annotazioni al testo

Il conte Giovanni di Ceccano e gli affari di Campagna tra Millecento e Milleduecento

di Arthur Iorio

 

"Ego lohannes de Cicano,,."

In piedi davanti a papa Innocenzo III nella sala del trono del palazzo pontificio di Anagni presenti i cardinali e i prelati della curia, i vescovi e i notabili di Campagna e di Marittima, il conte Giovanni di Ceccano pose una mano sul Vangelo ed incomincio il suo giuramento:

Io Giovanni di Ceccano giuro di mantenermi d'ora in avanti fedele al Beato Pietro e alla Romana Chiesa, come pure al mio signore papa Innocenzo ed ai suoi successori canonicamente eletti, e che lo sarò non solo con parole e cerimonie ma con i fatti, anche sotto avverse condìzioni, e di rimanere tale finche mi scorre sangue nelle vene. Mi guarderò dal rivelare ad altri quanto mi verrà, comunicato sia a viva voce, per lettere o messaggeri, se ciò dovesse arrecar danno alla Chiesa. E se dovessi venire a conoscenza di azioni tramate contro la Chiesa, cercherò innanzitutto di prevenirle, se e nel mio potere, altrimenti ne informerò le autorità ecclesiastiche personalmente se possibile, altrimenti con lettere sigillate, per via di messaggeri sicuri o di persone mie fidate. Giuro inoltre di difendere Ceccano e tutte le mie terre ed altre che mi venissero affidate dal Beato Pietro; m'impegno altresì di accorrere alla difesa delle terre della Chiesa se insidiate, di aiutare a riconquistare quelle perdute e preservarle e difendere contro qualsiasi nemico. Tanto io giuro di fare con lealtà, senza frode o malizia con l'aiuto di Dio e di questi santi evangeli. (1)

Terminato il giuramento, Giovanni mise le sue mani in quelle del papa per ricevere l'investitura dei suoi feudi; a sigillare poi il rinnovato compatto feudale, il pontefice porse a Giovanni la coppa d'argento dorato che, secondo la consuetudine, lo rendeva "ligiam hominen" cioè vassallo della Chiesa. Era l'anno del signore 1202, quarto del pontificato di Innocenzo III; anno rimasto tristemente famoso tra la gente come "l'anno della fame, quando a Ceccano una misura di grano si vende sempre per 16 soldi provisini senza mai ribassare; anno quando la carestia del grano fu terribile in tutta Italia dalla Lombardia al regno di Puglia."

Per Giovanni fu, però un anno fortunato; pochi mesi dopo il giuramento di Anagni, il papa gli consegnava il feudo di Sezze, in Marittima.(2)    Ed ora dall'alto della sua rocca di Ceccano egli poteva guardare a ponente dove la strada che risaliva il valico della Palombara portava agli antichi feudi di Giuliano, S. Stefano, Prossedi e Pisterzo nella valle dell'Amaseno per proseguire poi per Maenza, Rocca Asprana (Roccagorga) e Sezze; a settentrione sul dorsale dei monti Lepini dove sorgevano Carpineto e Montelanico, e più, vicini e visibili nella foschia ceccanese i castelli di Patrica, Monteacuto e Cacume sul cocuzzolo omonimo; e a levante Arnara. Nel fondovalle scorreva il Sacco tra i campi seminati a grano e a canapa, con i mulini a ritrecine addossati alle rive tra i canneti, e le chiese ed i conventi di San Nicola, S. Maria del Fiume e di San Giacomo al Ponte.

La famiglia dei conti di Ceccano dominava molte di queste terre da oltre duecento anni. II suo capostipite è forse da ricercare in uno degli arimanni che accompagnarono Àstolfo nel 735 alla conquista dell'estremo lembo del Ducato di Roma, e vi rimase con il suo nucleo familiare, i suoi cavalieri e le sue bestie da pascolo arroccandosi sullo speone di monte dal quale si comandava il passaggio sul ponte del Sacco e la strada che per la valle dell'Amaseno portava al mare.

Consolidato l’insediamento, questo nucleo di guerrieri stranieri si sovraimpose nella maniera longobarda alle popolazioni locali come un esercito di occupazione, mantenendo il proprio ordinamento giuridico; per allargare poi il dominio sulle terre, il conte distaccava dal suo seguito cavalieri scelti inviandoli ad occupare punti strategici sui versanti dei Lepini e a costruire rozzi torri dalle quali sorvegliavano i villaggi delle valli ed. esigevano pedaggi ed altri tributi. Nel processo di ambientamento storico, i signori di Ceccano rafforzarono la loro posizione imparentandosi con famiglie di proprietari terrieri latino-bizantini della zona, ed è così che nella loro genealogia oltre ai nomi germanici troviamo anche Leone, Amato, Gregorio, Giordano.

II potere politico dei conti di Ceccano si consolido ancor più. quando tra il IX ed il X secolo le incursioni saracene svuotarono le valli spingendo le popolazioni rurali dei villaggi aperti a cercar riparo e difesa all'ombra delle torri ceccanesi sulle alture; e si arrivò così a quel processo d'incastellamento che dette vita ad una nuova unità politica, il "castrum" comunità rurale fondata su un compatto feudale tra il signore che s'impegnava a difendere la popolazione agricola ed i loro campi in cambio di specifici tributi e servizi. Nel vuoto politico che prevaleva in quei temp, fu facile ai vari nuclei signorili insediatisi nelle terre di Campagna e Marittima arrogarsi poteri politici e giuridici spettanti alla sovranità dalla Chiesa, riducendo ancor più le libertà del comune rurale, generando poi quel conflitto secolare tra potere temporale ed i baroni che afflisse a lungo le genti del Basso Lazio.

I primi signori di Ceccano a delinearsi con un certo rilievo sull'orizzonte della storia sono Liberto ed. Amato, figli di Leone, imparentati con i conti di Segni e gli Annibaldi della Molara insieme ai quali controllavano i movimenti sulla via Latina e gli accessi al mare attraverso il passo del Lariano a nord e quello della Palombara a sud. Al principio del Mille, Amato di Ceccano fu conte di Campagna, cioè rettore papale di questa provincia, incarico precedentemente ricoperto per vari decenni dalla famiglia di Roffredo di Veroli(3).   Mentre Amato si considerava ovviamente ligio vassallo della Chiesa, la sua discendenza si trincerò prevalentemente su posizioni che misero i conti di Ceccano, venuti nel frattanto a controllare buona parte della Campagna e Marittima, in aspro e quasi ininterrotto contrasto con il potere temporale.

Ad illustrare lo spirito ghibellino, detto in senso lato, di questi signori e la tendenza a farsi prendere da qualsiasi vento che spirava contro il papato, nella vana speranza di potersi sottrarre alla sovranità della Chiesa, valgono due eventi accorsi nell'arco di due secoli circa. Nei primi anni del secolo XII, i conti Goffredo, Landolfo e Rainaldo di Ceccano - i quali reggevano la contea collegialmente sotto la direzione del primogenito, secondo la successione a base-patrimoniale usata nella famiglia - si erano aggregati ad alcuni baroni del napoletano intenti a fomentare torbidi al confine delle terre della Chiesa per favorire le mire politiche del re di Sicilia. Nel 1123, il castellano ceccanense di Maenza aveva ammazzato il conte di Campagna nelle vicinanze di Privemo. Irritato da tanta temerarietà, papa Callisto II piombò con gente armata sulla Marittima occupando vari castelli tra i quali Maenza, dove "fece mozzar il capo al castellano per aver ucciso nei pressi di Priverno Crescenzio, conte del signor papa, e fece esporre moglie e figli."

