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da "FIGHTING PAISANO" di ALFONSO FELICI      Parte II  1

In guerra con gli alpini della "Julia"

Durante quel periodo, andavo molto spesso a Villa Santo Stefano a trovare mia madre per portarle qualche soldino, e poi per passare un po' di tempo con i miei amici. Tutto questo durò fino a quando nella primavera del 1940 mi arruolai con i battaglioni della G.I.L., nella "Marcia della Giovinezza" che da Imperia, con un moschetto a tracolla e zaino, attraversava la Liguria, la Lombardia e il Veneto. Erano tempi pesanti, si parlava di guerra imminente e il Duce volle organizzare questa marcia come dimostrazione che la gioventù del littorio era pronta ad ogni evenienza.

Intanto la Germania aveva dichiarato guerra contro Francia e Inghilterra. Noi della "Marcia della Giovinezza" eravamo arrivati a Padova e ci fecero accampare nei locali della Fiera Campionaria nell'attesa di ordini, perché si parlava di impiegarci sul fronte settentrionale. Ci avevano un po addestrati durante la marcia e alla pre-militare dei sabato fascista. Alla fine per non avere il rimorso di aver mandato al macello il fiore della gioventù, inesperta nel combattimento, decisero di mandarci a casa. Per noi fu una delusione, ma dovevamo obbedire e tornare a casa. Alla stazione di Padova, mentre attendevo il treno per Roma, stavo pensando di ritornare al lavoro all'Ala Littoria. In quel momento arrivò un treno militare con gli Alpini della "Julia", in partenza per il fronte greco-albanese, ai quali mi unii senza pensarci due volte. M'infilai nella tradotta e, ad alcuni di loro che mi chiesero cosa facessi lì, risposi: "Voglio venire a combattere con voi in Albania". Dopo tante trattative con i sottufficiali ed alcuni ufficiali mi presero in forza come "mascotte" all'insaputa del Colonnello. Ero con il Battaglione "Val Natisone" della 279a Compagnia.

Sul fronte Greco - Io da sotto il primo a sinistra

Lecce, gli aerei da trasporto, Valona, finalmente il fronte e le prime fucilate. Il tenente Mario Francescato, comandante della compagnia, fu costretto a riferire al colonnello Daniele Del Din, comandante del Battaglione, della mia presenza nella compagnia. All'inizio fu molto seccato, ma alla fine acconsentì e mi fece restare con loro. Fu un inverno disastroso: neve, fango, freddo, fame!

Eravamo rintanati fra i sassi, con i greci che ci sparavano addosso da tutte le parti e che ci bombardavano con i mortai. Gli Alpini imprecavano contro il "governo ladro" che li aveva mandati al gelo con la sola mantellina, ma tenevano duro e si facevano ammazzare pur di non tornare indietro. Allora capii la propaganda fascista. Noi non eravamo armati come loro ci facevano credere, avevamo solo baionette e vecchi fucili mod. 91, e con quelli dovevamo combattere contro un nemico molto più armato di noi. A Sech I Mal, alla testa dei suoi alpini, cadde, colpito a morte, il nostro comandante, il tenente Francescato e gli fu conferita la Medaglia d'Oro al Valor Militare.

Il mio Tenente della 279ma Compagnia sul fronte greco, Mario Francescato

Risentimmo molto della sua mancanza! Al suo posto fu mandato il tenente Mario Specogna. A Sella Polikani, attaccati dal nemico su tutti i lati, morirono molti dei nostri compagni. Durante la serata vedendo che il rancio non arrivava, offrii una pagnotta che avevo messo da parte da un po di tempo. Quel pane fece il giro del plotone e la mattina seguente mi fu restituita. Questi sono gli alpini!

Sempre a Sella Polikani, quella mattina, fu ferito a morte l'amico, sergente maggiore, Cappellotto. Ad un tratto mi buttai tutto solo a tirare bombe a mano in mezzo ad un nido di mitragliatrici nemiche. Gli Alpini mi seguirono al contrattacco e riuscimmo a farli indietreggiare.

Mi conferirono la Medaglia d'Argento al Valor Militare sul campo e mi promossero caporal maggiore per meriti di guerra.

I combattimenti continuavano aspramente fra stenti e disagi. A me si congelarono le dita di entrambi i piedi e fui mandato, a dorso di un mulo, nelle retrovie. Infine a Valona m'imbarcarono su un aereo per Brindisi. Da Brindisi con un treno ospedale arrivammo a Rimini, ma dovemmo proseguire per Piacenza perché quell'ospedale era strapieno di feriti. Arrivati a Piacenza fummo sistemati nell'ospedale militare e finalmente potei scrivere a mia madre e comunicargli che avevo avuto i piedi congelati e che, dopo la cura, sarei tornato a casa in licenza di convalescenza.

