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da "FIGHTING PAISANO" di ALFONSO FELICI      Parte I  2  

 [ Ringraziamenti  |  Prefazione ]

I vocaboli in dialetto santostefanese sono stati scritti rispettando il metodo adottato per la realizzazione del dizionario dialettale di Aleandro ed Emanuele Amadio e Pino Leo. Per chiunque voglia consultarlo il sito internet è www.villasantostefano.com

Vita di paese

 

Spesso, in paese, arrivava un vecchietto con un pappagallo ammaestrato, dentro una gabbia, che sceglieva con il becco un foglietto della fortuna. Veniva frequentemente anche una coppia di cantastorie, la moglie cantava e il marito l'accompagnava suonando un vecchio organetto, e raccontavano storie di briganti e di S. Antonio. Arrivavano altresì delle compagnie di varietà, fra cui quella dei Fratelli Siano con loro il comico <<Frugoletto>>, e quella delle Sorelle Nava.

Durante le feste natalizie veniva il <<carosello >> (68) di sor Giacomo, tutti noi andavamo alla fontana per prendergli l'acqua e in cambio ricevevano biglietti gratis per un giro sulla giostra. Questa girava al suono dell'organo che intonava <<Mariannina s'è ammalata>> (69), ripetuta da tutti per quanto era famosa. Sui cavallini di cartapesta ci sporgevamo per afferrare il famoso anello attaccato ad un palo che ci permetteva di fare un altro giro gratis. Le mie giornate erano felici quando, con mio fratello Giuseppe e nostro cugino Ermanno Palombo, in autunno, andavamo a guidare gli asini che trasportavano l'uva o il mosto nei <<biunz' >> (70), dalla vigna di mio nonno Giuseppe alla cantina del paese. Dalla vigna venivamo a piedi tenendo la cavezza dei quadrupedi, mentre al ritorno salivamo in groppa ai poveri asinelli gridando a squarciagola: <<Ah.'!! Ah!!>>. Mio nonno, Giuseppe Colini, era un contadino Mio cugino Ermanno Palombo che aveva un terreno nella contrada <<Pantaniglio>>. La sua passione era di lavorare nella vigna, ed aveva spinto, con la sua volontà e con quella di mia nonna Enrica Reatini, le fìglie Filotea, Marietta, Giulia, Emilia ed Antonio a lavorare in quella vigna che lui considerava il suo grande orgoglio. Le migliori uve del paese, infatti, erano prodotte da lui e, oltre a venderle, riusciva a riempire molte botti e damigiane di buon vino. Mio nonno, che era un uomo caparbio, non perdonava a nessuno uno sgarro, tant'è vero che era molto conosciuto nelle preture per tutte le cause che faceva a chi gli danneggiava la vigna. Era soprannominato <<rappèlla>> perché, per il troppo lavoro che aveva, riappellava tutte le cause. Mi raccontava mia madre che una volta, mentre mangiava in una tavola sotto un melo, una cavalletta gli saltò dentro il piatto dell'insalata, lui la inforchettò e la mangiò perché gli aveva rovinato il pranzo.

Mio cugino Armando Palombo

Con gli anni il <<Pantaniglio>> divenne un giardino. Si coltivava di tutto, dalla frutta ai pomodori, all'insalata, alle cipolle, alle zucchine ed ogni ben di Dio.

In un caldo giorno di luglio mia nonna Enrica fu colta dall'insolazione del solleone e poco dopo morì. Nonno Peppe rimase solo e continuò a lavorare la terra, arruolando zappatori e vangatori a giornata, sperando che noi quattro nipoti maschi, un giorno lo avremmo aiutato nella conduzione della sua vigna. Questo, però, non avvenne mai…

Continuammo ad andare a trovarlo ma, quando volevamo un grappolo d'uva, dovevamo chiederlo a lui perché odiava che noi spilluzzicassimo con le dita gli acini del grappolo. In fondo era un gran lavoratore rispettato da tutti. Gli anni che aveva trascorso negli Stati Uniti, sul fiume Hudson a New York, erano stati di duro lavoro. Qui tagliava colonne di ghiaccio per ristoranti e bar insieme a suo figlio Antonio. Il guadagno lo aveva investito tutto sulla sua vigna. Mio nonno era amante della natura ed aveva piantato lunghe siepi di rose ed oleandri mentre, vicino alla vasca, fiorivano garofani, zinnie, dalie e viole. Fra l'altro, in mezzo al canneto coltivava tabacco di contrabbando.