I conti di Ceccano, apparentemente mandanti del crimine, scamparono alla vendetta del papa borgognone grazie all'intervento di Rainulfo d'Alife, che a quel tempo parteggiava per la Chiesa contro Ruggero di Sicilia (4).

Rimasero però impenitenti, e a tal punto che a metà marzo 1123 il nuovo papa Onorio II fu costretto ad. organizzare una nuova spedizione punitiva contro di essi , e "venuto con molta gente d'arme, occupò Trevi e Maenza, fece dare alle fiamme S. Stefano, Roccasecca e Pisterzo; liberando S. Lorenzo -l'odierna Amaseno - ed i conti Goffredo, Landolfo e Rainaldo dovettero giurare fedeltà al papa. Tregua precaria anche questa; e fu solo con l'avvento al potere del conte Giovanni nel 1182 che si ebbe tra la Chiesa e la signoria di Ceccano un periodo di quarant'anni circa di relazioni mutualmente costruttive. L'altro fatto, di più ampia portata storica, si svolse con drammatica rapidità una mattina del settembre 1303 quando "Sciarra della Colonna con genti a cavallo ... e a piede ... co' signori da Ceccano, da Supino, e d'altri baroni di Campagna ... entrò in Alagna con l'insegne e bandiere del re di Francia gridando: Muoja papa Bonifazio." Occupato il palazzo pontificio, i capi cospiratori irrupperò nella sala del trono dove trovarono il sessantotto pontefice "a sedere in su la sedia papale" disertato da tutta la corte allinfuori dei cavalieri del Tempio e dell'Ospedale che nelle loro cappe crociate gli tenevano guardia. Bonifazio, volendo morire nella dignità di papa, s'era fatto "parare dell'ammanto di San Pietro, e con la corona di Costantino in capo, e con le chiavi e croce in mano ... e niuno ebbe ardire di toccarlo".(5)

Cessato lo strepito delle armi e le grida dei baroni davanti a tanta maestà, il pontefice piegò il capo coronato verso di essi e disse in francese! "Ec le col, ec le cap."(6)

Facevano parte della masnada i signori Goffredo di Ceccano, Rainaldo di Supino, Tommaso di Morolo, Giovanni dei Conti, Pietro Colonna, Massimo di Trevi, Giordano di Sgurgola con i figli Pietro e Galvano. II papa moriva di crepacuore a Roma pochi mesi dopo; ed i partecipanti al misfatto vennero poi assolti dai suoi successori. Come conseguenza del fatto di Anagni, si ebbe un rimescolamento degli equilibri politici nella Campagna che portò al declino della potenza dei conti di Ceccano, ai quali poi la Chiesa tolse i feudi, la maggior parte dei quali passarono in mano alla famiglia Colonna.

Giovanni di Ceccano era nato intorno al 1160, allo stesso tempo circa che nel castello di Gavignano nasceva il suo più illustre parente Giovanni Lotario dei conti di Segni, poi papa Innocenzo IlI Erano quelli anni zeppi di eventi per la storia d'Italia e di gran movimento nelle terre di Campagna e Marittima. I rumori delle guerre vicine e lontane risali vano dalle foresterie dove soggiornavano viaggiatori e pellegrini ripetendosi per tutto il castello come il grido di veglia degli arcieri di guardia fino agli appartamenti privati tra le nenie delle balie, i coccolamenti delle nutrici ed i giochi d'infanzia. Talvolta capitava ai bimbi di poter vedere, senza capire, le donne della famiglia salutare con gli occhi gonfi di pianto gli uomini chiusi nelle loro armature che partivano per azioni di guerra. E non fu raro il caso quando i castelli di Segni e di Ceccano si trovarono coinvolti direttamente in operazioni militari con tutta la brutalità di tali situazioni; nel 1164 il cancelliere imperiale Cristiano di Magonza invadeva la Campagna per far giurare obbedienza all’antipapa Pasquale, e ripartiti appena i tedeschi vennero le truppe del re di Sicilia, con i soliti contingenti di saraceni, a mettere a ferro e fuoco i castelli e le terre delle valli del Sacco e dell’Amaseno. Su questo fosco paesaggio umano cadeva l'ombra possente dell'imperatore Federico; e quando a sera per invogliare i bimbi a prender sonno la nutrici minacciavano di chiamare l'orco, nelle loro precoci fantasie questo mostro avrà preso le sembianze del Barbarossa.

Giovanni era figlio di Landolfo, secondo di tal nome nella genealogia dei conti di Ceccano, e di donna Egidia, probabilmente della famiglia Colonna; la forte tempra di costei sembra rispecchiarsi nel carattere del figlio primogenito.(7)

Sopravvissuta di vari anni al marito, la troviamo non più giovane intraprendere, nel settembre del 1190, il lungo pellegrinaggio al santuario di S. Giacomo di Campostella in Galizia, ritornando a Ceccano nel febbraio seguente. Ma fu lo zio paterno Giordano ad influenzare più di ogni altro la formazione mentale e la visione politica del giovane conte, prima dal suo posto di abate di Fossanova, poi come cardinale di Santa Romana Chiesa» Da Landolfo ed Egidia nacquero altri due figli;

Stefano, che abbracoib la carriera ecclesiastica e fu diacono di S. Elia a Ceccano, poi "camerarius" di Innocenzo III e cardinale; e una sorella. Mabilia, che andò sposa al conte Giacomo di Tricarico in Basilicata. Landolfo morì nel maggio del 1182, e Giovanni venne a succedergli in quel periodo di bonaccia politica che era seguita .alla morte del gran papa Alessandro III avvenuta l'anno avanti. Ad occupare la cattedra di S, Pietro era stato eletto e consacrato nella sua sede episcopale di Velletri papa Lucio III il quale, data la malsicura situazione politica a Roma, resse le sorti della Chiesa per quasi due anni, dalla sua sede vescovile.