Fronte Greco: io il secondo a sinistra seduto.

La cosa strana fu che ero stato collocato al reparto dermoceltico per emergenza e, per specificare l'indirizzo, indicai tale reparto. Quando mia madre ricevette la cartolina la portò di corsa a don Amasio per dirgli che ero tornato dall'Albania e che presto sarei tornato a casa. Il reparto dermoceltico era per la cura della "venerea". Non appena don Amasio lesse la cartolina e vide il reparto in cui ero stato ricoverato, disse serio a mia madre: "Filotea, altro che congelamento ai piedi, Alfonso ha preso la sifilide o qualche cosa di simile, ed io che lo credevo un buon religioso".

Mia madre mi rispose arrabbiatissima e non ebbi neanche una parola d'affetto dopo tutte le tribolazioni passate sul fronte greco. Mi rivolsi, allora, al cappellano militare dell'ospedale che scrisse a don Amasio e chiarì l'equivoco. Per il continuo arrivo dei feriti di guerra fummo trasferiti a Cremona per far posto a quelli più gravi. Con il treno ospedale raggiungemmo la città dei "torroni", e ci sistemarono in un ospedale appena allestito in un asilo, il cui nome era "Istituto Sant'Angelo". La permanenza in quell'ospedale fu ottima. Ricevemmo visite e doni da tanta gente e fra questa, la visita di gerarchi e personalità fra cui l'onorevole Roberto Farinacci.

Io poi ero diventato il più gettonato. La stampa locale mi aveva ribattezzato "il piccolo Alpino ", ed era un via vai di scolaresche che venivano a trovarmi per conoscermi.

Un giorno una scolaresca mi portò in dono un nuovo cappello alpino dato che il mio, datomi in dotazione dall'Esercito, si era perso sul fronte. Ringraziai vivamente gli scolari e questi vollero che facessi una foto con loro. Una studentessa, Jole Ghisleri, mi chiese se poteva diventare la mia "madrina di guerra" ed io, con molto piacere, accolsi la sua richiesta. Eravamo circondati da stupende crocerossine che ci curavano con molta dolcezza.

Di queste brave crocerossine desidero fare i nomi: Gemma Radini, che era la caposala, Teresa Lazzarini, Nini Robiani, Ines Cremonesi, Eiliana Gnocchi, ed altre di cui ora mi fugge il nome. Tutte mi chiamavano "Il ballila".

Ospedale Militare di Cremona. Le crocerossine Bianca Taddei e Ines Cremonesi mentre mi curano i piedi congelati sul fronte greco-albanese

Non voglio dimenticare il capitano medico, dottor Rivolta, che con il suo nobile impegno guarì i miei piedi, evitando l'amputazione delle dita e degli alluci.

Un affettuoso ricordo è per suor Giovanna che ci fu sempre vicina ed era sempre pronta ad accontentarci in tutto. Molte volte sono andato a trovarla nel dopo guerra sia a Cremona sia a Sirmione, dove era ricoverata nella Casa di Riposo delle Suore di Maria Bambina. Era molto dolce e mi esortava sempre a diventare un sacerdote.

La permanenza a Cremona fu lieta d'eventi. Fui ospitato a pranzo, al cinema, alle partite di calcio della Cremonese, alle gite a Crema, a Casalmaggiore, ai musei, alla casa di Stradivari ecc. Una volta ci portarono a vedere "La Bohème", alla Scala di Milano, con Beniamino Gigli e il soprano Maria Caniglia.

Finalmente fui inviato a casa in una convalescenza di due mesi. Trovai mia madre di nuovo sola, in quanto Alfredo, Antonio e Giuseppe erano stati richiamati alle armi. In paese fui festeggiato da tutti e dal Podestà ebbi elogi ed onori, e la consegna di un mandato di 300 lire come omaggio del comune di Villa Santo Stefano. Angelo Palombo, segretario del P .N. F. locale, mi portò a Frosinone per fare una visita al segretario federale Aurelio Vitto, dal quale fui coperto di elogi. M'invitò a pranzo e mi diede una somma di denaro di 500 lire per onorare il ragazzo della G.I.L. che, giovanissimo, aveva servito la Patria con onore.

A Villa Santo Stefano mi ritrovai circondato dagli amici che volevano farsi raccontare le vicende della guerra. Alla sartoria di Luigi Palladini e alla calzoleria di Domenico Lucarini si ebbero convegni di ascolto affollatissimi. Passati i due mesi di convalescenza raggiunsi il deposito dell'8° Reggimento Alpini di Udine. Era la prima volta che andavo in quella città, ma la conoscevo perché l'avevo sentita nominare dal nostro concittadino Gasparino Anticoli, maresciallo dell'Aeronautica, che addestrava gli allievi avieri all'aeroporto militare di Campoformio.

