Antonio Lauretti
Poesie Poesie Dialettali

Voci di Teravazzo

"Spero che qualche mio verso

come farfalla colorata

si fermi un giorno

tra spazi senza tempo

ad assaporare sorrisi

d’un vento amico."


Alla mia Valle

A te Valle …

ch’ormai mi culli …

tu che rapisti

questo cuor acerbo …

apri gli orizzonti

del sapere

qui su sospiri di terre

che profumano di vita.


Primavera a Teravazzo

Ed ecco la storia,

d’un piccolo ragazzo:

ardita memoria

pioppi di Teravazzo.

Un cielo turchese

qual mondo sconosciuto

eroi, terre, imprese,

d’un tempo già vissuto.

Il tutto corre in fretta

s’avvolge come un rito:

mèta è quella vetta

tra sogni di quel sito.

Un vento sui capelli

sfiorava quel tuo viso

e corpi ancor più belli

s’aprivano al sorriso.

Baci di sol petali

d’amor, per solo ben

tra rose, spine e sepali

amor mi risovvien …


Venti del terzo millennio

Gioventù senza meta, bruciate

da un’era corrotta e veloce

che portate invano una croce

e non pesa di giusto valor.

Sollevate convinti le teste

alla vita guardate negli occhi

in un mondo di motori e balocchi

e di chiacchiere senza un perché.

E` pur ver, ch’è passato di moda

di conoscer poeti ed eroi;

un sol dio, che conta per noi

il denaro e la comodità.

Siamo tutti scienziati e maestri,

con in tasca un bel portafogli;

non si pensa ad onori ed orgogli

non si bada perfino all ’onor.


L’uomo da giovane,

guarda molto lontano:

ma non vede,

ciò che ha

sotto gli occhi.


Ciociaria

Madre degli avi miei

terra di uomini forti

come rocce:

eterni monti

e faggi

che sfidano

il tempo.

Nelle freddi notti

un cielo inebriato

aspetta l’aurora.

O Ciociaria

figlia d’Italia

madre Terra

accetta

il mio Canto.


A Priverno

Quando il mio cor silente,

posai sul nuovo stato

rimase fecondato

di luce e prati in fior.

Tra le convalli erbose,

il tutto intorno ispira;

fin dove il guardo mira

dolcezza in fondo al cor.

Bellezza e fantasia

sparse nel nuovo mondo,

dentro il mio cuor profondo

il canto mi dettò.

Per te eterna Valle,

culla d’antica storia

di gesta e di memoria

fiorente resterà.

A te, che ormai mi culli

sperando d’esser degno

del tuo antico regno

di gloria e civiltà.

Arcana fantasia,

sento dal cuor esprimere;

voler con te dividere

la vita e la beltà.

In queste Volsche terre,

nacque una "Regina"

dai monti alla marina

l’impronta resterà.

Batte la bianca luna,

lungo il tortuoso colle

nel piano della valle,

splende di luce ancor.


Nostalgia

Voglia di seder tra lor, tra i miei pastori

gente robusta di questa terra amica

semplice, cullata da valori

che schiariscono il volto della Ciociaria.

Tra fitte selve ricche di colori

corro scrutando l’armonia

di verdi sentieri, antichi amori,

torna e sorride la segreta via.

Sere tra rustiche dimore passan liete

al suono di stornelli d’organetto,

tra fantasie, notti lunghe e bimbi quieti.

Ed io con loro canto canzoni e miti

melodie che porto nel petto

gustando allegro, fraterni inviti.


Sogno

Nellerma pace della mia dimora:

muto, solingo, quadro immacolato

in memoria di luoghi dove ho sognato,

qui, nel deserto mio risogno ancora.

Dolci fantasie d’oggi, come allora;

chi mi sarà compagno inseparato?

il mio romito verso inascoltato

tra il profumo campestre dell’aurora.

Su questa bianca pagina immortalo

in questa culla piegherò la testa

ove rimango a piangere da solo.

Allor saranno i fior, il caro volo

dei miei sogni, unico resta

e resterà, soltanto il verso ignoto.


Mio padre

Un lontano giorno imprecisato,

un uomo s’imbarcò nell’avventura:

lasciava i monti suoi dov’era nato

per la conquista d’una fertile pianura.

Lasciava dietro a sé ricordi antichi,

e tanta tristezza,con gli amici suoi

non per nulla, per validi motivi,

con leggerezza giudicar non puoi.

Così si incamminò, per quei sentieri

con addosso solo, malinconia;

portando seco primogenito arcani pensieri,

la sua Compagna, ed acuta nostalgia.

Alfin giunse, al tramontar del sole

nella promessa terra, a lui straniera;

volse il guardo al colle, senza parole,

e volse al cielo una preghiera.

L’ora è soave e grande, nell’insieme

pallido è il sol nell’orizzonte

immerso nelle desolate lande

ripensa ancor, al caro monte.