Nel novembre di quell'anno, seguendo una consuetudine generalmente ignorata dai baroni di Campagna, Giovanni si recò a Velletri accompagnato dal fratello Stefano e dalla zio Giordano per rimettere nelle mani del nuovo papa, simbolicamente, i suoi feudi e riaverne rinvestitura. Questo fu un atto essenzialmente politico intento a dimostrare quale sarebbe stata la posizione del nuovo conte di Ceccano negli affari di Campagna, e a dare prova della sua rottura con la tradizione ghibellina della sua famiglia. II disegno politico di voler potenziare la signoria di Ceccano appoggiando e non contrastando le esigenze del potere temporale della Chiesa era cosi espresso chiaramente all’inizio della sua presa di potere. Velletri non distava molto dall'abbazia di Fossanova; le due località avevano raccolta l'eredita, della scomparsa diocesi di "Tres Tabernae", sia quella religiosa che quella di stazioni viarie che facevano capo alla strada che passando sotto Sermoneta e Sezze portava a Priverno e a Terracina costeggiando la palude che in quel tratto aveva invaso la via Appia. A Fossanova, l'antico monastero benedettino di S. Stefano era passato ai cistercensi i quali da vari anni ne avevano fatto un cantiere del loro spirito religioso ed artistico, e vi fervevano i lavori per la costruzione della grande chiesa abbaziale alla quale lavoravano architetti ed artigiani borgognoni e del posto. La vicinanza della sede apostolica agevolava frequenti contatti con la corte papale e con i prelati della curia, e l'abate Giordano ebbe ampia possibilità di stabilirvi amichevoli rapporti, curando gl'interessi della sua abbazia, e non dimenticando le ambizioni personali. Anche a Velletri, in quegli anni, si respirava con un certo sollievo da quando la pace di Venezia aveva portata la distensione tra papato ed imperò e, più recentemente, per l'accordo raggiunto tra i comuni lombardi ed il Barbarossa a Costanza. Permanevano turbati però i rapporti tra il papa ed il popolo romano, e infatti si esacerbarono a tal punto che nella tarda primavera del 1183 papa Lucio fu costretto a chiedere aiuto al cancelliere Cristiano di Magonza, vicario dell'imperatore in Italia; l'arcivescovo guerriero venne dalla Tuscia con i suoi tedeschi a dar battaglia ai romani, ma morì di malaria nei pressi di Tuscolo. Imbaldanziti da questo colpo di fortuna, i romani devastarono Tuscolo e poi si riversarono nella Campagna saccheggiando Paliano, Serrone e Palestrina. II papa decise allora di rivolgersi direttamente all'imperatore Federico che era sceso nuovamente in Italia, e si mise in viaggio per il nord. portandosi a Verona, dove morì nel novembre del 1185. I suoi successori. Urbano III e Gregorio VIII, passarono i pochi mesi dei loro rispettivi pontificati in alta Italia senza mai rientrare a Roma o nel Lazio. Nel frattanto. I’amministrazione degli affari di Campagna rimaneva a Velletri, e fu in questa città che durante una delle sue visite l’abate Giordano venne a sapere che il conte pontificio di Campagna, un milanese di nome Lanterio, aveva intenzione di rinunciare al suo incarico per tornarsene in patria. Oltre alle sue funzioni giuridiche ed amministrative sugli affari temporali, Lanterio aveva il comando del castello di Lariano con la sua importante roccaforte che sbarrava la strada dalla valle Latina e Velletri e al mare. Temendo che nell'impazienza di andarsene il milanese venisse indotto a trattare con il popolo romano. Giordano intavolò un diretto negoziato con colui che era "ballivus per totam Campaniam" arrivando ben presto ad un amichevole accordo; e dietro pagamento di una certa somma di denaro, Lanterio consegnò il castello e la rocca di Lariano all’abate Giordano, il quale le "conservavit integras" e le restituì al nuovo papa Clemente III quando egli rientrò a Roma dopo la sua consacrazione a Pisa nel dicembre del 1187. I risultati di questa astuta operazione diplomatica non si fecero attendere molto; nel marzo dell*anno seguente il papa elevò Giordano alla porpora con il titolo di S. Pudenziana, e in giugno lo inviò in legazione presso la corte imperiale in Germania. E’ ragionevole assumere che Giovanni abbia contribuito politicamente e finanziariamente al successo all'iniziativa dello zio, anche perché la considerava essenziale allo sviluppo del suo disegno politico di potenziare la signoria di Ceccano dentrò la struttura del potere temporale della Chiesa. Se si tenne discretamente in disparte, lo fece per non destare sospetti tra i baroni della Campagna e negli amministratori capitolini circa eventuali pretese dinastiohe su Lariano.

Stabilito questo rapporto di fiducia con la corte pontificia e dimostrata la lealtà verso la sovranità della Chiesa, Giovanni poteva ora dedicarsi alla ricerca di altri punti d'appoggio per la sua politica. Forse nessuno più di lui si rendeva conto dell'importanza di Ceccano nella sua posizione sulla via maestra del conflitto tra imperò e papato per il controllo del regno di Sicilia; ma in Sicilia, oltre che per il napoletano, si arrivava anche attraverso le terre d'Abruzzo, storica via d’accesso alla Puglia, retroterra del regno normanno. Per fattori che si riallacciavano alle antiche transumanze italiche, sopravviveva tra le genti del Basso Lazio e quelle d'Abruzzo una affinità etnica, linguistica e di tradizioni popolari e religiose, nonché rapporti economici; non erano mancati nel passato anche legami di parentela tra i conti di Ceccano e quelli di Comino e di Albe. Questa vicinanza tra Ceccano e l'Abruzzo sembra quasi toccarla quando descrivendo il rigido inverno del 1167 il cronista nota che il lago Fucino s'era completamente ghiacciato e che la gente lo attraversava a piedi da una sponda all’altra, quasi lo avesse visto lui. Oltre a queste affinità sociali e culturali, esistevano valori politici nella geografia del potere che non sfuggivano a Giovanni, e che lo convinsero ad allinearsi con i grandi feudatari d'Abruzzo, Molise e Puglia, capeggiati dal conte Ruggero d'Andria, i quali si erano recentemente schierati contro Tancredi ed in favore di Enrico di Svevia quale legittimo successore alla corona di Sicilia. Questa scelta politica si concretò con il matrimonio di Mabilia, sorella di Giovanni , al conte Giacomo di Tricarico nel novembre del 1188, seguito l'anno dopo dall'unione di Giovanni a Rogasiata, figlia del conte Pietro di Celano, nella cui casa si era consolidata anche l'eredita dei Berardi d'Albe; sia i Celano che i Tricarico favorivano re Enrico. Questa scelta politica, anche se non fatta con spirito ghibellino, metteva decisamente Giovanni dalla parte dell'imperò negli affari di Sicilia. A tale scelta doveva essere arrivato in base ai consigli pervenuti dallo zio Giordano il quale durante la sua permanenza alla corte imperiale non avrà trascurato di considerare e rappresentare gl'interessi della sua casa oltre a quelli della Chiesa. II cardinale rientrò dalla Germania nel giugno del 1189, in tempo per officiare alle nozze del nipote con la figlia del conte di Celano; e quale sia stata la festa di popolo a Ceccano e falcile immaginare. La fortuna arrideva al quasi trentenne conte di Ceccano; nel dicembre di quell'anno egli ricevette la spada di cavaliere: "lohannes de Ceccano gladio militiae accinctus est," e a conferirgli l'investitura venne forse Enrico di Kalden, che in quegli anni comandava l'esercito imperiale stanziato in Sabina.  (8)  

