I BRIGANTI

di Arturo Jorio

Il più importante risultato della presenza francese nella valle dell'Amaseno e zone limitrofe dal 1798 al 1814 fu forse il rapido progresso del brigantaggio, per il darsi alla macchia di molti giovani che cercavano di sfuggire agli arruolamenti sempre più pressanti imposti dalle autorità francesi.

Il brigantaggio non era fenomeno nuovo nelle terre del Lazio; dal tempo quando i romani mandavano ad bestias nei circhi i latrones che infestavano la via Appia e le altre arterie stradali, a quello di Sisto V quando, nel 1585, in un anno si erano viste più teste mozze penzolare dagli spalti di Castel S. Angelo che meloni nei mercati rionali di Roma, era rimasto una male endemico che infieriva quando carestie e devastazioni gonfiavano i ranghi dei malfattori regolari; nella periferia di Roma, questi erano aggregati in bande sotto la protezione degli Orsini, Cenci, Savelli, Colonna ed altri grandi feudatari, i quali non di rado li facevano intervenire nella città stessa per le loro lotte di parte. La renitenza alle leve francesi tra fine Settecento e primo Ottocento aggravò il male sia nel Basso Lazio che nelle vicine terre del Regno, dove il governo borbonico in guerra con i francesi lo fomentava ed appoggiava.

Ma per i giovani, forzati a darsi alla macchia, questo non era un atto politico, ma un modo di scampare alle guerre lontane dalle quali pochi ritornavano; in un primo tempo essi sopravvivevano con l'aiuto dei famigliari che dai paesi portavano loro i viveri. Ma la vita nell'illegalità, dura e solitaria, le esigenze di procacciarsi il necessario e le armi per difendersi dai francesi che davano loro la caccia, e soprattutto l'inserirsi tra questi gruppi di sbandati dei tipi più aggressivi e violenti, trasformarono questi fuggiaschi in facinorosi che per vivere e sopravvivere si davano alle rapine, ai sequestri e omicidi; e quando la ragione che li aveva mandati alla macchia venne meno con la caduta dell'impero francese, incalliti nel loro nuovo modo di vivere, avevano già oltrepassato il limite oltre il quale non c'era via di ritorno. Per quasi tutto l'Ottocento, bande di briganti operarono sui monti Lepini, Ausoni e Aurunci, cacciati persistentemente dai gendarmi francesi prima, poi dai carabinieri pontifici ed infine da quelli sabaudi.

Queste bande, i cui membri oltre al braccaggio della polizia dovevano essere all'erta contro il tradimento di compagni attirati dalla taglia o dal prospetto del perdono, vivevano in continuo stato di combattimento, con una disciplina ferrea, spostandosi di montagna in montagna; aspiranti briganti, già macchiati d'omicidio, dovevano sottomettersi ad una trafila di prove prima d'essere inclusi nella banda e, se erano giovani di buona società attirati dal fascino della clandestinità e della malavita, venivano rigettati.

Due fattori contribuivano a rendere relativamente facile la vita alla macchia: la politica di «bonifica» del governo pontificio che cercava di indurre i briganti a costituirsi con offerte in denaro o promesse varie tra le quali un comodo confino insieme alla famiglia in terra di Romagna; ma più ancora la male organizzata e peggio addestrata forza di polizia pontificia della quale facevano spesso parte ex briganti che per salvar la pelle si consegnavano fornendo informazioni alle autorità sui compagni rimasti alla macchia; unica forza realmente effettiva era rappresentata dai graduati, che per la lunga consuetudine con criminali crudeli quali potevano essere i briganti e per poter comandare l'accozzaglia di facinorosi che formavano gli effettivi dei carabinieri e bersaglieri, spesso sorpassavano in crudeltà gli uni e gli altri.