Sogni poi l’attendon nel futuro

ben segni che lasciò, sul suo cammino

baciò la nuova terra con cuor duro:

pensando all’indoman, nuovo destino.


Ultimo saluto

Era d’ottobre qual dolente sera

all’apparir d’un sogno rivissuto;

antico sguardo intriso di preghiera,

abbraccio caldo, ultimo saluto.

Figura forte dalla fronte altera,

carca d’un qualche aspetto sconosciuto,

pallido il volto ch’al domani spera

miglior destin per me da te voluto.

E gli occhi azzurri presero il momento

che lacrima, nascosto aveva il sole,

impetuoso nacque un sentimento

fu muto il cor senza parole.

Poeta, tu che lasciasti il segno

dell’arcana feconda fantasia

torna ancora col tuo ingegno

ad illuminar questa vita mia.


Gennaio 1967

È sera

una fredda sera d’inverno,

il camino fumica e scoppietta

il freddo sembra eterno.

Tutti seduti sulla panchetta,

papà accende la sigaretta:

intorno al fuoco regna la pace

quello più piccolo sorride, e tace.

Il sonno avanza, intorno alla fiamma

già sullo scanno qualcuno giace;

ragazzi a letto sussurra Mamma.

S’è fatto tardi, è fredda la sera

nella penombra qualcuno spera.


La mia valle

Sono solo: Prigioniero

d’una Valle perduta

vago verso ampi spazi

sfidando il tempo eterno.

M’accompagna un’idea muta,

inespressiva ed arsa

come fieno maturo.

Tornano nel pensier

motivi lenti

e l’alto silenzio,

come nebbia

che invade la pianura.

Sento o Amaseno Fiume

solo il tuo lamento

che risveglia il cor

da brutta arsura.


L’alba del giorno dopo

Quel lontano giorno che partii,

per un paese tutto sconosciuto,

ove il cor non udì alcun invito,

ma per la Patria non ci fu rifiuto.

E quella notte risognai gli armenti

con tutta la mia valle in fior;

vedevo il fiume, quei dolci momenti,

con nostalgia del mio grande amor:

E le convalli, dove pure il giorno

in mezzo ai fiori mi fermavo a sognar

il sol d’agosto che splendeva intorno

che amavo tanto, volevo salutar.

Stanco m’adagiavo su rovi desolati,

con la mano accarezzavo un fior

pensando quindi, a quali duri fati

avrei ceduto questo ardente cuor.

Ma, sento che musica sussurra

e questo cor ancor vorria cantar

torno alla valle, nella pianura azzurra

divento naufrago, sperduto in alto mar.

O canto mio, intriso di nostalgia

tra i balzi eterni, col mio caro fiume

serate magiche, con le ridenti lune

qual sentimenti, venti di casa mia.


Notte di Montenegro

Ore d’estate, nel casolare

un vecchio e un bambino

soli, nel ricordare.

L’uomo parlava lentamente,

il piccolo lo seguiva da vicino

fantasticando solo con la mente.

Mirava il volto stanco

vedeva quel mondo lontano

offuscato, vestito di bianco.

O d’Italia caduti

notte di Montenegro

ricordi, tempi perduti.

Quel volto canuto

parlò della Triste Storia,

partenza senza ritorno.

Morì per la gloria

quel Figlio Soldato

nell ’ora di guerra

ora col vento che tace

suonate campane,

campane di Pace.


Sera d’autunno

Il tutto tace, il piano i colli,

case sparse nella notte scura

fischi d’uccelli dalle terre molli

coprono il silenzio, affanni di natura.

Dai tetti grigi, fumano i camini

e la goccia batte sulla gronda

nella tranquilla oscurità profonda

immensa luce, occhi di bambini:

che siedono impazienti intorno al fuoco

al tepore della rossa fiamma

ma la sottile voce della Mamma

chiede di pazientar, ancor per poco.

Traspare tra la nebbia, flebil luce

dal paesello, vestito di lampioni

dal triste cor ella conduce

cari ricordi, ricchi di emozioni.


Vado Cusano

Pianura solitaria

verde campagna

fertile suolo

pago di torrenti.

Verde manto incantato

che sorride e sogna,

rallegra i cuor dei pastori

e degli armenti.

Giorni senza fine,

armonia di età possente,

melodie lontane, e vicine:

un giovane cuore ardente.


Lirica

Monti amici miei,

parte d’una storia,

viva è la memoria

del valore e della gloria.

Ancor son nei miei sogni

i bei giorni interminabili,

con gli amici miei leali,

che adesso vi dirò.

Il pensiero va a Luigi

il maestro mio d’un dì,

trova Alfiero il professore

assai mite e di gran cuore.

Con lor passavo ore

verdi e spensierate

vagando per lumache

o a prender nidi.