Morta mia nonna Enrica, dopo qualche mese, decise di sposarsi nuovamente, nonostante le proteste di mia madre, di zia Manetta, di Giulia e della cognata, zia Antonia, che era nubile e aveva rifiutato di sposarlo. Ogni sera lui andava a trovare la sua nuova fidanzata, una certa Maria la <<Frascara >>, che abitava in piazza della Portella, e le portava sempre un mazzo di fiori messo a bagno nel fosso che attraversava il terreno del <<Pantaniglio>>. Ogni volta che mio nonno andava a ritirare il mazzo di fiori, trovava sempre dei peperoncini rossi che mia madre e le mie zie mettevano fra i fiori per sfotterlo e dissuaderlo dal risposarsi. Lui volle sposarsi ugualmente e quando Maria mise piede al <<Pantaniglio>> iniziò a spadroneggiare. Mia madre, le mie zie lo abbandonarono e si ritirarono in paese. Il matrimonio durò quasi un anno. Alla fine mio nonno si pentì, abbandonò Maria e ritornò con le sue fìglie al <<Pantaniglio>>.

La famiglia Colini proveniva da Viggiano in provincia di Potenza. Erano contadini in cerca di lavoro poiché il loro padre era un capo podere di alcuni Baroni che possedevano centinaia di ettari di terra che, però, dissiparono al gioco e per le belle donne. I nuovi padroni licenziarono i Colini che perciò furono costretti a trasferirsi nel Lazio, per cercare lavoro nei possedimenti dei principi Colonna. Arrivarono, così, a Villa Santo Stefano.

Mio nonno aveva una sorella di nome Mariangela, madre di zio Giacomino (Antonino Palombo) padre di Ermanno ed un fratello di nome Giovanni che sposò la vedova Adelina Leo, dalla quale non ebbe figli. Giovanni fu uno dei primi ad emigrare negli Stati Uniti ed effettuò numerosi viaggi di andata e ritomo, accompagnando molti santostefanesi che si trasferivano in terra americana.

In questa circostanza voglio ricordare la generosità di tal <<Pippo Mantèlla>>. Questi era un muratore e prestava i soldi senza interessi a chi voleva recarsi negli Stati Uniti per lavoro, chiedendo la restituzione del denaro quando essi avrebbero guadagnato abbastanza. Molti furono puntuali nella restituzione, ma altri non vi riuscirono e, purtroppo, non tornarono neanche più a Villa. Da parte materna mio nonno si chiamava Filippo, <<Pippo>>, Reatini, che aveva sposato mia nonna Francesca <<nonna Cecca>> dalla quale ebbe tre fìglie, Antonia, Enrica e Lucia soprannominate tutte di <<Cecca >>. Lucia era sposata con zio Andrea Jorio (fratello del cardinale Jorio) e aveva quattro figli, Filippo, Virginia, Maria e Giuseppe. Maria era la madre di Annita, Gabriella, Giuseppe e Paolino. Marcantonio lorio, figlio di Damaso e Virginia Reatini, con i figli di Maria di <<Cecca>> erano tutti miei cugini in seconda. Il mio padrino e la mia madrina di battesimo furono Maria di <<Cecca >> e suo marito Umberto lorio detto <<'nfì 'rn' >>.

Dei miei parenti originari di Giuliano di Roma, ne so ben poco. La famiglia Felici era così composta: mio nonno si chiamava Domenico e mia nonna Costanza Petricca che ebbero tre figli, mio padre Alfonso, Antonio e Luigi. Mio padre era falegname, Antonio era una guardia municipale, mentre Luigi emigrò in Brasile e da allora non si è saputo più nulla. Si sapeva solo che aveva messo su una piantagione di caffè ma non si fece più vivo nonostante le ricerche dei fratelli. Mia sorella Maria mi portava sempre alla festa di San Biagio che si svolgeva a Giuliano di Roma il 3 febbraio. Là avevo modo di vedere e parlare con i parenti che mi compravano <</' mosciarèlle>> (71) e <<I' l'm'ngèlla>> (72). Andavo a pranzo da zio Antonio e da mia cugina Costanza, che ci servivano i tradizionali <<cagn'ilun' cogli' sugu' d'abb't >> (73) .

I miei parenti giulianesi erano i figli di Mariano Schietroma, Alberto, Valerio e Livio la cui madre era cugina a mio padre, ed ogni volta che andavo a Giuliano giocavo sempre con loro e mi portavano in giro presentandomi ai loro amici, Maselli, Casciano, Farallo, Pagliei, Aversa ed altri. Con questi amici ho sempre conservato buoni rapporti anche da adulto. Uno di loro, che chiamavamo zio Pietro, del quale non ricordo il cognome, mi regalava sempre mezza lira, essendo stato un amico di mio padre con il quale aveva aperto un pastifìcio a Privemo che purtroppo andò in fallimento. Durante le feste natalizie andavo a piedi a Giuliano di Roma con una borsetta di pezza al collo per rimediare qualche soldo dai miei parenti. Era una tradizione chiamata <<'a 'ffèrta>>, che consisteva appunto con l'offerta di qualche <<baiòcco>> (74) da spendere per i dolci, che noi ragazzi ricevevamo augurando il Buon Natale ai parenti. Ovviamente anche a Villa c'era questa usanza.