Nell'incapacità di controllare i movimenti dei briganti e cercando di forzarli allo scoperto il più possibile, già dal secolo XVI si era messa in atto la malaugurata politica del taglio dei boschi continuata poi fino all'Ottocento, con gran danno alle condizioni ambientali di queste terre. La durezza della vita alla macchia ci viene così descritta da uno di loro:

Un brigante non può mai spogliarsi, ne d'estate ne d'inverno, ne di giorno ne di notte. Il suo giaciglio è la nuda terra, spesso umida, spesso ricoperta di neve e di gelo... (non può mai) accendere un po' di fuoco... si veglia e si dorme (negli stessi panni) con il risultato di farsi divorare dai pidocchi. La sete è una delle maggiori sofferenze: molte volte ci si trova vicino ad una fonte eppure, per timore di essere scorti, ci si accontenta d'inghiottire la saliva. Così avviene alle volte che si prenda tutto un acquazzone per non avvicinarsi ad una capanna dove potrebbe essere annidato il pericolo... Buttarsi alla macchia è facile; diffìcile è rimanerci... Generalmente i briganti non camminano mai di giorno... trascorso in mezzo ai boschi... Per poter sopravvivere avevano bisogno di una gran quantità di denaro che andava a finire nelle tasche di coloro che si adoperavano in loro favore... (Vestivano) un cappello stretto di falde, alto e appuntito, con una gala di fettucce di diverso colore... giacca, gilet e calzoni tutti di colore turchino... (che) arrivavano fino alla caviglia... la pettinatura ricordava un po' quella dei bravi seicenteschi... con la differenza che al posto del ciuffo... si lasciavano crescere una treccia che chiamavano coda... I capelli venivano divisi in due bande e fatti ricadere da una parte e l'altra del volto, tutti abboccolati... (da sembrare) donne travestite... Moda diffusa fra tutti era quella degli orecchini, che venivano ordinati dagli orefici... le ciocie era l'unica calzatura; (portavano) fucile di canna corta... pugnale lungo e pesante... le cartucce per il fucile trovavano posto nella patroncina di cuoio... che girava tutt'intorno alla vita... molto pesante per via dei proiettili di piombo e per due sacchette di cuoio che si portavano appese ai fianchi contenenti altre palle pure di piombo, l'acciarino per la pietra focaia e le monete d'argento. In più vi si appendeva il pugnale (1).

Al servizio dei briganti era tutta una rete di manutengoli: pastori che informavano sugli spostamenti della polizia o facevano da messaggeri, servi che rivelavano i movimenti dei loro padroni per l'appostamento, bottegai e commercianti che fornivano vitto, vestiario, armi e quant'altro occorreva e ricettavano la refurtiva, ed anche ricchi proprietari che con favori e versamenti si comperavano la loro protezione.

Per sopravvivere, i briganti dovevano continuamente progettare e poi eseguire estorsioni, sequestri con ricatto ed appostamenti sulle strade pubbliche, oltre a tenersi lontano dalla forza pubblica; era un lavoro a tempo pieno per questi paladini dai cappelli pizzuti. Ma dal capobanda nella sua giacca bordata d'argento, le armi finemente cesellate, il pugnale dal manico d'argento o d'oro come quello di Gasbaroni, all'ultimo gregario, il brigante era uomo terribilmente solo che doveva vivere all'erta anche quando dormiva, e questo suo stato di bestia braccata ne faceva un animale feroce, una belva.

Tra i membri di una stessa banda mancava qualsiasi rapporto di solidarietà umana, e se tra loro c'era un denominatore comune era quello della mutua diffidenza; non era raro il caso che per ottenere amnistia e intascare la taglia che era sulla testa di tutti, un brigante mozzasse il capo al compagno che gli dormiva accanto e lo portasse, sanguinante ancora, alle autorità.

Durante l'Ottocento, la valle dell'Amaseno fu terra d'attraversamento per i briganti che si muovevano tra Regno e Stato della Chiesa, dalle selve del Circeo attraverso gli Ausoni ed i Lepini alle montagne d'Abruzzo. Lo stesso monte Siserno fu varie volte campo di scontri tra briganti e forza pubblica, ed anche S. Stefano ebbe la sua porzione di fuorilegge, pur se non potè vantare capibanda della notorietà di Pasquale Tambucci di Vallecorsa, Antonio Gasbaroni di Sonnino o di Luigi Masocco di Giuliano.