Cuori birichini

pronti a cogliere l’amore

della salvia profumata

l’odor della mortella

che colpisce ancor nel cor.


Il mio giardino

Nella modesta mia abitazione

tutto intorno, ho fatto un giardino;

una piantina in mezzo di limone

e quattro belle piante di lucino.

Due albicocche con il mandarino

con le due palme, che fanno da Signore

le rose rosse con il ciclamino

coi melograni che tengo sul cuore.

E dietro a tutte l’altre cose

mia moglie ci coltiva fiori e rose:

un’aiuola illuminata di colore

così rimane acceso il nostro Amore

La siepe che rimane sempre verde

fa che neanche l’anima si perde:

la mia casetta, non è lussuosa

a me basta che fiorisca la mimosa.


Il pastorello

C’era in un tempo ormai lontano,

un giovane pastore, poverello:

è un fatto vero, anche se strano,

quando pioveva, non aveva ombrello.

Libero, se ne andava, lungo i sentieri

con i suoi armenti e i suoi pensieri.

Andava per i colli e per vallate

passava le sue ore spensierate.

Portava appresso un piccolo fardello,

e per compagno, solo un asinello.

Nelle convalli solo, lui cantava

nell ’aria, la sua voce vibrava.

Vagava solitario, senza un cane

mangiava qualche frutto con del pane,

e lungo il fiume, su le amate sponde

inghirlandava il capo, con le fronde.

Dentro nell’acque limpide nuotava

con grande maestria si tuffava,

nelle giornate tiepide d’agosto,

si soffermava all ’ombra di quel bosco.

Cantavano gli uccelli, tremavano le fronde

mosse dal vento, lento il mormorio dell ’onde

così prendeva sonno, in quei momenti,

tranquillamente al ruminar d’armenti.

Quel piccolo pastore che sognava

quella sua Fata, con lui s’addormentava,

al suo risveglio restava sbigottito,

talvolta muto non moveva un dito.

Là nella valle la quiete vi regnava:

solo una voce, dall’alto sussurrava.


Nei verdi ulivi

a Enrico Trapani

Tra i verdi ulivi, dove ho già sorriso

fra il canto degli uccelli, ho pianto:

come un bambino, lacrime sul viso,

un cuor dal dolore infranto.

Nell’aria vedo come nubi nere,

naufrago sono in mar profondo;

vorrei salpare una delle sere,

a visitar l’immenso fino in fondo.

Ricordo e non capivo il senso

di quel tenero dolce tuo sorriso,

spesso la notte ora ci ripenso

e mi risveglio stanco e confuso.

Ora non è completa la famiglia,

ogni sorriso ha una tristezza pia

interminabil lacrima fra le ciglia

la stessa ti bagnò, nell ’agonia.

Padre mio, lassù nell’universo

in questa immensità, son perso:

nei verdi ulivi, dove i miei pensieri

volano con te, lungo i sentieri.

Ora in ginocchio, a la Vergine Maria:

al suon de le campane del paese,

vorrei venisse incontro, per la mia via.


Pensieri

Poesia di un giorno lontano:

sogni di bambino

che vivono ancora

negli anni.

E mi travolgono

forse volano invano.

Valori legati all’origine

costruiti da amicizia

con fondamenta forti

che fan più lieti

i miei giorni,

specchio d’antico.

Ricordi racchiusi nella mente

e trascinati dietro

come un fardello

lungi dal separarti;

miti pensieri,

sempre presenti.

Un astro d’argento

ascolta piano,

l’eco delle mie note

a cui affido nell’aria,

intrisa d’amore,

lacrime al vento.


Ad una madre

Rivivo ancor, con futile memoria

in questa valle umile suol mio,

voci arcane d’una trist’Istoria

ancor nel cuore quel commosso "addio".

Nella valle regnava il giorno

nell’aria il grido d’una voce,

sulla crudele via del ritorno;

quel ciel segnava la tua croce

Segni di vita, sul finir del giorno

nei campi, verso il casolare:

il silenzio sostava intorno

pie voci, parean sussurrare.

Nell’ora che ritorna ogni pensiero,

echeggiano le grida sotto il monte,

parole miti intrise di mistero

a pochi passi dall ’antica fonte.

Chi mi parla al cor, tu lo sai,

e rivedo quella visione estrema,

la forza che al cor mi dai,

a scriver porta, il triste tema.

Una Mamma, ancor contenta,

quella Madre teneva la mano,

quel brutt’anno, ognun rammenta

sentiva il tuo battito lontano.

Sia Pace nella Terra benedetta,

tra lo splendor delle volte gialle

qui cè ancora chi ti aspetta:

fredda è la sera… solo nella valle.


Preghiera

"All ’Altissimo Padre"

Un giorno di Settembre, come Maggio

riuniti in una gita organizzata,

per recarci in pellegrinaggio

nella meta, umilmente sognata.

