Uno sguardo al passato:

 

Pochi appunti sui vecchi molini di Santo Stefano

"... particolarmente imponenti avrebbero dovuto essere i molendini de valle, presenti - tra l'altro - nel testamento di Giacomo da Ceccano, ... Nulla di più facile ... Che i monaci di S. Stefano (= Fossanova) abbiano interpretato un ruolo di primo piano nella sistemazione di un territorio ricco di acque .... Ispirando anche la realizzazione del complesso molitorio posto nella valle superiore dell'Amaseno, in territorio oggi di Villa Santo Stefano e pressoché scomparso ..."

Così si esprime la Ployer Mione trattando dei rapporti tra il monachesimo benedettino dell'Abbazia di Fossanova e la valle dell'Amaseno. E questo avvalora l'ipotesi, già espressa da altri, e che noi sosteniamo, che vorrebbe l'intera comunità di S. Stefano nascere come dipendenza, o secondo il termine medievale, grangia, dell'abbazia di Fossanova, in origine appunto dedicata al Protomartire. Conoscendo poi gli stretti rapporti che correvano tra i Conti di Ceccano, successivi feudatari del paese, e l'abbazia stessa l'ipotesi appare ancor più verosimile. Per di più, a poca distanza in territorio di Priverno, e per alcuni secoli ancora questa abbazia possedette un altro opificio simile, detto appunto le Mole di S. Stefano. Ed, in effetti, la loro importanza doveva essere notevole per l'economia della zona, se Bonifacio VIII, sullo scorcio del XIII secolo confiscò ad Annibaldo di Ceccano, insieme ad altri castelli, una parte di S. Stefano con i mulini a valle.

Essi facevano parte di una serie di mulini posti lungo il corso del fiume, protetti da torri che in molti casi servivano anche da magazzino per le granaglie, e da punti di avvistamento, inserite in una catena con possibilità di segnalazioni reciproche e con i castelli.

Nel nostro territorio sorgevano due complessi: le mole di S. Stefano propriamente dette, e le mole di Giuliano. Ambedue constavano del molino di due vani, e di, una piccola casa annessa, anch'essa di due vani, comprendente una stalla. Ma mentre la mola di Giuliano era dotata di due pietre, o palmenti, quella di S. Stefano ne possedeva solo una. Si trattava di mole orizzontali ad asse verticale, alimentate a rifolta, ossia con canale di accumulo dell'acqua. Con la decadenza dei Conti di Ceccano, passarono insieme al paese in mano della famiglia Conti, che li possedettero per poco tempo. Nel 1425, S. Stefano veniva venduto insieme a Morolo ai Colonna. Con il paese i Colonna acquistavano anche le privative feudali e tra queste quelle sulle strutture, le tecnologie ed i procedimenti di trasformazione delle materie prime: frantoi, forni e mulini. I Colonna detennero per secoli il monopolio feudale affidandolo a propri affittuari, o luogotenenti, che facevano capo all'Erario residente in Pofi. Lo perdettero temporaneamente al tempo dell'invasione napoleonica, durante la quale peraltro curiosamente i francesi non riuscirono a censire i molini del frusinate. Finalmente nel 1816 con Motu Proprio di Pio VII, che dettava condizioni troppo onerose vennero costretti a rinunciarvi definitivamente. Cominciò così un po' dappertutto la corsa alle licenze di esercizio: venne impiantato un molino per "ciance" che non ebbe futuro perché ammorbava il fiume e impediva agli animali di abbeverarsi.