E’ da presumere che i primi rapporti diretti di Giovanni con la corte imperiale risalgano almeno al 1186, quando Enrico VI, dopo il suo matrimonio a Costanza d'Altavilla, venne nella Campagna occupandola tutta. Come gli altri baroni della provincia, anche il conte Giovanni avrà reso omaggio di necessità al figlio dell'imperatore ed ora anche erede alla corona di Sicilia; e lo avrà seguito quando l'esercito imperiale risalendo verso l'altipiano d'Arcinazzo si accampo nei pressi di Guarcino "dove ai svolse una disfida armata tra un cavaliere tedesco ed uno italiano di nome Malpenza, e l'italiano sconfisse il tedesco alla presenza del re e di tutto l'esercito schierato intorno." Quello stesso anno "ad espiazione dei molti peccati," Gerusalemme fu catturata dai Saraceni. Mentre gli eventi incominciavano ad incalzare anche in Italia, Giovanni aveva completata la sua politica di alleanze nella quale conciliava lealtà alla Chiesa, rispetto per l'imperò e allineamento con i baroni di Abruzzo e di Puglia. Nel maggio del 1190 Enrico di Kalden passò con il suo esercito nell'Abruzzo per congiungersi ai baroni publiesi in lotta contro Tancredi; nell'estate Riccardo Cuor di Leone, evitando d'incontrarsi con il papa, scese con il suo esercito crociato nella Marittima imbarcandosi a Terracina per la Sicilia, sul qual regno il sovrano inglese vantava qualche pretesa dinastica; ed infine Enrico, coronato imperatore in S. Pietro, nell'aprile 1191 mosse con il suo esercito verso mezzogiorno a far valere i propri diritti sulla corona normanna,

Oltre ad essere astuto uomo politico, Giovanni di Ceccano fu grande e magnifico signore il quale entrò i limiti e le circostanze di quei secoli ebbe a cuore l'interesse delle sue terre ed il benessere dei suoi sudditi; e non dimenticò inoltre di onorare Iddio e la Beata Maria Vergine con opere che esaltavano anche la propria munificenza. Amava le feste, i tornei, lo. sfarzo e gli applausi della folla, e nel suo stile di vita anticipava lo splendore delle principesche corti rinascimentali. Ma da buon figlio di quei tempi, non dimenticava la salute della propria anima e di quelle dei suoi congiunti, e fece perciò costruire, restaurare ed abbellire chiese e cappelle in tutte le terre della sua contea. A Ceccano fece ricostruire la chiesa dedicata a S. Giovanni che era andata completamente distrutta con tutta la sua parrocchia in un terribile incendio dell'ottobre 1180, e che troviamo riaperta al culto durante le feste del 1196. Non c'è dubbio che Giovanni, come era d'uso, abbia curato con particolare devozione le chiese e santuari dedicati al suo santo patrono sparsi nei castelli e nelle terre dei suoi feudi, sulle quali godeva il diritto di giuspatronato; tra queste dovette trovarsi anche l'antichissima chiesa dedicata al Battista nella terra del castrum di S. Stefano, nella valle dell'Amaseno, fatta poi restaurare nel Trecento dal conte Giacomo di Ceccano forse in memoria del suo grande trisavolo. Ma l'opera che più di ogni altra ce lo fa ricordare e nella quale traspare tutta l'energia della sua personalità, della sua fede e del suo senso della storia e la chiesa di S. Maria del Fiume a valle del ponte di Ceccano, opera di spiccato carattere artistico alla quale lavorarono anche mastri ed. artigiani fatti venire da Fossanova dall' abate Giordano. Questa austera ed elegante costruzione nello stile borgognone -distratta durante la guerra nel 1944 poi rifatta- sorse lungo la riva dello antico fiume Trerus dove Antonino Pio aveva fatto erigere un tempio dedicato alla moglie con un annesso collegio per le "puellae Faustinianae". Negli anni della riforma agraria capeggiata da papa Zaccaria, in questa zona venne organizzata una domusculta che diventò un centrò agricolo importante attirando coloni dalle superstiti comunità romane della valle. La domusculta andò dispersa in seguito alle scorrerie barbariche, ma degli edifici era rimasta una chiesa intorno alla quale, nei secoli successi vi si raccolse una piccola comunità di monaci. La nuova chiesa di S. Maria del Fiume venne dedicata con gran pompa nell’estate del 1196, con una festa che sarà stata ricordata a lungo tra le popolazioni di Campagna e Marittima. Ma ascoltiamo il racconto come ce lo ha lasciato il cronista, il quale prese parte alle celebrazioni.

In quest'anno di grazia e della misericordia di Dio onnipotente, al tempo del signore Giovanni di Ceccano, e stata dedicata e consacrata con grandi onori la chiesa di Si Maria del Fiume. Alla cerimonia ha presieduto come padre il signor Giordano cardinale prete, assistito dai signori vescovi Berardo di Ferentino, Giovanni di Anagni, Pietro di Segni, Oddone di Veroli, Taddeo di Alatri e Tedelgario di Terracina. Le celebrazioni hanno avuto inizio dopo la cena, quando i signori vescovi hanno raggiunto il signor cardinale e, seguiti da una moltitudine di popolo venuta dalla Campagna, dalla Marittima e da altre province si sono mossi in processione verso S. Maria del Fiume. Nel corteo, rischiarato da sette coppie di lanterne, con venti turiboli d'argento che spandevano aromi d'incenso, venivano portati quattro evangeliari. d'argento, dodici croci anch'esse d'argento e quattro capselle contenenti sacre reliquie. Raggiunta la valle, al canto del responsorio "Haec est fratemitas" i reli-quiari vennero messi in quattro padiglioni innalzati nei campi fuori il circuito della chiesa, dentrò ciascuno dei quali ardevano sette lampade, vegliati tutta la notte da chierici che salmodiavano benedicendo Iddio, ai quali facevano coro i canti e le laudi della gente, uomini e donne,nei prati tutt'intorno. Fattosi giorno, i vescovi ed. il signor cardinale procedettero prima come d'uso alla consacrazione del corpo della chiesa della Beata Maria sempre vergine, e quindi andarono in processione a prendere i reliquiari dai padiglioni che portarono nella chiesa.Qui, sollecitato dai vescovi, il cardinale si rivolse ai presenti con un discorso talmente commovente da impressionare profondamente tutti. II cardinale non aveva ancora terminato il suo sermone quando entrò nel tempio il signore Giovanni di Ceccano che da tempo giaceva gravemente malato nel suo letto. Al vederlo così subitamente guarito, la folla si mise a gridare al miracolo e per circa mezz'ora rese grazie a Dio lodando e benedicendo il Signore che vive e regna nei cicli. Ritornata la calma, il cardinale chiuse il suo discorso, e si passò alla consacrazione degli altari.

II vescovo di Ferentino assistito dal cardinale e dal vescovo di Anagni consacrò l'altare maggiore, deponendo sotto di esso la capsella con le reliquie più importanti del legno della S. Croce, della veste della Vergine, di quelle degli apostoli e di molti martiri, e tra questi S. Tommaso di Canterbury trucidato pochi anni prima per la sua difesa delle giurisdizioni eoclesiastiohe. Contemporaneamente gli altri vescovi consacravano gli altri due altari della chiesa dedicati rispettivamente ai santi Paolo e Quirico, ed. anche la chiesetta di S. Matteo apostolo, adiacente alla nuova chiesa, e che forse era la cappella restaurata della scomparsa domusculta.