A San Pietro invece giocavamo al <<nido>> ed i più grandi, Ilio Petrilli, Arturo Jorio, Pietro Titi e Ottavio Bonomo facevano i <<padri>> (uccelli) mentre io, Italo Bonomo, Antonio Mastrangeli, Filiberto Bravo, Antonio Bonomo (Toni), Antonio Palombo (di Candida) ed Elio De Filippi facevamo i <<figliuoli>> (uccellini). I padri ci mettevano dentro le <<’ntres'gh'>> (75) di San Pietro e noi dovevamo gridare <<Ci, ci, ci, ci>>, come fanno gli uccellini affamati dentro il nido. Loro giravano al centro con le braccia allargate a mo' d'uccelli, con in bocca l'insalata di muro, gridando <<Tri, tri, tri, tri>>, e venivano uno per volta ad imboccarci. Il mio <<padre>> preferito era Ilio Petrilli che mi portava insalata in abbondanza.

In Piazza Umberto I c'erano due cani che dominavano il campo: uno si chiamava Martelletto, ed era un piccolo meticcio nero di proprietà del maestro Gino Bolognini, l'altro si chiamava Ciro, e apparteneva a Pompeo Leo. Questi cani non permettevano ad altri di gironzolare in piazza e li costringevano a fuggire rimanendo così padroni assoluti ed incontrastati. Solo Parigia, la cagna di mio nonno Giuseppe che mi veniva a trovare ogni giorno dal <<Pantaniglio>>, riusciva ad affrontarli e a metterli in fuga.

Nel paese c'era Bartolomeo l'erborista, detto <<il frabbotico>>, che dava tisane ed intrugli medicamentosi alle donne ed ai bambini.

Un paio di volte l'anno arrivava in paese Padre Alfonso, una specie di santone, al quale quasi tutte le donne premurosamente gli lavavano i piedi, sperando nelle indulgenze. Molte di esse bevevano, per devozione, l'acqua utilizzata nel lavaggio e Don Amasio in chiesa, le condannava per questo asservimento.

Fra i personaggi più in vista c'era Peppino detto <<Guarcin'’>, che castrava i maiali cucinandone i testicoli, e invitando poi gli amici a cena per sbronzarsi, e <<Ch'lin'>> che vendette la moglie per cinque lire. Questi stava spesso in galera per furti e ubriachezza. Girava mezzo mondo ed era rimpatriato sempre col <<foglio di via>>. In seguito il Comune lo impiegò come banditore e, durante il percorso, si fermava ad ogni cantina per bere mezzo litro di vino. Quando il claudicante <<Ch’lin>> si era ubriacato, non finiva il giro e si addormentava dove si trovava, infierendo contro a chi cercava di svegliarlo. Per questo motivo, fu licenziato e sostituito con il cieco z' Marcucc' Tambucci che, grazie al suo bastone, poteva girare tutto il paese. Da non dimenticare Gigi <<Ghiarelli>>, la guardia municipale, che quando ci vedeva giocare in piazza con la palla, non faceva altro che impossessarsene e tagliarla in due pezzi, poiché era la causa della rottura di tanti vetri delle finestre. Per vendetta noi andavamo al suo pollaio, giù al fossato, gli rubavamo le uova e le vendevamo e con il ricavato compravamo una palla nuova. In mancanza della palla di gomma giocavamo con quella di pezza. Infine c'era l'appuntato dei carabinieri, Polimeno, che non perdonava nessuno con le sue contravvenzioni, anche se il giorno prima gli avevano offerto da bere. Anch'io allora credevo alla befana e ogni anno speravo che mi mettesse nella calza cose belle e non solo fichi secchi e noci. Una volta mia madre mi assicurò che quell'anno sarebbe stata molto generosa. Potevo ora dormire sicuro, perché sarebbe arrivata la befana fascista anche nel mio focolare, dove il fumo usciva dal tetto e dalle due finestre, anziché dalla canna fumaria, perché la cucina era un <<arioso>> sottotetto. Finalmente sarebbe scesa una vecchietta fascista a lenire le miserie di un piccolo orfano. La befana, però, non scese dal cielo ma venne a piedi, portata a mano da Arcangelo <<M'lleggia>>, che facendo parte della Milizia, era incaricato di portare il dono. Emozionato aprii il pacco e venne fuori una fiammante divisa nuova da <<ballila>>. Il segretario della locale Opera Nazionale Ballila, il bravo signor Giovanni Bonomo, aveva detto a mia madre che le avrebbe mandato un pacco per la Befana, ma lei credeva si trattasse di cibarie.