Una notifica governativa del 12 dicembre 1812 ai sottoprefetti di Velletri e Frosinone — siamo ancora in pieno regime francese — elencava 40 briganti dei quali il numero maggiore, nove, erano di S. Stefano; seguivano Giuliano, Vallecorsa ed altri paesi; eccone le identità: Domenico Rossi detto il Cotto, Luigi Rossi, Domenico Tranelli, Pietro Filippi, Michele Filippi, Girolamo Lucarini, Vincenzo Lucarini, Domenico Faggiolo ed Antonio Jorio (2); da notare che nell'elenco rientrano anche quattro calabresi.

Questo dubbio primato santostefanese non durò a lungo; infatti, con il rientro delle legittime autorità pontificie nel governo di Roma ed in seguito all'amnistia da esso concessa, nel luglio del 1814 un numero di briganti si costituì alle autorità, e cioè; Domenico Faggiolo, Domenico Magnafìchi, Michele Di Filippo o Filippi, Domenico Tranelli, Domenico Falovo, Alessandro e Luigi Rossi del fu Pasquale e Antonio Jorio. Due di questi, ridatisi alla macchia, ebbero morte cruenta negli anni seguenti: Domenico Faggiolo, arrestato nel 1815, venne condannato per ordine di mons. Giuseppe Ugolini Delegato apostolico di Frosinone ad essere fucilato nel suo paese d'origine e, per ammonimento agli altri, ad avere il suo cadavere squartato ed appeso in pubblico; il Mangiafìchi, sfuggito ad una retata della polizia insieme al compaesano Domenico Tranelli nel 1815, venne ucciso con una palla al petto durante l'assalto alla casa di un ricco signore in Arnara nel 1819 ed il suo corpo caricato sopra un asino venne sepolto dai compagni in fuga su Campo Lupino.

Un grave fatto di sangue accadde a S. Stefano dopo la restaurazione del governo pontificio. Un certo brigadiere Cappucci, « attivissimo nella lotta contro il brigantaggio », aveva arrestato e messi in carcere a S. Stefano quattro fratelli di un brigante del paese; la stessa notte, entrò nella cella dov'erano i detenuti e « li scannò tutti e quattro », giustificandosi poi col dire che li aveva colti mentre cercavano di fuggire. Tempo dopo, questo brigadiere « mise le mani addosso alla moglie di un altro bandito », Domenico Rossi il Cotto, mentre costei si recava a Frosinone e la uccise.

Il Rossi decise di far fuori il brigadiere con l'aiuto del fratello dei quattro prigionieri scannati; ma il piano non piacque al loro capobanda che allora era Pasquale Tambucci. Durante un'operazione che portò al sequestro del sottoprefelto di Frosinone, il Tambucci gli chiese il perché dell'eccidio di S. Stefano, ed il funzionario gli rispose che il sindaco del paese lo aveva informato per lettera giustificando l'accaduto come reazione al tentativo di fuga da parte degli imprigionati. Più tardi, discutendo l'affare con Rossi ed il fratello dei quattro uccisi, il Tambucci ripetè loro quanto gli era stato detto dal sottoprefetto, ma poi aggiunse che da quando gli era sembrato capire dalla conversazione, il Cappucci aveva « ucciso quei vostri parenti non per capriccio suo, ma dietro indicazione del sindaco di S. Stefano che voi conoscete. Se ben mi ricordo, disse il Tambucci, quel tale si è voluto vendicare di certi vostri trascorsi al tempo in cui egli la faceva da giacobino... Ora è con lui che dovete rifarvela, e non con gl'innocenti ».