Compiuti i riti di consacrazione, vennero portati i regali che il signor cardinale donava alla chiesa e che egli pose personalmente sull'altare maggiore, e consistevano di preziosi paramenti sacri ...tra i quali un bellissimo camice con dalmatica e pianeta tutto riccamente lavorato, che il cardinale aveva comprato a Colonia ... La seconda donazione fu quella del signore Giovanni di Ceccano, ed. era la carta delle franchigie, che egli stesso salì a depositare sull'altare e nella quale si diceva: "In questo giorno, 24 luglio del 1196, Giovanni di Ceccano alla presenza del signor Giordano cardinale di S. Pudenziana mio carissimo zio e dei venerabili vescovi ... e di molta gente, chierici e laici, di tutta la Campagna e Marittima, spinto dall'amore per Dio, e dal desiderio della salvezza dell'anima mia e di quelle dei miei parenti defunti, viventi e da nascere, concedo alla chiesa di S. Maria del Fiume e al signor Landolfo diletto abate di questa chiesa ed. ai monaci . della sua comunità chierici e laici presenti e futuri piena e perpetua libertà da tutte le esazioni, salvo in caso di abuso... Concede inoltre diritto di asilo a chi avendo commesso qualsiasi delitto cerchi rifugio in questa chiesa ... eccettuato chi avesse tramato la mia morte o quella dei miei eredi, o avesse congiurato per sovvertire con tradimento i miei castelli.... Rimette nelle mani della comunità completa giurisdizione sugli affari ecclesiastici; e nel caso di reati commessi dai membri di essa comunità, sia chierici che laici, spettava all'abate ed ai chierici del capitolo di rendere giudizio, salvo i casi di giuspatronato.

II cronista non ce lo dice, ma pare probabile che prima che Giovanni deponesse la pergamena sull'altare, Benedetto, notaio segretario del conte, ne abbia data pubblica lettura. Finite le cerimonie religiose, i prelati se ne tornarono agli alloggi dove avevano fatto preparare abbondante vitto per sfamare le genti di servizio ed i concittadini venuti per la festa: il vescovo di Ferentino presso la comunità di S. Maria del Fiume, quello di Anagni presso la rifatta chiesa di S. Giovanni, Oddone di Veroli presso quella di S. Quinziano, Taddeo di Alatri a S. Pietro, Tedelgario di Terracina a S. Nicola, ed il Vescovo di Segni nella casa di un certo Pietro di Antonio.

II cardinale Giordano era rientrato nel palazzo con il nipote Giovanni ad intrattenere gli ospiti di riguardo ed i castellani e cavalieri venuti dai loro feudi. I conti di Ceccano avevano fatto imbandire una lauta mensa nei locali della curia dove erano approntate "cento pagnotte di pane, sei damigiane di vino, una vaccina, due maiali, due castrati, sei galline, quindici pollastri, un'oca, e pepe, cannella e zafferano." A Ceccano quel giorno "la grascia fu. tale che a descriverla in pieno ci sarebbe da prendere indigestione, e tutto coloro che vennero se ne andarono saziati." E la festa dovette continuare dopo che il sole era calato dietro il pan di zucchero di Cacume, infatti cera e fiaccole erano state provvedute alla gente, e per le strade di Ceccano festonate con archi di mortella, ed intorno ai capanni di frasche di alloro nei prati e nelle radure fuori le mura castellane si sarà cantato e danzato fino a tarda ora al suono di zampogna e al ritmo dei tamburelli. Questa gran sagra di luglio avrà rallegrati molti, facendo anche dimenticare lo stato di guerra che prevaleva in tutta Italia. L'imperatore Enrico era sceso nuovamente nella penisola deciso a prendere possesso del suo regno di Sicilia. A novembre, la gente di Ceccano potè assistere non senza timore dall'alto delle sue mura allo sfilare dell'esercito tedesco che da Ferentino, dove era stato accampato per una settimana, marciava verso il napoletano». A Capua Enrico offrì un esempio dell' efferatezza del suo carattere; trovatovi in prigione il conte Riccardo d'Acerra, cognato di Tancredi di Sicilia, "lo fece portare a giudizio e lo condannò ad esser legato alla coda di un cavallo e trascinato nel fango per tutte le piazze della citta; quindi ordinò che venisse appeso al patibolo per i piedi, dove rimase a pendere fino alla morte dell'imperatore," avvenuta I’anno dopo a Messina e che lungi dal portar pace, aggravò ancor più la situazione, specialmente nella Terra di Lavoro dove, nel vuoto di potere che seguì, si misero a spadroneggiare i baroni del seguito imperiale. E nel 1198 troviamo Marcovaldo di Anweiler, Dipoldo di Vohrburg e Corrado di Marlenheim che "con un gran numero di gente d'arme tedesca presero e saccheggiarono S. Gemano (Cassino), inseguendo i miseri fuggiaschi che correvano per riparo verso Montecassino, prendendone prigionieri quanti poterono, uomini è donne; e li misero ai ferri per venderli in schiavitù." Dagli effetti di questo stato di anarchia non scampava la vicina Campagna; infatti dopo che Marcovaldo mosse verso Sicilia a fine novembre 1198, "Dipoldo venne con il suo esercito in Campagna occupando Ripi e Torrice e vi rimase per tre settimane depredando e saccheggiando a piacere le terre di questi castelli." Ma un fattore nuovo s'inseriva frattanto nella dinamica politica dell’Italia e dell'occidente cristiano con I’elevazione alla cattedra di S. Pietro di Innocenzo III, avvenuta nel gennaio del 1198.

II disegno politico di Giovanni parve più vicino e realizzabile con l'ascesa del cugino di Segni al papato, e non per i vincoli di parentela, ma per la convergenza delle loro vedute su quello che si doveva fare in Campagna. II grande Innocenzo, intento come fu sempre ad asserire l'egemonia del potere spirituale della Chiesa su quello mondano dei re ed imperatori, manteneva uno speciale e sentimentale interesse negli affari della sua nativa provincia, dove sperava di poter creare un feudo per il fratello Riccardo. Normalizzata perciò la situazione nell'Urbe, il giovane pontefice volse a ripristinare l'autorità della Chiesa nelle terre del Lazio restaurando le antiche roocheforti e costruendone delle nuove, e visitando queste terre per esigere personalmente il giuramento di vassallaggio dai feudatari del Patrimonio, grandi e piccoli, come in Anagni con Giovanni nel 1202, e a Ferentino alcuni anni dopo quando fece rinnovare il giuramento ad, alcuni signorotti del frusinate. (9)