Arrivato ad Udine vedevo gli alpini dappertutto ed ad uno di loro chiesi dove si trovava la caserma del deposito dell'8° Reggimento Alpini. Arrivato davanti al portone salutai la sentinella ed entrai e, con in mano la base di passaggio, mi presentai al Corpo di Guardia. Il sergente in servizio, appena lesse il mio nome, disse a tutti: "Ecco il famoso "Bocia" del Val Natisone!". Avevo già fatto storia! Mi conoscevano tutti per la mia avventura in Albania e tutti ne parlavano perché, i feriti arrivati prima di me, avevano sparso la notizia in caserma. Fui subito condotto dal colonnello Leone Ceruti, comandante del deposito, che mi accolse con tanta ammirazione e mi presentò a tutti gli ufficiali. L'aiutante maggiore, Davide Zannier, guardò il cappello che mi era stato donato dalle studentesse di Cremona, e mi fece capire non era regolamentare e che doveva essere cambiato con quello indossato dalla truppa. Il colonnello Ceruti ammiccò e gli disse: "Quest'alpino è decorato di medaglia d'argento al Valor Militare e questo cappello lo può portare!". Ritrovai il sottotenente Fantino Fioritto e gli amici alpini reduci dal fronte greco, tra cui Luigi Patroncini, Emilio Tulisso, Toni Barassutti ed il sergente Gustavo Tuil, tutti della 279a Compagnia, tornati dal fronte con ferite e congelamenti.

Fu un "revival" e tutte le sere andavo con loro a fare baldoria nelle osterie tra un "tajut" (98) e l'altro. A questo gruppo si unirono Fattori, Butti ed Ernesto Ticò. Erano tutti friulani e con loro eravamo un gruppo esemplare di "visitatori" d'osterie. Ero diventato famoso in tutta la città di Udine. Tutti mi salutavano per strada con "mandi Bocia " ed io rispondevo col saluto militare.

II Corpo di Guardia della Caserma "Prospero Di Prampero" era stato avvisato che, quando uscivo e rientravo, la sentinella doveva presentarmi le armi perché ero decorato di medaglia d'argento. Io però facevo cenno alla sentinella di non presentare le armi eccetto quando, nei paraggi, si trovava qualche ufficiale per evitargli che gli facesse un rapporto.

Ritorno alla vecchia caserma "DI PRAMPERO" alla adunata di Udine.

In una finestra di fronte alla nostra caserma, si affacciava sempre una ragazza bruna. Ogni giorno io la salutavo fino a quando riuscii ad avere un appuntamento. Lei si chiamava Teresa B. e tutte le sere andavo con lei a passeggiare, disertando i miei amici alpini che mi dicevano: "Porta la tua morosa a bere un bicchiere con noi!". Passeggiando con lei evitavo sempre di passare davanti alla stazione ferroviaria perché, in una tabaccheria, avevo un'altra "morosa " di nome Armanda F.

Un giorno mi chiamò il colonnello Leone Ceruti per comunicarmi che andava al fronte in Albania per comandare il battaglione "Val Natisone", in sostituzione del comandante malato. Voleva salutarmi ma lo pregai di portarmi con lui insieme ai superstiti della 279ma Compagnia. Mi fece capire che era meglio che io restassi a Udine, ma fu tanta la mia insistenza che alla fine mi riportò sul fronte greco. Teresa B. mi salutò piangente alla stazione.

Tornato nella mia 279ma Compagnia sul fronte greco-albanese il 29 febbraio 1941, trovai solo una trentina dei miei vecchi amici che avevo lasciato a Sella Polikani, gli altri erano tutti complementi che, se pur decimati, continuavano acremente a combattere a Quota Monastir. Il fronte, quando arrivai io, si estendeva da Elbasan, Berat, Tomorit, Permet a Klisura. Trovai giornate tranquille, un paio di tiri di disturbo ad ore fisse e nessuna sorpresa in vista. Quello che era rimasto della "Julia" era lì decimata e continuava a combattere. Era una divisione che aveva ben meritato. Penetrata in territorio nemico per una prova di coraggio, giunse in una sola tappa a Giannina lasciando più glorioso l'ardire. In quattordici giorni di aspri combattimenti perse 86 ufficiali e 2500 uomini di truppa.