Durante l'estate arrivavano i <<romani>>, o meglio i figli dei nostri paesani, emigrati in altri paesi, che venivano a villeggiare a Villa Santo Stefano. Per noi ragazzi era uno spasso andare insieme a loro per insegnargli a cacciare le lucertole, i nidi di uccelli, i granchi di fosso, le rane e le lumache. Alla <<Mòla>>, facevamo il bagno nudi scandalizzando le donne che pascolavano le vacche e i bufali, che ci gridavano: <<Brutt' zuzz'!>> (76).

I ragazzi erano, Luigi Rossi, di Umbertino, Angelino Piperno, Primo Leoni, Azzurro Lindozzi, Silvano Sodani, i seminaristi Giuseppe De Filippi, Giuseppe Giancarli, il fratello Renato ed altri, fra i quali, Manlio e Renato Bonomi, figli del dottor Ermete Bonomi e nipoti di don Amasio. Non mancava qualche partita di calcio fra noi e quelli di Giuliano di Roma, Amaseno e Prossedi. Noi di Villa vincevamo solo con Giuliano di Roma, ma perdevamo con quelli di Amaseno e riuscivamo qualche volta a vincere o pareggiare con Prossedi. Con i Giulianesi esisteva un'accanita lotta territoriale. Quando andavamo alla loro festa di S. Biagio erano sassate e bastonate sotto S. Martino. Io qualche volta me la cavavo perché mio zio, Antonio Felici, che era la guardia del comune di Giuliano li impauriva e così entravo tranquillamente al paese. La stessa storia si ripeteva quando i giulianesi venivano a Villa, in Agosto, per la festa di S. Rocco. Erano fermati alle <<Fontanelle>> (77), ma io facevo da intermediario e allora li lasciavano entrare. La festa patronale di San Rocco era per noi un grande avvenimento.

Era tradizione, come ancora oggi, cuocere i ceci in grosse caldaie per poi distribuirli, tramite i <<servitori>> di San Rocco con le loro fumanti pignatte, a tutti i residenti del paese. Il giorno dopo eravamo tutti indaffarati a rintracciare i quadrelli (78), con i quali confezionavamo delle bombette che facevamo esplodere, con il rischio di farci saltare le mani. Avevamo imparato a fumare raccogliendo le cicche delle sigarette buttate dai signori mentre passeggiavano in piazza. Le nostre cicche preferite erano quelle delle sigarette <<Macedonia extra>> che il maestro Ruggeri fumava con il bocchino d'oro. D'inverno, quando faceva freddo, andavamo a riscaldarci <<agl' m 'ntan' >> (79). A Villa ce n'erano quattro: quello di sor Matteo, di za Bric'ta, di za L'reta <<Mantèlla>>, di gnora Ausilia, di Pippo <<Mantèlla>>. In seguito, sor Checco Bonomo, tornato ricco dagli Stati Uniti, volle intraprendere questa attività creando un'impresa all'americana. Comprò un moderno frantoio elettrico che sveltiva le operazioni di molitura con risparmio di manodopera. Per la semplicità della macinazione e per il poco tempo che ci voleva per portare l'olio in casa, trovò subito molti clienti tanto da ridurre di molto il lavoro degli altri frantoi.

Tra gli operai fu assunto anche Giovannino lorio, un nostro compagno di scuola. Era nato nel 1923 da <<Cicco>> lorio e Palma Tucciarelli che, oltre ad essere nostro compagno di scuola, era anche un compagno di giochi. Con lui andavamo in montagna a raccogliere gli asparagi che poi vendevamo ai signori per una lira. Serviva la messa indossando la cotta da chierico con don Amasio, in altre parole era un bravissimo ragazzo che tutti rispettavano.

La mattina si alzava presto e lavorava fino a sera. Noi lo vedevamo sempre molto stanco per il duro lavoro ma capivamo che lavorava per dare una mano alla mamma ed ai fratelli. Qualche volta andavamo ad aiutarlo per stargli vicino poiché non aveva tempo per venire a giocare con noi. Un giorno avvenne la tragedia. Mentre ripuliva un pozzetto, dove affluiva l'acqua nera dei residui del lavaggio delle olive spremute, si sentì svenire ma vani furono gli sforzi per rianimarlo. Morì per le esalazioni dei gas emanati dal fermento di quei residui. Noi amici partecipammo in massa ai suoi funerali. Fu un triste giorno. Era il 1936.

 

 

68. Giostrina.

69.Melodia popolare.

70.Bigonci.

71.Castagne secche.

72.Cedri.

73.Zitoni lunghi conditi con il sugo di budella di vitella arrotolate ad uno zippetto di rosmarino.

74.Soldi in dialetto Giulianesi

75. Fessure.

76.Spudorati.

77.Località di Villa Santo Stefano.

78.Polvere inesplosa durante i fuochi artificiali.

79.Frantoi per la molitura delle olive.

 

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agosto 2004

 

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