Gente da tutto il mondo si recava

pareva di esser in Paradiso,

la Gloriosa figura, io contemplava

il gran mistero, di quel dolce viso.

Nell’aria un tal profumo dominava

da far dimenticare la tristezza

nei cuori solo Fede vi regnava

commossi i petti a tale bellezza.

Un bimbo figlio d’umil contadini

portato per natura al sacrificio,

lascia il paese, genitori e fratellini

e per fede si richiama a Dio.

Con la potente mano del Signore

e sua inestimabile sofferenza

il mondo intero, trascina con amore

verso l ’altissima credenza.

Beatissimo Padre di noi tutti,

in nome del mondo ci affidiamo

nelle tue mani, nei momenti brutti

di star vicino a te, noi supplichiamo.

Perdonaci le nostre debolezze,

se intender di più noi non possiamo:

le nostre vane frivolezze,

nella volta dei cieli ora preghiamo.


Ombra

Pomeriggio d’estate:

seduto all’ombra

della mia casetta

a respirare aliti della sera.

Passano i minuti

i pensieri volano

com’ombra lontana

verso Mondi diversi,

a valori persi

lontani e muti.

Il fresco della notte

rapisce i miei sogni,

e mi riporta

la realtà dei motori:

sinistri rumori,

spesso di morte.


Italia

Piccola donna, indifesa,

madre d’Eroi, e luminari:

a volte umiliata e offesa.

Bellezza che inonda i mari,

nessuno come adesso

ti rese infelice,

come il progresso.

Io t’amo,

spesso nella notte

invoco il tuo nome,

e penso alla tua sorte.

Italia, io spero:

che le mie note volino

con patrio amor sincero,

e sul tuo seno si posino.


Il mio fiume

Ai pié dei sacri monti,

nasce, quell’Amaseno

da quell ’arcane fonti,

racchiuse da segreto.

Verso vasti piani

solchi quel suolo antico

da tempi assai lontani

di tutti fai d’amico.

Fiume: tu che trascini

spesso il mio cantare

riportami quaggiù

le cose care

al buio t’aspetto,

solo e senza lume.


Notte di luna

Quando la luna splende,

al tremolar dell’ora,

il vasto pian silente,

s’innalza e si colora.

E tu discendi,

antico torrente,

tra verdi balze

nel tortuoso calle.

Tu come me

taci fremente

lento e solitario

cerchi la valle

O grande gioia:

sotto il cielo aperto,

in alto vola.

Nell’anima segreta,

al sorriso deserto

vorrei salir Poeta.


All’amico Bernardino Massaroni

Proprio vicino al mio abitato,

coltiva un orticello Bernardino:

con il pozzo, una pera che ha innestato

la baracca dove, al fresco, mette il vino.

Pianta un po’ di tutto con passione,

cipolle, pomodori, piante d’olive,

e qualche pianta pure di melone

fa di tutto per tenerle vive.

L’annaffia, le pota, disinfetta

con amore, lì in mezzo si diletta:

a volte mi ci trovo pure io,

ricordo ancora, quando c’era zio.

Nel campetto assai curioso

facciamo due chiacchiere in compagnia,

lo tengo allegro, e più gioioso

poi ci fermiamo a casa mia.

Al fresco del campetto

facciamo a volte un banchetto

una salsiccia, due olive, una licetta

mangiamo con le mani, senza forchetta.

Se parliamo di una cosa divina,

sorride e prende la "marzollina":

e quella, col vinello cerasolo

è una delizzia, và giù da solo.

Dentro la rurale baracchetta,

dopo aver mangiato la licetta

vestiti pure di soli stracci,

ci sentiamo due signori, poveracci.


Temporale nella valle

Quando romba la marina

fischia il vento di ponente,

il temporale s’avvicina

nella valle, travolgente.

Verdi i monti, l’aria scura

lingue di fuoco, sulla pianura

il contadino nel fienile s’appiatta

ad ogni colpo, che il cielo scatta.

La pioggia cade, non ha premura,

armenti ruminano senza paura,

mentre il villano, dentro le stalle

guarda pensoso, giù nella valle.

Il fiume in piena, sponda a sponda,

trascina infuriato onda su onda:

cala la sera, nelle dimore

a fuoco lento passan le ore.

In quel tepore che emana la fiamma,

la cena attesa prepara la mamma,

e nel silenzio fatto di preghiera

una flebil luce, nella dolce sera.


La mia casetta

Sempre portai con me,

quella casetta,

all’ombra dell’olmo

con la pergoletta.

La siepe, il mandorlo

di sotto il noce,

le mie canzoni

cantavo a piena voce.

La cara nonna

che spesso borbottava

sempre col tegamino

pronta stava.

Cuoceva la cipolla

con due uova

al pari proprio

d’una gran signora.