Il Cotto, saputo che il sindaco doveva recarsi a Frosinone, « si appostò all'uscita del paese... Quando lo vide arrivare circondato da una ventina d'uomini, lo prese sotto la mira del suo fucile e lo freddò facendolo stramazzare a terra dall'alto del cavallo. Gli altri, vedendolo cadere, credettero che la banda fosse appostata al gran completo e diedero di sprone alle loro bestie senza neanche voltarsi a guardare... ma vai a vedere come saranno andate effettivamente le cose e quanto ci fosse in quella faccenda di intrigo da parte del sindaco e quanto d'iniziativa da parte del brigadiere »

Il ruolo del Tambucci in questa fosca vicenda paesana è a dir poco equivoco; non è da scartare l'ipotesi che egli volesse fare un favore al Cappucci, scansandolo dalla vendetta del Rossi, come anticipo per futuro ripagamento da parte del brigadiere; maestro del tenersi a galla, il Tambucci si era costituito in seguito all'amnistia del 1814 e venne arruolato nella lotta contro i briganti « con uno stipendio mensile di sette scudi e mezzo... (e) sfoggiava una bella divisa da bersagliere »; ma continuò, come altri, a fare il doppio-gioco, bersagliere di giorno e brigante di notte, finché mons. Ugolini, che aveva un conto personale da regolare col Tambucci che gli aveva mozzato un dito per impossessarsi dell'anello che ci teneva, lo fece arrestare nel suo paese, facendolo fucilare e squartare come s'era fatto con il Faggiolo (3).

Per cercar di contenere il brigantaggio, per poterlo poi assoggettare ad un più drastico controllo delle forze dell'ordine, la Delegazione emise varie ordinanze, tra le quali quella della ristretta, cioè il blocco dei viveri onde costringere i briganti ad arrendersi per la fame: era proibito portar viveri fuori del paese, e perciò i contadini dovevano mangiare prima di recarsi in campagna; il bestiame grosso doveva andare al pascolo sotto scorta armata giorno e notte, mentre quello minuto doveva essere ritirato a sera nelle vicinanze del paese e tenuto sorvegliato. Queste ed altre misure restrittive, una più coordinata azione da parte della polizia pontificia e napoletana contro le bande vallecorsane e sonninesi che operavano al confine dei due stati ed il ritorno alla normalità politica e sociale, e con quasi tutti i famosi capibanda internati nelle carceri di Civitavecchia o ammansiti con pensioni statali nelle terre di confino, il fenomeno brigantesco si acquietò dopo il 1825. Ma con il conturbarsi della situazione politica verso la metà del secolo, si ebbe un nuovo ritorno alla macchia di giovani che alla dura vita dei campì preferivano quella avventurosa di rapinatori alla larga; e non mancò una certa sobillazione da parte del governo borbonico di Napoli che si vedeva sempre più minacciato dal crescente moto per l'unità d'Italia. Anche questa volta, se ebbe qualche movente politico, fu quello di opposizione e lotta contro qualsiasi governo costituito; ma rimaneva precipuamente un'associazione di delinquenti, alla quale non mancava una larga adesione popolare di parenti, mogli, amanti ed amici, in particolare tra il 1860 e il 1869, che aiutavano e sostenevano gli uomini alla macchia. Si è già scritto come per arginare i contatti fra i fautori all'interno del paese con i briganti, a S. Stefano venne fatta murare la Portella nel maggio del 1867, ma con scarsi risultati, dato che attraverso postierle, (aditi scavati in basso alle mura, finestre basse ed anche alte dalle quali ci si poteva calare facilmente con la fune senz'essere osservati, specialmente dalla parte di Vallaréa), donne come Maria Paggiossi « nota incitatrice di briganti », poi ravvedutasi, portavano il mangiare ed anche l'amore ai loro uomini (4).

II ritorno degli uomini dai cappelli pizzuti rimise S. Stefano in stato di agitazione. Oltre alle guardie civiche, il comune dovette sovvenzionare l'acquartieramento della brigata delle forze d'ordine che, con quelle di Priverno e di Sonnino, dipendeva dalla Tenenza di Ceccano. Si cercava ancora, come nella prima fase del brigantaggio, di adescare i briganti con promesse di condono e di un premio monetario; don Baldassarre Perlini, vicario foraneo, era la persona incaricata a far da tramite in questo sforzo di redenzione sociale e morale, ed era lui che effettuava per conto della Delegazione di Frosinone i pagamenti ai briganti che si costituivano (5).