La ricerca di. un feudo per I’ambizioso fratello del papa non era cosa facile, per mancanza di terre disponibili. A risolvere questo dilemma s'impegno Giovanni con l'aiuto dello zio Giordano, del fratello Stefano e del suocero Pietro di Celano. L'unico territorio nella zona giuridicamente libero dai vincoli feudali in quel momento era quello di Sora, da oltre quindici anni in mano a Corrado di Marlenheim, il quale teneva corte nella rocca di Sorella al di sopra della città dalla quale scendeva regolarmente con le sue soldataglie tedesche a foraggiare e saccheggiare nelle terre limitrofe. Sora però apparteneva al re di Sicilia, e per la sua posizione geografica interessava anche i feudatari dell'Abruzzo. E fu il conte di Celano ad ottenere la condiscendenza dei conti d'Abruzzo ed ad intervenire anche presso il re Federico, sul quale vantava un certo ascendente, per ottenere il consenso sovrano e l'eventuale investitura per il fratello di Innocenzo. A coordinare i vari aspetti di questa delicata azione, morto il cardinale Giordano nell'aprile del 1206, il papa chiamò a far parte della sua segreteria di stato il diacono Stefano di Ceccano; e fu lui che "con solerte e sottile lavoro diplomatico , coadiuvato dal cardinale Pietro di Sasso rettore di Campagna e con l'aiuto dello stesso Riccardo," portò l'operazione a completo successo. Prima di tutto fu necessario scacciare Corrado dalla rocca di Sorella; e venne cosi montata un’operazione militare con l'apporto dell'abate Roffredo di Montecassino e di altri baroni delle terre vicine, e tra essi Giovanni di Ceccano; Sora "fu liberata dalla tirannide tedesca ... e a metà febbraio (1208) cadde anche Sorella." Per dar risalto a questo evento, che oltre al fine grettamente nepotistico aveva anche lo scopo politicamente più valido di dare un assetto stabile a quelle terre di confine tra Regno e Patrimonio, perenni focolai di turbolenze varie, papa Innocenzo decise d'intraprendere un prolungato viaggio eminentemente politico nel Basso Lazio mostrando alle popolazioni ed ai signori di quelle terre personalmente la maestà e la sovranità pontificia. Papa Innocenzo lasciò Roma il giorno della festa dell'Ascensione diretto ad Anagni, dove rimase per circa un mese. La mattina del 17 giugno, era di martedì, il papa inizio il lungo viaggio che lo avrebbe tenuto fuori Roma fina a Natale; e sceso a valle, venne ricevuto nelle terre di Alatri dal "signore" di Ceccano con cinquanta dei suoi cavalieri tutti smaglianti nelle loro tenute per accompagnare in allegra comitiva il signor papa." C'è solo da immaginare come lungo tutta la strada sia accorsa dai castelli sulle alture circostanti molta gente a rendere omaggio al papa "nostro" e per applaudire il pittoresco corteo di cardinali e curiali con i cavalieri del conte di Ceccano che caracollavano con brio lungo il tragitto. Poi la lunga fila di personaggi a cavallo e gente del seguito a piedi con le bestie da soma prese a risalire lentamente i tornanti che dal piano portavano all'altezza del passo della Palombara, dove sorgeva a ristoro di uomini e di bestie un antico fontanile alimentato dalle acque che scaturivano dalle falde di monte Cacume, variamente chiamato Fontana di Giuliano o di S. Angelo, dal monastero omonimo non molto distante. In questo punto, dalla strada principale che scendeva ripidamente verso i prati di Valcatora e la valle dell’Amaseno, si staccava una diramazione che seguendo il tracciato della scorciatoia ancor in uso si snodava a mezza costa in dirczione del "castrun Lolliani" con la sua importante rocca ceccanense dalla quale si controllava l'accesso al valico.(10)

Alla fontana di Giuliano si erano congregati i chierici venuti da tutti i castelli del signore di Ceccano che si unirono al corteo papale ed insieme risalirono verso il castello di Giuliano. Ad attendere il papa al portale della chiesa del paese era il vescovo Alberto di Ferentino con il clero di Ceccano in magnifici paramenti sacri che accolsero il papa intonando il responsorio: "Tua est potentia." Il pontefice impartì l'apostolica benedizione ai presenti, e poi ognuno si diresse ai propri alloggi per il pranzo. Per il clero di Ceccano era stata preparata una lauta tavola di cibi vari sotto un padiglione fatto alzare fuori le mura castellane, mentre il personale al seguito del papa, dei cardinali e prelati, e dei signori venuti per l'occasione trovarono di che sfamarsi in abbondanza nella piazza del paese con pane e vino, carni vaccine, maiali, porcellini, capretti, castrati, polli ed oche, pepe, cannella e zafferano per condimento, candele per la sera, e biada e fieno per le bestie. Nel pomeriggio, il signore di Ceccano ed i suoi cavalieri intrattennero il papa e la corte giostrando fino all'ora di cena. II giorno seguente, il signor papa, sempre accompagnato dal signor Giovanni con il suo seguito di cavalieri, riprese la strada per Priverno, dove sostò per pranzare e a riposarsi; e con la prima brezza della sera prosegui con tutta la sua corte al monastero di Fossanova, ricevuto con solenne processione dai monaci dell'abbazia, con i quali il papa prese la cena nel refettorio. Quella sera ben duecènto cavalli vennero contati all'ora del foraggiamento. All'albeggiare del mercoledì, il papa dedicò l'altare maggiore della nuova chiesa del monastero, mentre tra lo squillar di trombe il protonotario delegato dal re Federico di Sicilia proclamava l'investitura del signor Riccardo, fratello del papa, a conte di Sora. Papa Innocenzo passo l'intera giornata con i monaci prendendo i pasti con loro nel refettorio. Il giorno dopo, giovedì, si accomiatò dai monaci che lo accompagnarono in processione fino all’ingresso del celebre monastero; e ripresa la strada, il corteo papale si diresse verso S. Lorenzo, dove pernottò, proseguendo poi per Castro ... Ceprano ...e arrivando la domenica a S. Germano (Cassino) ricevuto solennemente da tutto il clero dell'abbazia di Montecassino.

Giovanni continuò a scortare con i suoi cavalieri la comitiva papale attraverso le terre dei suoi feudi nella valle dell'Amaseno lungo la strada che seguiva il corso del fiume, staccandosene poi per risalire per i colli in direziono di S. Lorenzo e la gola di Vallefratta, congedandosi dal pontefice probabilmente presso l'antica chiesa di S. Salvatore, sul colle Porcini, al confine tra S. Stefano e S. Lorenzo. A Sora, in agosto, il papa prese sotto la sua protezione S. Maria del Fiume confermando le immunità concesse "dal nostro caro figlio e nobil uomo Giovanni di Ceccano."