Attorno a quella pietra

col tavolino

stavamo tutti e tre

proprio vicino.

E dentro al petto

c’era la poesia

che m’hai lasciato tu

casetta mia.


A mia figlia

All’alba se ne parte l’operaio:

volge lo sguardo al ciel, solo le stelle

s’affida al suo destrier d’acciaio,

per il valor, di quelle cose belle.

Uomo, tu che vivi nell’ombra

nel grigiore, d’un cielo perduto:

un pensiero antico ritorna

quella parte che non hai avuto.

Gli anni passano, in un momento

si rimira, si trova cambiato,

la folta chioma, color d’argento:

ora quel tempo gli resta lontano.

Una vita che poco sorrise,

quale pena doveva scontare;

ad amare il mondo, non smise

la realtà doveva affrontare.

Nelle sere, pensoso rimira,

gli tornano dolci pensieri:

quando piccola, ora cuce e stira,

e non crede, gli sembra ieri.


Infanzia

Ragazzo ascolta:

mi diceva quell’uomo,

dai verdi anni

il tuo futuro,

nessun sospetterà

di tanto affanno,

attento sempre,

ed evita l ’inganno.

Non abbatterti mai

vola come aquila lontano,

se vuoi voltati,

migliora degli avi il solco

tortuoso ed aspro, come sai.

Un corpo forte e sano,

ti ci vuole, per vivere

e sopravvivere…

Ma cerca il canto:

guarda l’universo, nella notte

ubriaca di stelle

che sognano.

Non tenere scritti nel cassetto,

scrivi con la forza del tuo petto,

avanti dunque, audace vai,

e non fermarti mai.

Se talvolta il cor ti si rattrista

vinci l’ora triste,

chiama le muse,

pensa al bello dell’amore,

passione ardente

sempre vincente.


A Giuseppe Lauretti

mio nonno

Tu uomo, che del popolo,

semplice figlio oscuro

guidasti il tuo cammino

con animo sicuro.

Gentile e grande d’animo,

e di persona altera

sempre lodasti l’umile

per tua virtù primiera

che hai trasmesso ai postari

sul suol dell’avvenir.

Carico d’un gran fardello,

seguisti la tua via:

non pochi sacrifici

d’affanni e di fatica.

Intanto, nel tuo cuore

nascosto nel profondo:

già conosceva il canto,

la storia d’altro mondo.

Dall’alto di quei monti

seguivi da lontano,

i passi dei tuoi figli,

stranieri giù nel piano,

con occhi attenti e vigili:

d’arcana maestà.

Ora per te io canto:

anche se a tarda ora,

il tuo ricordo intanto

mi nutre, e mi consola.

Ancor ripenso al giorno

ultimo dell’or finale:

quando fui di ritorno

dal servizio militare.

Muto restai,

nell’umil dimora,

allor con occhi incerti

non seppi dir parola

eterna fu l’immagine,

quella figura nobile.

L’antica sofferenza

la fede, e l’alto lume,

La giovane pazienza

di gloria ha tinto il nome.


Lungo la costiera Amalfitana

Scorre il battello nell’aperta scena,

d’un chiaro e fresco alito d’Agosto.

Dalla scogliera brilla la serena

dolce malinconia, che non conosco.

Lontane nenie dell’onda

che mormorate tristi

con voci di spiriti non visti

portate il piede mio sulla sponda.

Van l’ali del pensier delle mie note,

sul verde mare, su le acque ignote.

Tra le bellezze antiche mai vedute

le sacre sponde, de le rive mute.

E dalle mute rive brillan le serre,

tiepidi venti invian tal profumi.

Chissà qual fata baciò le terre

ricche di sole e d’esotici agrumi.

O venti che date giovinezza,

d’una natura, che mai non vidi,

ridatemi la forza, e la freschezza

di ritornar quaggiù, su questi lidi.

E’ già sera, il crepuscolo si spande,

sul pian dell’acque, dal tortuoso lido

scorre il battello con divinità grande;

trasporta i miei pensieri all’infinito.

Io mi ricorderò, dei tuoi tramonti,

allegro tornerò sul mio cammino,

ritorno al mio paese, ai patrii monti:

e innalzerò per te, l’inno divino.


I trebbiatori

Dov’è quel campo, con le quercie antiche

con l’aia sotto, vicino al casolare:

su quell’arena si specchiavan le fatiche

di quei che, gladiator, parean lottare.

Donne al sole, capavano la veccia,

tra le spighe cullate dal vento,

sui visi abbronzati, calava la treccia.

Oh anni immortali, magico momento.

Dov’è campo, quel tuo mare d’oro

laddove si perdeva il mio cantare?

Invitavo i passeri a volare,

volteggiavo anch’io in mezzo a loro.

Al paese suonavan le campane

dicevano con calde note ov’ero!