Da marzo ad aprile i combattimenti aumentarono e ne seguirono altri che fecero molti morti, feriti e tanti soldati con i piedi congelati. Noi respingevamo gli assalti furiosi dei greci con bombe a mano e baionette ma, tra il 23 e il 24 aprile, ci fu la grande offensiva. Le nostre artiglierie iniziarono un fuoco violento per ventiquattro ore, mentre la nostra aviazione compiva ondate di bombardamento a tappeto sulle linee nemiche. Con l'entrata delle truppe tedesche dalla Bulgaria e dalla lugoslavia i greci furono costretti a ritirarsi, agevolando la nostra avanzata fino ad Atene, dove sfilammo vittoriosi sulla città.

"Alpini della Julia in alto i cuori, sul ponte di Perati c'è il tricolore.

Quelli che son partiti non son tornati, sui monti della Grecia sono restati.

Alpini della Julia della Vojussa con il sangue degli Alpini s'è fatta rossa".

Rimanemmo ad Atene per circa un mese e mezzo come Corpo d'Occupazione, ma venne l'ordine di ritornare a Tirana per poi essere rimpatriati. Ad Atene conobbi Curzio Malaparte, maggiore degli Alpini e corrispondente di guerra. Nel periodo in cui ero di stanza a Tirana chiesi un permesso per andare a trovare il mio paesano Ezio Bonomo, in forza al 51° Reggimento Fanteria, "Cacciatori delle Alpi", a Koritza. Lì trovai anche Rocco Zomparelli e Cipollari, un tecnico della Laziale Elettricità, molto conosciuto a Villa Santo Stefano. Passammo una bella giornata insieme e, per la prima volta, Ezio mi offrì una scatoletta di carne suina, introvabile fra quelle di manzo che ci passavano ogni giorno. Ezio quel giorno comandava un corpo di guardia in una polveriera e dovetti subire il "Chi va là?". Tornato a Tirana, qualche settimana dopo, mi convocarono a Scutari per essere decorato della medaglia d'argento al V.M. da Sua Maestà, il Re Vittorio Emanuele III, in visita alle truppe in Albania. Sul palco d'onore eravamo circa quindici alpini. Prima ci fu una lunga sfilata delle truppe davanti al Re, poi noi che dovevamo essere decorati. Il Re tenne un lungo discorso d'elogio agli Alpini per le loro gesta. Decorandomi il re mi disse: "Sei proprio piccolo come un aquilotto volato dal nido, bravo bravissimo!". Accettai il complimento ma vidi che ero più alto di lui.

Un giorno mi fece chiamare il colonnello Leone Ceruti, che, come un padre, mi consigliò di andare alla Scuola Sottufficiali dì Sella Nevea (Udine), dove avrei imparato a sciare, a scalare le pareti e a diventare un bravissimo sergente.

Ero orgoglioso di appartenere agli Alpini perché loro erano umani e comprensivi ed avevano un profondo spirito di corpo, raro nell'Esercito Italiano, ed erano orgogliosi di portare la lunga penna nera sul cappello. Al corpo degli Alpini erano appartenuti illustri personaggi quali: Italo Balbo, Emilio De Bono, Giovanni Pirelli, Curzio Malaparte, Ezio Pinza, Antonio Centa, Luigi Trenker, Giuseppe Meazza, Vittorio Pozzo e il poeta Gabriele D'Annunzio.

La leggenda della "Julia" era nata sulle montagne dell'Albania, non per propaganda o per retorica degli inviati speciali, ma spontaneamente tramandata da Alpino ad Alpino, dal conducente di salmerie al cappellano agli artiglieri. Se ne parlava in linea nelle lunghe notti di veglia, nelle postazioni delle mitragliatrici o sotto il telo da tenda coperto di neve mentre la tormenta e il vento infuriavano. A poco a poco la "Julia" era assurta a valore di simbolo. Era qualcosa che apparteneva a ciascuno di noi come uno sprazzo di cielo. Si librava nelle atmosfere più terse, dove ogni entusiasmo era ancora intatto, ed ogni cosa sognata era vera. Lassù sembravano essersi raccolte tutte le cose che c'erano state tolte o che avevamo perduto lungo il duro cammino, e solo là potevamo ritrovarle. Era il paese, la Patria, il suono delle nostre campane, il riso delle nostre donne, la giustificazione della vita e della morte. Perciò, quando saremmo tornati al paese, non avremmo detto ero in questo o quel reparto, ma appartenevo alla "Julia", combattevo a fianco della "Julia", mi trovavo sul fronte della "Julia".

Per questo motivo ognuno di noi è orgoglioso di essere appartenuto alla gloriosa Divisione "Julia ".

Vienna dolce Vienna >>>

 

 

98. Bicchiere in dialetto friulano.

 

 

 

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Parte II  In guerra con gli alpini della "Julia" | Vienna dolce Vienna | Verso il fronte russo| La battaglia di Natale | Ritorno con la "Julia" | Tedeschi nemici dell'Italia | Un soldato sconfitto torna a casa

 

 

dicembre 2004

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