Ma il sogno di stabilità e di pace nel Basso Lazio fu di breve durata. II voltafaccia di Ottone di Brunswick aveva riportato l'Italia ai tempi dell'imperatore Enrico; gran parte dei feudatari italiani e tedeschi di Abruzzo, Terra di Lavoro, Puglia e Calabria, e tra essi i conti di Celano, di Tricarico e i dell’Aquila di Fondi, erano passati dalla parte del nuovo imperatore. La rottura tra Innocenzo III e Ottone IV diventava sempre più profonda, e con un ultimo sforzo a ripararla il papa inviò il suo segretario Stefano di Ceccano in missione presso l'imperatore che allora era in Toscana.(11)

Ma la trattativa fallì, e sui primi di novembre del 1210 l'imperatore, "dietro consiglio di Pietro di Celano e di Dipoldo," entrò nella Marsica per via di Rieti, celebrò la festa di S. Martino a Sora, e sottomise tutte le terre fino a Capua." II 18 di quel mese il papa scomunicò Ottone, senza riuscire a distoglierlo dal proposito di conquistarsi la Sicilia. La presenza dell'imperatore in Italia fece rialzare il capo a molti baroni di antica fede ghibellina anche in Campagna. A Giovanni non saranno mancate sollecitazioni ed offerte dal suocero di Celano e dai cognati di Tricarico a schierarsi con l'imperatore, dal quale essi avevano ricevuti notevoli benefici. Ma Giovanni si mantenne fedele a papa Innocenzo. Nel maggio del 1216 Ruggero dell'Aquila conte di Fondi, che come s'è visto parteggiava per Ottone, fece un'incursione nella Campagna saccheggiando molte terre e tra queste anche quelle di Ceccano e poi si ritirò con un gran bottino di roba e di bestiame. Giovanni scese in campo e venendo con i suoi soldati per la valle dell'Amaseno, lo intercettò presso Vallecorsa e lo mise in fuga, ricuperando gran parte del 'bottino, prendendo prigionieri fanti e cavalieri e tra essi Ruggero, zio di Riccardo dell'Aquila. Vittoria dalle ali tarpate. Il 16 luglio moriva a Perugia papa Innocenzo III; e per Giovanni venne a fine un rapporto personale di amicizia e di ammirazione, ma .non lo distolse dalla fedeltà alla Chiesa, come aveva giurato ad Anagni.La guerriglia di Ruggero dell'Aquila rifletteva un diffuso stato d'insubordinazione reso più baldanzoso durante la degenza del pontefice. Non erano passati due mesi che Giovanni dovette scendere di nuovo in campo. "Il 30 luglio di quest'anno, di sabato, il signore Giovanni di Ceccano ha assaltato e preso Morolo, facendo molti prigionieri, tra i quali Oddone Novello Colonna con undici dei suoi cavalieri, sua sorella Mabilia con la figlia. Giovanni poi ordinò che il paese venisse dato alle fiamme, e ad espiazione dei peccati, 424 persone, uomini, donne, vecchi e bambini perirono nell'olocausto." I prigionieri vennero portati a Ceccano dove dovettero giurare fedeltà a Giovanni. La sorella di Oddone Colonna, Mabilia, era moglie di Tommaso di Supino, allora anche signore di Morolo, il quale si trovava a Fondi presso Ruggero dell'Aquila coinvolto nelle attività politiche di costui. Come Tommaso seppe quanto era accaduto a Morolo, temendo il peggio, lascio Fondi e si recò a Ceccano per veder di salvare moglie e figlia. Trovo un Giovanni estremamente duro ed implacabile e per riscattare i suoi congiunti "dovette versare al signore di Ceccano la somma di 1000 libbre provisine e giurargli sempiterna fedeltà, ed a garanzia di tale giuramento, gli consegnò in ostaggio un suo figlio." Giovanni rilasciò Oddone Colonna con i suoi cavalieri nella custodia del cardinale Giovanni Colonna. L'episodio di Morolo ebbe uno strascico politico sfavorevole a Giovanni di Ceccano, non per la spietatezza che aveva dimostrato contro la popolazione inerme, cosa del resto non rara in quei tempi, ma perché con l'avvento del nuovo pontefice, Onorio III di casa Savelli, si annidarono nell'anticamera del potere temporale forze nuove ed. ostili al conte di Cecoano, il quale però continuava a considerarsi uomo ligio della Chiesa. L'ultima comparsa di Giovanni nelle pagine della cronaca ceccanense avviene nell'occasione della dedicazione della nuova chiesa abbaziale di Casamari nel settembre del 1217. Lo troviamo ancora brillante, anche se attempato e forse amaramente disilluso, con la sua scorta di briosi cavalieri rendere omaggio a papa Onorio come si addiceva ad un coscenzioso vassallo. Fu una cerimonia molto più fastosa di quella di. circa dieci anni prima a Fossanova. "Accompagnavano il papa tutti i cardinali, i notai e l'intera curia; erano presenti anche due vescovi dalla Spagna oltre ad undici altri delle terre vicine. Grazia a Dio, tanta fu l'abbondanza di pane, vino, pesce, formaggio, carni ovine e viveri di ogni genere serviti in mattinata e a sera che nessuno ebbe a lamentarsi. All'ora del foraggio si contarono più di mille cavalli, dei quali più di 400 appartenevano ai cavalieri venuti da tutte le terre del signore Giovanni di Ceccano." I rapporti tra Giovanni e papa Onorio sembrarono buoni al principio, ma poi qualcosa venne ad. avvelenarli. I nemici del conte di Ceccano colsero l'occasione per isolarlo politicamente usando come pretesto l'affare di Morolo; e quello stesso anno gli veniva tolto il feudo di Sezze "ob ingratitudinem." Oltre a ciò, il vescovo di Ferentino lo scomunicava per non aver rimesso in libertà certi prigionieri presi a Morolo e per non aver restituiti beni ecclesiastici allora confiscati. (12)

Dietro questa pesante sanzione sembra scorgere la mano dell'iracondo cardinale Giovanni Colonna di S. Prassede.

Giovanni fece testamento il 5 aprile 1224; aveva due figlii Landolfo e Berardo e due figlie Tomasia e Adelasia. Al primogenito Landolfo lasciava i feudi di Ceccano, Arnara, Patrica, Cacume, Monteacuto, Giuliano, S. Stefano, Pisterzo, Carpineto e i diritti baronali su Montelanico, ed inoltre i beni patrimoniali posseduti a Frosinone, Alatri, Torrice e Ceprano. A Berardo lascio i feudi di Maenza, Rocca Asprana e Prossedi, con i beni patrimoniali in Priverno, Sezze e Ninfa. Nel suo testamento Giovanni "fa espresso comando ai figli di aiutarsi scambievolmente e dispone la reciprocità, di decadenza dei beni in caso di eredi non legittimi. Se uno dei fratelli avesse tentato di defraudare l'altro, Pisterzo e S. Stefano sarebbero passati a Berardo, se l'insidiatore fosse stato Landolfo, Prossedi a Landolfo nel caso inverso".(13)

 Non si conosce l'anno della sua morte, ma doveva esser venuta prima del 1227.