Mi voltai, vidi terre lontane

sentendomi quasi un forestiero.

All’ombra del verde melograno,

qualcuno aspetta, guarda e dice:

"Si sente appena il battito lontano

del motore della trebbiatrice",,,

Tutt’intorno, è calmo e tranquillo

fino all’aia di zio Salvatore.

Si ode piano, il trillar del grillo

batte la trebbia, al calar delle ore.


Chiesetta sul fiume

Prossedi

A te chiesetta sul fiume;

che racchiudi misteri e memorie

qui nel silenzio immenso,

tra la solitudine infinita,

illumini la valle,

dandogli vita

ed alla vita un senso.

Dal nostalgico oblio

accompagni i tramonti

con la luce di Dio.


Sole antico

Torna a salir il sol dell’ora

sui verdi, solitari monti;

nella fitta selva regna l ’aurora:

respiro di sere, nostalgici tramonti.

E’ sempre quel sol che porto nel cor?

Volano pensieri, piange la natura,

ma la vita che non dura

ripensa a quell’amor…

Corre il progresso, torna l’estate:

muoiono epoche dimenticate,

fame, miseria, lotte ideali,

dov’è la gloria, miseri mortali…

Vedo nell’aria spegnersi

l’antica melodia,

tempi lontani e persi,

o vana nostalgia.

Vorrei tornasse a splendere

quel caro antico sole,

ma invan resto ad attendere

petali e parole.


Richiamo

Vecchia selva, dai frondosi rami

ampio miraggio, di pupilla assente:

e come allor, dai di lontani

mi guarsi fredda e paziente.

Dimmi ancor, che m’ami

dillo a un cuor, allor fuggente;

che sente ancor, i tuoi richiami

alla frescura, alla mia gente.

Da le valli silenziose,

tra la vaga sfumatura,

lo splendor di tante cose:

nel ricordo che perdura.

Con le mie velate immagini,

sol in quest’ampio squallor

io, vi invoco o rocce vergini:

non portatemi rancor.


Mistero

Tornerà la primavera,

seguiranno nuove estati,

ma quei fiori profumati

torneranno a rifiorir?

Forse un giorno un nuovo fiore

in questi campi spunterà,

nasce forse un nuovo amore;

un altro mondo ci sarà.


Venti lontani

Rivedo ancor, un mondo con i fiori;

che a poco a poco fugge dalle mani,

quei profumi antichi coi colori

vecchi ricordi, ormai lontani.

L’affetto degli amici, le canzoni:

serate allegre, allegri i cuor,

scarpe modeste, vecchi calzoni

ma dentro i petti c’erano i valor.

Lasciamo stare il mondo,

in mano alla natura;

che l’acqua di quei monti

arrivi fino al mar.

Che i nostri figli vedano,

la faccia dell’aurora;

i sassi alle montagne

lasciamo riposar.



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La ciuppara

Paricchio tiempo, mo à passato

da quande ficcai na mazzetta de fico,

quand la vero mò la benerico

cà nu signalo buono m’à lassato.

Sta fico l’hai piantata ncima na fossa,

i torno torno a fatto na ciuppara

cà mò s’à fatta puro bella ròssa

caccia la fico doci, i chella màra.

Prò repensennece nù momento,

è comm’a certa gente, d na razza

chi si, chi no, gli t’è nu sentimento:

chi t’è la capa bona, i chi la pazza.


La streppegna

Je songo n’ommo buono i lialo;

a nisciuno so mai aucurato lo malo,

songo girato l’Italia fine n’Sardegna,

i mai me so scurdato la streppegna.

Perché la streppegna è puro ròssa,

i parte dalla terra de Vallecorsa:

a stù paieso ciaie stato na vota

m’so cummosso, quand m’hai llacota.

Gli Vallecursani, sonn brava gente;

i d fede, crideno agli Santi,

ci stào, i ciao stati uomni culla mente;

mà, è gliù paieso ch’fece gli briganti.


Gli tempi moderni

Nà vòta, i teneva n’aseneglio

i à peti quasi mai ci camminava,

sempre a cavaglio isso me purtava,

chesto, quando glio munno era chiù beglio.

Allora m’arecordo, se cantava,

la gento steva tutta chiù cuntenda:

chello poco che teneva, se magnava,

i spisso faciavèmo la polenda.

La sera passavèmo pè ssi prati

iavèmo a truà glio vicino,

sembravémo quasi tutti frati:

i gl ’òmmeni, sé beveveno lo vino.

Mò ammece cù sa cescarìa

Coca Cola, aranciata, acqua ’nbuttigliata

iamo a magnà, alla pizzeria,

i la gente, sa mèsa ruinata.

Sa pino dé macchine, i dé motori,

sa propia cagnato mò glio munno

non sé sentèno più, manco gli addori,

se continua accusì, iamo a fùnno.


