsi io.

Il caso fu sottoposto dal C.N.L. all'Intellingence Service americano, ed in una settimana mi fu consegnato un atto di scarcerazione per Battistini e Leoni recante la firma falsificata del giudice del Tribunale di Guerra Tedesco di Roma, Richter von Krieg, nel quale era attestato che i due prigionieri erano stati dichiarati innocenti e quindi prosciolti da ogni accusa.

Io avrei dovuto consegnare personalmente quest'atto di scarcerazione al comandante tedesco del carcere di Castelfranco Emilia, incaricato alla riconsegna dei prigionieri.

Ebbi tutti i documenti per affrontare il viaggio, i piastrini di riconoscimento e il libretto di appartenenza alla Werhmacht, intestati al sergente Alekssis Paasikivi di nazionalità finlandese, per coprire il mio strano accento tedesco. Infatti, molte persone di nazionalità finlandese, croata, polacca e olandese si erano arruolati nell'esercito tedesco come collaboratori.

Il personale dell'Intelligence Service americano sapeva falsificare documenti e timbri della Werhmacht alla perfezione. Occorreva solo il mio coraggio per consegnarli, visto il rischio a cui andavo incontro. In due giorni mi diedero un lasciapassare, con tutti i timbri e le firme in ordine, per un ospedale tedesco di Riva del Garda, stampata in una tipografia clandestina. Il dottor Ailati mi disse che, non appena arrivato a Bologna, avrei dovuto contattare un barista di nome Oreste al bar 'Industria', in Via Guglielmo Marconi, e chiedergli di "Nemo" un altro membro del C.N.L. L'indomani, indossato la divisa della Werhmacht con i gradi di "feldwebel" (137) presi il primo treno per Bologna. Il treno era pieno di soldati tedeschi di ogni arma e qualche civile autorizzato. Durante il viaggio evitavo di parlare e rispondevo solo alle domande usuali. Non ebbi nessun problema ma tremai un po quando uno della feldgendarmerie volle vedere il mio "l'ausweis" (138) e, dopo averlo guardato mi chiese "krank?" (139), ed io gli risposi "ja!" (140). Tutto era andato alla perfezione.

Arrivai alla stazione di Bologna nel primo pomeriggio ed un sottufficiale tedesco mi chiese il permesso, glielo mostrai e mi disse che potevo andare a prendere il "marchverflegung" (141).

Vedendo che esitavo, mi accompagnò lui stesso al posto di tappa dove fui rifornito di pane, carne in scatola, margarina e sigarette nonché di un bel timbro sul mio documento. Non credevo ai miei occhi.

Salutato il sottufficiale tedesco, che si premurò di dirmi che il treno per Verona sarebbe partito alle sei del pomeriggio dal binario due, subito andai in una toilette per indossare gli abiti civili e rimettere la divisa tedesca nello zaino. Dopo aver trovato un albergo economico mi recai al bar per vedere "Nemo". Chiesi al barista Oreste di cercarmelo. Questi capì subito e mi pregò di attendere. Più tardi arrivò "Nemo" e mi disse che il dottor Ailati lo aveva informato tutto. Mi portò in uno scantinato del bar per parlare con sicurezza, ma dopo preferì condurmi nella sua libreria di Via Guglielmo Marconi. Mentre parlavamo mi spiegò che tutti gli uomini del C.N.L. avevano degli pseudonimi per evitare l'identificazione e quindi anche quello del dottor Ailati non era reale (142).

Sul caso Battistini-Leoni m'informò che la prigione di Castelfranco Emilia era guardata da elementi del battaglione "M" (143), armati fino ai denti. Solo un piccolo comando tedesco era sistemato all'interno e che, oltre ai prigionieri politici, vi erano circa quaranta disertori che non avevano voluto arruolarsi nell'esercito della Repubblica Sociale di Salò.

Successivamente mi premurai di depositare la divisa tedesca nello scantinato del bar dovendo, il giorno dopo, uscire in uniforme per andare al carcere. Era pericoloso uscire dall'albergo giacché vi ero entrato in abiti civili. Con me avevo due telegrammi che feci trasmettere, con procedura di assoluta urgenza, dall'ufficio postale tedesco tre ore prima di agire in modo da avere il tempo necessario. Questi erano indirizzati uno al direttore tedesco del carcere di Castelfranco Emilia, redatto in lingua tedesca, e l'altro al Prefetto di Modena che aveva la giurisdizione della zona, redatto in lingua italiana. Entrambi i telegrammi, firmati dal falso colonnello "Truder" comandante tedesco della guarnigione Emilia, ordinavano di eseguire l'ordine di scarcerazione di Battistini e di Eeoni e che il feldwebel, Alekssis Paasikivi (io), era autorizzato a prendere in custodia.

Attesi ancora un'altra ora per dare tempo ai telegrammi di arrivare a destinazione, dopodiché presi un taxi che mi condusse a Castelfranco Emilia, davanti al carcere. Una volta giunti dissi all'autista di aspettare fino al mio ritorno e, preso il numero della sua licenza, mi avviai verso l'entrata con disinvoltura.