Il numero di briganti che operavano nel territorio di S. Stefano era relativamente alto, e gli anni 1867-1868 furono particolarmente movimentati: nel maggio 1867 ci fu un « rinvenimento di quattro cadaveri barbaramente uccisi dai briganti » in un pozzo sotto la cima della montagna Lenza, nell'arco di Campo Lupino; a fine giugno la polizia mise le mani su un numero di briganti, indigeni e forestieri, dei quali 13 si erano costituiti, quattro catturati, uno ucciso in combattimento, mentre un altro era stato fucilato alle spalle; a luglio i gendarmi arrestarono altri tre briganti e recuperarono anche armi « lasciate dai briganti... Luigi Toppetta detto Fiaccarelle, Domenico Orlandini detto Gioia, Luigi Fiocco, Salvatore Jorio e Giovanni Paggiossi in mano di incogniti manutengoli »; nello stesso anno vennero arrestati altri tre santostefanesi (6).

Frattanto il Toppetta ed altri briganti si erano venuti a costituire, e fu probabilmente in seguito alle loro delazioni che nel 1868 venne arrestato Gioia, un ragazzo di 19 anni, il quale processato e condannato a morte venne fucilato all'angolo del palazzo Colonna all'imbocco della via S. Antonio il 16 dicembre 1868. Non sono note le accuse contro Gioia, ma è probabile che i suoi colleghi più anziani e più scaltri per salvare la loro pelle riversarono accuse sul giovane che poi le autorità per dare un esempio giustiziarono. L'esecuzione ebbe luogo alle ore sette antimeridiane, dopo che il ragazzo si era confessato e comunicato; il suo corpo venne tumulato nel sepolcro per gli uccisi presso l'incompiuta fabbrica della chiesa di S. Pietro. La confraternita del Purgatorio provvedette alle « spese occorse della fucilazione di Gioia » (7).

In questo stesso cimitero, alcuni anni dopo forse tra il 1872-1873, vennero tumulati i cadaveri dei briganti uccisi in quello che fu lo scontro finale tra i carabinieri del nuovo governo italiano e le bande brigantesche della zona su Campo Lupino.

Una mattina di prim'autunno d'uno di questi anni, un gruppo di giovanotte del paese tra i 16 e 18 anni era andato a far frasche alla Valle, sotto la Lavina, quando all'improvviso dall'alto s'udì una fragorosa sparatoria e le ragazze, prese dalla paura, se la dettero alle gambe in direzione del paese lasciando le fascine già affastellate. In paese correvano voci di briganti, di carabinieri e di battaglia, ma nessuno sapeva alcunché di sicuro, fino a qualche giorno dopo quando dalla Lavina e dalla Valle incominciarono a scendere asini carichi di uno e due cadaveri di briganti che dalla Porta si dirigevano verso il Sottoportico bolognese a scaricare i loro miseri fardelli umani a S. Pietro nella tomba degli uccisi.

 

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(1) Pietro Masi, Antonio Gasbarroni: la mia vita da brigante. Roma, Atlante, 1952;


(2) Michele Colagiovanni, Meo Varome, Alessandro Massaroni e il brigantaggio in Ciociaria, Roma, 1977;


(3) Ibid., 49, 81-82. Il racconto del Masi non è molto chiaro, mancano nomi e date. e probabilmente confonde due o più fatti. Non abbiamo i nomi di sindaci nell'immediato periodo post-napoleonico, ad eccezione di Giovan Battista Jorio sindaco nel 1814: ASF. B/1132.


(4) ASF. Direzione di Polizia. B/297 e B/303.


(5) Ibid., B/300.


(6) Ibid., B/296, 298, 303.


(7) APVSS/Confrat. Purgatorio e APVSS/Liber mortuorum

 

 

agg. 08.02.13

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