Resti del Molino di S. Stefano

Nel 1819 Matteo Bonomo rivolge istanza alla Delegazione Apostolica per impiantare un molino a grano. La domanda viene girata alla Sacra Congregazione delle Acque in Roma, organo supremo competente nel ramo, la quale rimette a sua volta il parere al Consiglio comunale e il giudizio finale alla Delegazione stessa. Fu ordinata una perizia tecnica, che manco a dirlo fu favorevole alla costruzione del molino. Il consiglio si espresse pure favorevolmente, il Consultore si prodigò in tutti i modi a perorare la causa del Bonomo cercando di fugare i timori di coloro che temevano seri danni: dichiarava che più molini c'erano e meglio era, che danni non ce ne potevano essere, e se pure vi fossero stati ne avrebbe risposto il proprietario. Ma le proteste di costoro prevalsero e il progetto rimase lettera morta. Nonostante la presenza di due molini per cereali fosse una risorsa indiscutibile per il paese e per i gestori, non mancavano i problemi. Innanzi tutto la loro ubicazione isolata li rendeva adatti come luogo di appuntamento per i briganti.

Di questo se ne erano accorte le autorità centrali che nell'estate del 1818 organizzarono un appostamento alle mole di S. Stefano. Ma i militari pontifici si comportarono peggio dei vandali e rovinarono la pavimentazione, ruppero il parapetto della finestra, fecero a pezzi la porta, bruciarono il trave maestro ed altri danni per un totale di dieci scudi che Angela De Luca reclamava in rimborso. Non mancavano le visite dei malintenzionati come quella che ai primi di agosto del 1816 Vincenzo Mancini di Ceccano impiegato alla mola di Giuliano, ricevette da Francesco Ferrari e Domenico di Bonno che in luogo di convenevoli lo riempirono di bastonate ferendolo in maniera grave, e costringendolo a mettersi in salvo a nuoto. I due probabilmente erano compagni di merenda, del Mancini, lui stesso un poco di buono. Questi, poco tempo dopo metterà su una bettola in S. Stefano e si buscherà sei mesi di carcere per aver deriso ed insultato con delle scritte sui muri del paese, Papa Pio VII.

La Mole di Giuliano si trova nel territorio di Villa Santo Stefano

Anche la gestione dell'acqua dell'Amaseno creava non pochi problemi: si verificavano continui dissidi, soprattutto tra santostefanesi e prossedani: da una parte ci si contendeva il diritto di irrigare i campi di granturco, per cui si stabilivano delle turnazioni che spesso non si rispettavano, e dall'altra si sosteneva che l'acqua del fiume deviata per l'irrigazione e l'abbeveraggio non era sufficiente a sostenere l'azione delle macine.

Ma forse l'aspetto più annoso e spinoso di questi molini era il problema morale, che interessava tutto lo Stato Pontifìcio. Esso nel 1826 aveva

raggiunto un grado tale da spingere il Papa a ordinare una vera e propria inchiesta. Secondo l'espressione di Don Luigi Fiocco a S. Stefano era necessario "rimuovere il pravo costume che regna nell'una e nell'altra mola di farvi star le donne di notte col farvi imporre dalla superiorità una buona penale, mentre da ciò ne vengono tutte le iniquità". L'addetto alla mola di S. Stefano era stato cacciato da quella di Giuliano, perché uomo "scandaloso che aveva cattiva pratica con la figlia del vitturale Tianella, per cui stimo si debba rimuovere anche dalla mola nostra".

Torna alla mente il canto con cui l'immaginario popolare, non solo ciociaro ha da tempo stigmatizzato questo fenomeno di costume :

"...Un giorno Lucietta andò alla mola

bim,bon, ba

Trovò il molinaro co'gli occhi bianchi e neri

Trovò il molinaro che dormiva

….

E mentre che il mulino macinava

Bim,bon, ba La mano sopra il petto le metteva ..."

Con il diffondersi dell'energia elettrica i molini ad acqua sono andati via via cadendo in disuso, soppiantati da una nuova mola impiantata nella vecchia chiesa di S. Antonio Abate, in funzione fino a qualche decennio fa. Ora la farina arriva in abbondanza dall'estero, spesso sostenuta dalle biotecnologie, si compra bella e pronta al supermercato, e quella di granturco è divenuta quasi cibo per signori.

Dr. Vincenzo Tranelli

da: "La Voce di Villa" - Notiziario a cura dell'Amministrazione Comunale di Villa Santo Stefano

sett. 2006

www.villasantostefano.com

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