Boni tempi

Le serate d’vierno, cu gliù fuoco;

Cù nà cannela, tutti a loco attorno

chi s’addormeia prima, chi duopo

aspettavamo, che se faceia giorno.

Stavamo tutti nfacce a gliù cammino,

càcruno sé senteia cà ruccava

caràuto appuiato a gliù tavulino;

prò ntànto gliù fumo te cicàva.

Cà vota faciavamo la cummèddia

n’ulavamo assére tutti quanti

ma cé mancava sempre prò cà sedia

cà gli vagluni aveino puro tanti.

Tu t’recurdi come stavamo andanno;

ne’nsembrava ma stavamo stritti

ci capava, sia nò gliù scanno,

i nua stavamo boni, zitti, zitti.

La televisione ancora nen ci stava

cù tutte quante appriesse se frignacce,

cù gl ’iorganetto la sera se sunava;

ammece mò nte guardi manco nfacce.

Gliù cielo, me pareia più serino,

gliù mùnno m’appareva tutto d’oro;

mò me sembra nà cappa de cammino,

i pé gli prati, nen vìri più nù fioro.

Resurieno gli figli, cu i neputi

ma nè facémo viecchi, puoco a puoco:

pùro ca gli ùremo cào crisciuti,

pòuri figli, nen tievo più gliù fuoco.


A fratemo

Resse nà ri fratemo Felicetto:

"Nen se putéia campà, chu chelle prete,

ando stavamo, a chello de nonno Peppo,

a dieleta nen se semmena i nen se miete".

Chiglio Fulice, è comme a zù Toro

scherzenne t’rice sempe la verità

puro ca isso néiè lavuratoro

ma a modo sievo cià saputo fa:

" Tu ci piensi, se stavamo

dieleta ncima pé chigli ravi

puro ca fussimo stati bravi

nen putavamo fa chello che facemo".

Rice: "Si, la costa sarà bella

ma ieva bene cinquant’anni fa,

ma mo dieleta mméso la murtella

me rici: nua che stavamo a guardà?

Aspettavamo, che uneia Sant Rocco

pé magnarece do cici a la pignata

cu na buttiglietta de chinòtto

i pareia tutta d’oro la nuttata.

Chissi nuòsti mo tietene tutto;

machine, pane a grascia i maccaruni

nen ce manca mai lu prusutto

gni tanto rumpene puro gli cugliuni.

S’à chistu munno nen si mai patito,

nen può mai apprezzà lu pane bianco;

ricune mò, ca sao divertito,

ma nen sanno, ca jé me sento stanco".


Gliù stradono

Mò guardi, i t viri tutto cagnato:

la via, gli campi cu i frattuni,

quanto beglio tiempo prò a passato

da quand’eravamo tutti vagliuni:

Gli pennali, fatti du passuni

t pare ca mò uno sa scurdato

p’l’ufficina chigli tummuruni

a chisti tiempi, chi ci avrìa pensato.

Quand tu scìvi la mmatina

purtivi annante quatte bufole

ivi a dà gl ’iaggiro p l’ufficina

te ne ive pizzichenne le muricole.

L giurnate d vierno, p Teravazzo :

te reparivi sotte a ca albuccio,

la tagliola acchiappava ca ruazzo

mente facìvo gliù spito, cu Ialduccio.

Duoppo, appiccivi na cica d fuòco

p daret a gli pieri na scallata

i p’assucarete ca puòco;

ma la schina, saveia già ammullata.

Pe si straduni, ce steva tanta fanga:

ci passava appena gliù carretto

ca vota se rumpéa puro ca stanga;

nsomma la fanga, t’arivava n’pietto.

Duòppo paricchio, ce riéttene na bricciata

i pareia nu tappeto de cimento;

rumase cuntenta tutta la cuntrata

jé spicialmente, era propio cuntento.

Mo alla fine, ciau rato gliò sfalto:

i pare c’anno fatto chi sa ché,

nsé sa, come hao fatto, a dà s’appalto

ma ie prò, gli saccio gliù perché.


Bufalari

Na sera, me passavo nò pensiero,

da ì a’truà n’amico, nò vicino

praticamente Aldo de Luigino:

pe fa du chiacchiere, e pe di lo vero.

Chiacchierenno co’ st’amico,

semo fatto nu discurso cuntadino:

facennoci pure cà bicchiere de vino,

me desse: "Andò, senti che te dico".

Parlenne de na questione

praticamente sarieno sti bufali,

ridenne me desse in conclusione:

"Manco a magnà so boni, non so annudi.

Chesta è na cosa seria,

ci semo carichi de sti cosi niri

è tutta fanga dunga tu t’aggiri

i nun se vede manco la "materia"…

Nua stemo a lavorà pe gli lattari:

i cu sta scusa, cà lu latto è troppo

le vinneno a prezzo de sciroppo

damme retta, stavo a fà gl ’affari.