Arrivato al corpo di guardia, ignorando i militi del battaglione "M", mi diressi ad un maresciallo tedesco salutandolo militarmente consegnandogli gli "ausweis". Il maresciallo immediatamente mi condusse davanti al comandante maggiore della guarnigione che salutai con un possente "Heil Hitler". Questi, dopo aver risposto al saluto, lesse l'ordine di scarcerazione, che gli avevo consegnato, e dopo aver guardato le mie decorazioni mi disse: "Gut soldaten" (144), e aggiunse che anche lui aveva partecipato alla campagna di Russia sul fronte di Orel. L'interessamento del maggiore sulla campagna russa mi rinfrancava facendo scomparire la paura di essere scoperto. Guardando poi il mio libretto di appartenenza alla Werhmacht notò che ero finlandese e mi disse: "Gut Pinne" (145) .

Non posso descrivere la mia ansia e la mia paura per quello che poteva succedere. Per me era più facile combattere in guerra che rischiare la vita in quel modo. In guerra affronti il nemico vedendolo davanti a te ed hai più probabilità di salvarti, invece lì mi trovavo davanti a delle incognite e potevo essere catturato come un topo. Decisi di andare incontro a tutto ciò che mi poteva capitare.

Tutto procedeva bene e ciò significava che aveva ricevuto il telegramma. Dopo qualche istante il maggiore ordinò ad un sottufficiale di custodia italiano di scarcerare i due prigionieri. Uscii salutando con "Heil Hitler" il maggiore e, seguendo il sottufficiale di custodia, mi preparai ad avere in consegna i due prigionieri.

La tensione divenne intensa quando mi trovai davanti ai prigionieri pronti ad uscire. Mi riconobbero, ma con un cenno prepotente ordinai "Schnell, schnell" (146). Loro capirono che ero lì per liberarli e per questo rimasero impassibili, salvando così anche la mia vita, infatti, sarebbe bastato un segno di euforia o un abbraccio, ed eravamo finiti. Ovviamente loro non sapevano del mio rischioso piano che, fino a quel momento, aveva funzionato perfettamente. In fretta guadagnammo l'uscita e, passando di fronte al maggiore tedesco ed ai suoi soldati, li salutai con un forte "Heil Hitler". Una volta fuori dal carcere trovammo il tassinaro che ancora ci aspettava. Mentre ci avvicinavamo al taxi, dissi ai miei amici di non parlarmi perché poteva essere pericoloso.

I minuti non passavano mai e dissi all'autista di accelerare verso Bologna. Continuavo ad essere agitato e mi aspettavo da un momento all'altro i tedeschi alle calcagna. Non appena arrivammo a Bologna e feci fermare il taxi a cento metri dalla libreria di "Nemo". Diedi quattro mila lire all'autista ringraziandolo e mi diressi da "Nemo" che non credeva ai suoi occhi. Mi disse che ventidue giovani disertori della Repubblica Sociale Italiana, custoditi in quel carcere, erano stati fucilati nel cortile per alto tradimento. Con una fortuna sfacciata giungemmo a Roma viaggiando in autocarro e in treno. Immediatamente arrivammo a casa di un amico fidato di Umberto Battistini, a Torpignattara, che ci nascose per cinque o sei giorni. Intanto avvisammo il "dottor Ailati" che ci venne a trovare e la cosa più bella che mi disse fu: "Sei proprio un bravo coraggioso alpino!". Mi aveva aiutato, in questa missione, anche finanziariamente e senza dirlo era orgoglioso di me. Non vedevo l'ora di far sapere ad Anna che avevo liberato il padre, ma dovevamo attendere perché i tedeschi erano in agguato.

Un giorno facemmo arrivare al nascondiglio di Torpignattara un nostro amico paesano, Armando de Filippi, nipote di Leoni, soprannominato "Nga, nga" per la sua balbuzie. Incaricammo Armando di andare a Villa Santo Stefano a comunicare la notizia della liberazione alle famiglie Battistini e Leoni ed a mia madre. Ci raccomandammo di dirlo solo a loro e non ad altri. Armando però per l'euforia confidò ad alcuni parenti la notizia. Per quella sua leggerezza tutto il paese venne a conoscenza che io, vestito da tedesco, avevo liberato Battistini e Leoni.

Intanto anche il comando tedesco di Villa Santo Stefano seppe di questa rocambolesca liberazione, e subito iniziarono le fasi di investigazioni da parte della GESTAPO (147).

Mia madre e mio fratello Antonio furono convocati e sottoposti a duri interrogatori e maltrattamenti con le pistole puntate sulla nuca. Loro però erano all'oscuro di tutto. Dobbiamo ringraziare l'intervento dell'allora Podestà, Luigi Bonomo, che convinse i tedeschi a lasciare in pace i miei, perché loro erano ignari del piano e io avevo agito da solo perché ero innamorato della figlia di Battistini.

Intervennero allora le SS (148) che, visionati i documenti che avevo presentato alle carceri di Castelfranco Emilia, si convinsero che ero io l'artefice di tutta la missione, aiutato dalle organizzazioni clandestine della Resistenza, in collaborazione con l'Intelligence Service. Le indagini dei tedeschi oltre Villa Santo Stefano si spostarono anche a Roma. Le mogli di Battistini e Leoni dopo aver visto i loro mariti a Torpignattara, tornarono a Villa Santo Stefano per non crearci problemi.