Giovanni di Ceccano salta fuori dalle pagine della storia come una complessa e geniale personalità di signore feudale di un tipo non comune tra i signorotti di Campagna di quei tempi; alle esigenze del potere egli seppe abbinare il gusto del bel vivere. Quello che più lo fa risaltare dallo sfondo scuro e spesso torvo di quegli anni e il suo fare di magnifico signore, amante dello spettacolo, dei giochi cavallereschi, delle grandi cerimonie, al centro di una corte movimentata e soggiorno preferito di cantori di laudi religiose, di umili cantastorie, di menestrelli, giullari ed anche di trovatori d'oltr’Alpi venuti a cantare i tristi amori di Tristano, di Lancillotto, gl'incantesimi della fata Morgana e le gloriose gesta dei paladini di Carlo Magno. Giovanni ebbe gran. passione per l'aspetto cerimoniale del potere e per il senso cavalleresco della vita, ch' gli forse acquistò dai racconti di una nutrice oltramontana; ed il suo breve passaggio nella storia tende ad evocare la figura di un cavaliere errante che si batte per un ideale irraggiungibile e poi scompare. II suo grande piacere era circondarsi di eleganti ed agili cavalieri scelti tra la gioventù nobile dei suoi castelli, con i. quali passava gran parte del suo tempo. Quando scendevano in allegra e rumorosa compagnia dalla rocca per andare a giostrare e allenarsi alle armi nei campi lungo il fiume, e facile immaginare come le giovani dame e fantesche siano accorse alle finestre per vederli passare. Forse tra questi cavalieri che formarono la vera corte di Giovanni sono da ritrovare Trasamondo d'Azze, Guido, Roberto e Filippo di Rainaldo, Benedetto di Rainone, Roffredo di Marina, Giovanni di Radolfo, Landolfo di Suffla, Trasamondo Saraceni ed altri nobili i cui nomi si trovano quali testi negli atti notarili di Giovanni. Dal lato umano, Giovanni fu uomo di una certa apertura sociale, se non altro perché il suo estro per lo spettacolo esigeva un pubblico; ma sarebbe errato attribuirgli un senso di responsibilità sociale al di fuori degli interessi personali e della sua casa. Non molto si conosce dei suoi rapporti di famiglia, oltre alla concezione patriarcale e patrimoniale che aveva dell'istituto familiare. Tra coloro che lo aiutavano nel disbrigo degli affari giornalieri, nessuno gli fu più vicino del notaio Benedetto, fidato segretario e consigliere ma vanno ricordati anche i nomi del suo economo Noe, e del "caro cameriere" Rahel. Della politica ebbe una visione realistica e al di sopra dei prevalenti egoismi e particolarismi, e vedeva la creazione di un più ampio equilibrio dei poteri costituiti come unica soluzione ai guai che affliggevano le popolazioni del Basso Lazio, ed in una forte asserzione della sovranità della Chiesa la malta che poteva rendere tale costruzione duratura; gli mancò però la sagacia d'individuare il vizio congenito del potere temporale, che cambiava d'indirizzo con ogni nuovo papa. Da quello che traspare della sua vita inferiore, egli riflette il problema escatologico di quell'era ossessionata dal retaggio del peccato da espiare personalmente e collettivamente, e dall' imperativo di dover salvare la propria anima, e quelle dei congiunti passati e presenti e futuri. Ed anche il concetto del potere politico rientrava in questa escatologia dei "peccatia exigentibus;" e a Morolo egli fu la mano iella retribuzione divina -almeno così poteva giustificarsi- una forza impersonale,come terremoti, nubifragi e pestilenze che dio mandava ad espiazione dei peccati. Giovanni ebbe anche un forte senso della storia, come traspare quando fa scrivere che "data la debolezza e la labilità della natura umana, è buona e giudiziosa pratica che tutto quanto viene trattato tra gli uomini sia messo in iscritto acciò non venga dimenticato, ma invece preservato in perpetuo." C'è da rammaricarsi che un pittore non ce ne abbia tramandate le sembianze in un affresco a S. Maria del Fiume, chiesa che egli predilesse e nella quale venne in tutta probabilità tumulato. Morendo, lasciò una signoria potente e stabile, che il figlio Landolfo seppe conservare e rafforzare, permettendo cosi ai conti di Ceccano di mantenere la loro preponderanza politica sulle terre di Campagna per circa tré secoli ancora.

 

 

Annotazioni al testo

Questo studio si basa su una lettura critica della cronaca ceccanense nelle edizioni di Georg H. Perz ("Annales Ceccanenses," Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, XIX) e di Ludovico A. Muratori ("Chronicon Fossae Novae," Rerum Italicarum Scriptores, VII), dalla quale provengono le citazioni nel testo senza riferimento numerico, e che sono facilmente reperibili cronologicamente. La cronaca, che nella sua parte essenziale copre gli anni 1100-1217, venne scritta dalla visuale storico-geografica di Ceccano e a compilarla furono probabilmente i monaci di S. Maria del Fiume, uno dei quali potrebbe aver portato il manoscritto a Fossanova. II punto di riferimento della narrativa politica e l'asse Roma-Montecassino, di quella ecclesiastica, ferentino-Casamari. Per .un resoconto critico sulle vicende del testo della cronaca, vedasi Giuseppe Sperduti, Saggi di storia locale ciociara, Veroli 1979. Per una visione più ampia del quadro storico entrò il quale si svolgono gli eventi narrati dalla cronaca ceccanense, sono di molto aiuto: Luigi Salvatorelli, Italia comunale, Milano, Mondadori, 1940} i volumi II-VI della Cambridge Medieval History, Cambridge-New York 1924-1936; oltre alla grande storia del Gregorovius.

 

 

Note bibliografiche

1. Theiner, Augustin, Codex diplomaticus doiminii temporalis S. Sedis, Frankfurt 1964 (3 vol, ristampa), I, 36-37.

2. Ibidem,

3. Waley, Daniel Po, The Papal State in the Thirteenth Century, London-New York; 1961, pag. 6.

4. Partner, Peter, The Lands of the Roman Church in the Middle Ages and Early Renaissance, BerkIey-Los Angeles 1972, pag.162

5. Villani, Giovanni, Istorie fiorentine, Milano 1834, pag. 202.

6. Partner, op. cit. pag» 295.

7. Che donna Egidia fosse di casa Colonna e ipotesi basata su analogie onomastiche; Egidio, Giovanni, Stefano sono nomi che ricorrono per generazioni in questa famiglia, mentre quello di Mabilia, meno comune, lo ritroviamo nella figlia di Oddone Colonna catturato da Giovanni a Morolo.

8. Nel "Paradiso" (XV, 139-141) così Cacciaguida sì presenta a Dante: Poi seguitai lo 'mperador Currado, ed ci mi cinse della sua milizia, tanto per ben ovrar gli venni grado.

9. Theiner, op. cit.I, 40-41.

10. Sull'ubicazione della Fontana S. Angelo, vedansi le note di Gioacchino Giammaria e Isnardo Grossi in Patrica Oggi, 1973, numero unico della Pro Loco di Patrica. Alvaro Pietrantoni nota i vari toponimi di Giuliano in Cenni storici su Giuliano di Roma, Roma 1972. Trovo in un documento dell’Archivio Comunale di Villa S. Stefano che nel 1758 si parlava di terre Loliani.

11. Gregorovius, Ferdinando, Storia della città di Roma nel medio evo, Citta di Castello 1938-1944, 16 vol. VII, 100,

12. Sindici, Michelangelo, Storia di Ceccano, Ceccano 1893. pag. 140.

13. Lombardi, Augusto, Note sulla storia di Villa S. Stefano, opera inedita messa a mia disposizione dal maestro Angelo lorio di Villa S. Stefano. Il Lombardi consultò il testamento di Giovanni di Ceccano conservato nell’ Archivio Colonna.

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