Francia, Pettenicchio, chi ci para

d’accordo cò stì raccoglitori

nsembra, ma se scagneno gli favori

i nui giramo dentro a sta callara.

A favore teo puro la legge;

latto pulito, culato, rifrigirato,

sapemo bìa nua, quand’è custato;

ma a nui chi ci protegge?…

Nui se sa, gli bufalari

n’è na classe troppo istruita,

semo reduci de gli pagliari

la scola è poca, della vita.

Se fussémo no poco più combatti,

facissemo la sera ca riunione

ammece de guardà la televisione

ci guarderemo meglio chisti fatti.

Ve pare, se no iaria sto prodotto

che fà parte de n’alimentazione,

ce gira tutta quanta la nazione

si signuri anno fatto terno a lotto".


Borgo montano…

"Gliù Macchiòno"

M’recordo, quant’era nù vagliono:

chigli tiempi erene propia biegli,

jé steva a monte, a gliù Macchiono,

la gente jeva tutta cogl ’aseniegli.

Nponda pe chelle prete

pi chello de nonno Peppo

facenne annande i arrete

fin’abballe da zu Richetto.

Na rì, stava a balle a gliù puzziglio,

vicino a gliù rettale de zu Toro,

‘ndò nonna piantava ca cucuzziglio,

cu cà pianta de pimpitoro.

Stava allu frisco, d’chella mandla:

appuiato mpietto a na macèra,

quande m’accuorsi, s’èra fatto séra

i nci pensava più a costa retommola.

Dòppo m’abbiai capammonte,

pe non fà sta mpensiero chigli viecchi:

pe la via pensava luntanamente

i me truai sotte gli casavicchi.

Quant’arrivai, steva nonna Assunta;

aspettareme vicino agl ’iuorto

i nonno Peppo, m’teneia de pùnta,

i zitto zitto me guardave stuorto.

Appena che passaie ca minuto,

me resse: "Nsì magnato i né bivuto

mo cumminzi a ì priésse a cà sbèteca,

tiè famo n’è? T’còco la fritteteca".

La rumane appriesse era ancora notte,

pé l ’aria s’ùreia ancora cà stella,

tòcca, ne sbièmmo pé ciammòtte

dagliu murciolo, arrivèmmo pe Purtella.

Nen d’rico, dapuò stava zù Toro

chiglio aveia prupiamente forte

la rì se metteva a fa gl ’attoro

che s’apozza arajà puro la morto.

Duòppo venne patémo nà rumàne

m’recordo teneia la lambretta

me repurtava a balle, alla Cusane,

tra, la via Rumana i la fiumetta.


Colle Palombo

Spisso, m’arevè sto pensiero:

quando me porterno méso sta valle,

era piccolo, i me senteva forestiero

chelle prete nù voleva lassalle.

Patremo, era fatto na casetta

arempòsta ncima nò colletto,

veramente era no poco stretta;

ntorno tanta tera come no fazzoletto.

Erano chigli tempi malamente

fortuna tenavemo no vicino,

i erano davvero brava gente.

Ancora ntenavémo gliù cammino,

manco gliò puzzo:i non saccio ancora,

ndò patremo tullivo stò coraggio

à partizze nà matina de bonora

cu natro sole, gliù mese de Maggio.

Facive nà stalletta de passuni,

m’arrecordo gl ’aiutava mamma:

i pe cuprilla ienno a fa la stramma

perché nui eravamo tutti vagliuni.

Gli frate mei ereno npò più grossi,

i ao patito forse più de mì

saltenne i cadenne pe gli fossi,

jé magari steva ancora a durmì.

Doppo, i sacrifici s’erano appianati

iàvemo verso n’epoca più bella,

cò zì Ndoniuccio de Cupella

pasciàvemo gli bufali pé si prati.

Iàvemo abbeverà pé l’officina,

allu frisco ciocavemo a carte,

magnenne le muricole pe se fratte

l’acqua 'gliù fiume era na medecina.

Pé non parlà dapò de Teravazzo,

na valle c’ancora porto ngloria

la tengo sempre dentro sta memoria

i guai a chi ci parla cò strapazzo.

Gli pioppi, glio fiume, la frescura:

gl ’iaseno cammineva a tutte l’ore

paréva cà tenéva gliò motore

ci giravémo tutta la pianura.

Nò voglio di cu chesto ca me lagno:

putaria scrive puro fino a dumane,

quando tengo nu pezzo de pane

s’acciarepenso non me le mango magno.

Chello che so scritto n’è pé vanto,

i manco è na storia travolgente:

ma vularìa fa sapè alla gente,

ca chisto core, spisso ha pure pianto.



Antonio Lauretti

 

 

 

up. 11 sett. 2006

www.villasantostefano.com

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