Il "dottor Ailati" ci fece cambiare nascondiglio e ci portò nei pressi della Via Ostiense. Le SS e la P.A.I. (149), forzarono la porta di casa Battistini in Via Taranto n. 132 e quella di Leoni in Via dell'Acquedotto Felice n. 11, e misero a soqquadro gli appartamenti. Le indagini non trovarono sosta. Noi vivevamo giorni di paura pensando anche ai nostri cari che potevano essere sottoposti a dure torture da parte delle spietate SS.

Notizie da Villa Santo Stefano non arrivavano, sapevamo solo che Armando, l'ignaro provocatore della nostra vicenda, era fuggito per allontanarsi dai tedeschi che lo cercavano per interrogarlo. In questa vicenda fummo sempre assistiti dal "dottor Ailati" con denaro, viveri, indumenti e anche con le sigarette che noi, per la paura di esser catturati, fumavamo in gran quantità. Un giorno volli rischiare recandomi a Villa Santo Stefano per vedere da vicino la situazione. Presi alcuni mezzi sulla Via Casilina e perfino degli autocarri tedeschi, che si fermavano per caricare donne e bambini. Arrivai nelle vicinanze del paese passando fra i boschi e i luoghi meno frequentati dalla gente. Alla Madonna dello Spirito Santo incontrai Ersilia Palombo, la figlia di Augusto di "Carminuccio" e Rosa lorio "il deto".

Ersilia mi disse subito che i tedeschi mi cercavano dappertutto, e che un paio d'ore prima due soldati avevano chiesto a "B'cailla M'l'naro " (150) se mi avesse visto da qualche parte. Al paese erano stati interrogati quasi tutti. Chiesi ad Ersilia se, con le dovute precauzioni, poteva avvisare mia madre ed Antonio di venire da me.

Salii su una rupe che si trovava nel terreno di zia Domitilla, di fronte al Santuario della Madonna dello Spirito Santo, ed aspettai. Mentre ero li vedevo le donne che andavano a pregare nella chiesetta. Riconobbi Maria Fasani, lolanda di Gelsomina, za Juccia Mantèlla, za Luciola di Cianno e mia zia e madrina Maria, "la Madonna".

Dopo circa mezz'ora vidi mia madre che scendeva verso il Santuario recitando il Rosario. La chiamai, scesi giù e ci abbracciammo. Anna non fu rintracciabile e pregai mia madre di salutarla. Ebbi il tempo di vedere anche mio fratello Antonio, che era accorso avvisato da Ersilia, il quale mi rimproverò dicendomi: "Stronzo ma chi te lo ha fatto fare di rischiare la vita!". Mi abbracciò ugualmente e capì non avevo altra via di scampo visto che ero dentro un gioco molto pericoloso. Li salutai entrambi e ritornai a Roma con i mezzi di trasporto disponibili e sempre con la paura di essere fermato dai tedeschi in qualche posto di blocco. Rientrato nel mio nascondiglio sull'Ostiense comunicai al Battistini e al Leoni che eravamo ricercati. Questo episodio può essere provato dalle testimonianze di tutta la popolazione di Villa Santo Stefano, dalla signora Armida Battistini moglie di Umberto, dai suoi figli residenti al seguente indirizzo: M2 Bessie Street - Ccuj Ext. Observo - Joannesburg (Sud Africa), dal sig. Leoni Angelo e figli residenti a: Edificio Los Riscos Terza - Club Tipico - Caracas (Venezuela), dall'onorevole Ivanoè Bonomi (Corpo Liberazione Nazionale) e dal dottor Mario Argenton (Corpo Volontari della Libertà).

 

Parte III >>>

 

 

134. Polizia tedesca.

135 Corpo Nazionale di Liberazione.

136 Sette erano i figli di Battistini mentre sei erano quelli di Leoni, di cui Erminio e Italia erano i più grandi.

137.Sergente maggiore.

138 Lasciapassare.

139 Malato?

140 Si!

141 Viveri a secco.

142 II dottor Ailati era in realtà l'onorevole Ivanoè Bonomi,

143 Battaglione Mussolini "camice nere"

144 Bravo soldato.

145 Bravo finlandese.

146 Presto presto!

147 Polizia segreta nazista.

148 Schutz-Staffeln. Squadre di difesa, milizia personale di Hitler.

149 Polizia Africa Italiana.

150 Bicailla Paggiossi.

 

 

© Copyright 2002 Alfonso Felici

Tutti i diritti riservati SIAE n°0004670

Alfonso Felici

via Pasquale del Giudice, 15

00175 Roma,Italia


Index | Sommario

 

Parte II  In guerra con gli alpini della "Julia" | Vienna dolce Vienna | Verso il fronte russo| La battaglia di Natale | Ritorno con la "Julia" | Tedeschi nemici dell'Italia | Un soldato sconfitto torna a casa

dicembre 2004

www.villasantostefano.com

PrimaPagina   Dizionario   VillaNews