Uno sguardo al passato:

Il Culto di S. Rocco nella terra di S. Stefano in Campagna

La statua di San Rocco"Grazzia Saròccu!". Nelle orecchie l'eco di un grido di invocazione lontano nel tempo, ma nitido e potente, che esprime tutto il dolore della condizione umana, e la speranza, quando la medicina si rivela impotente.

Non si può capire S. Rocco, il suo culto, la sua attualità, se non si comprende la paura della malattia e della morte. E la peste ora come allora, ai suoi tempi nel medioevo, si identifica con quest'ultima, e il suo spettro continua ad aggirarsi fra di noi, seppur con sembianze diverse. Peste che sconvolgeva e sconvolge completamente nel corpo, nella mente, nei rapporti sociali, la vita dell'uomo. La storia del culto di S. Rocco a S. Stefano è difficile da ricostruire, come la vita stessa del Santo; gli archivi sono oltremodo avari di notizie. Nonostante ciò possiamo affermare con sicurezza che qui esso arriva relativamente in ritardo rispetto ai paesi vicini. A Patrica e Amaseno ad esempio, è attestato già nel 1565. Ne il resoconto della visita pastorale del vescovo Galassi del 1585, molto minuzioso, ne alcun altro documento del XVI secolo fanno, allo stato attuale delle ricerche, il benché minimo e lontano accenno a S. Rocco. Un manoscritto datato 1552 ci informa che il paese in quell'epoca riconosceva come suoi protettori e avvocati S. Pietro e S. Paolo, S. Giovanni, S. Antonio, S. Sebastiano e S. Stefano.

La prima e più antica notizia che abbiamo risale al 5 agosto dell'anno 1600: Sempronio Palombo "discretus vir", ossia persona distinta, testando lascia un piede d'oliva posto alle piaia alla Cappella di S. Rocco. Di lì a poco, il 16 settembre dello stesso anno sarà seguito da Biagio Macellaro che lascia una possessione alle gorga. Da allora le attestazioni si moltiplicano: nel 1601 Prospero Palombo lascia tre quarte di terra al monticello; Camilla del fu Giovanni Felice Palombo lascia una "mantricella a gestre nigre" (la mantricella altro non era se non la "tovaglia", copricapo tradizionale in uso fino a pochi decenni fa presso le nostre donne); frate Alfonso, eremita della chiesa di S. Sebastiano lascia uno scudo (una bella sommetta per l'epoca) alla Cappella di S. Rocco che aveva visto sorgere e prosperare. E così di seguito negli anni successivi, potendosene fare un lungo elenco. Il suo culto quindi si colloca entro queste due date estreme. Ci siamo chiesti perché, e perché proprio in quel periodo. Non risulta che in quell'epoca il nostro paese abbia subito direttamente alcuna epidemia di rilievo; ma ad un esame più accurato scopriamo che specialmente negli anni 1590 e 1591 tutta l'Italia fu percossa da una gravissima carestia accompagnata da una pestilenza, forse di tifo petecchiale secondo le fonti mediche del tempo, che si voleva avesse fatto più di 60000 vittime nella sola Roma e portato al Creatore un terzo della popolazione italiana; e si sa quale stretto legame ci sia tra carestia ed epidemia. A Velletri i Priori nel 1590 per il sospetto di peste ordinarono un severo controllo delle porte della città; nello stesso anno e nel successivo molti consigli comunali andarono deserti perché buona parte dei consiglieri o era morta di peste o ancora inferma. Ma non basta. Nel 1591 la "peste" aveva fatto strage in Sora e nel Regno di Napoli, e nello stesso anno in Atina moltissimi erano morti per aver mangiato pane contaminato. Era tanto grave la carestia che a S. Stefano molta gente per sfamarsi nel 1592 fu costretta a vendere la terra, e lo stesso Comune dovette acquistare grano dalle parti di Sezze per lo sfamo del popolo. Appare allora chiaro che la sua origine nasce come "culto di prevenzione". Per scongiurare ed allontanare il flagello dell'epidemia che minacciava da vicino la comunità, il Consiglio municipale, per richiesta, e con la presenza della maggior parte del popolo, come era costume nei secoli passati anche da noi quando c'era da prendere decisioni importanti e gravi, eleggeva il suo "avvocato" presso Dio. La pestilenza infatti ancora nel XVI secolo veniva considerata come una punizione divina collettiva. E la collettività offriva al santo protettore in segno di devozione e di gratitudine, oltre alla festa con preghiere, celebrazione di messe, processione, e spesso un pasto pubblico di beneficenza per i poveri, anche altri segni tangibili di culto: una Chiesa o almeno una Cappella (o Altare) con dotazione di beni, una statua. Tutto questo fecero per S. Rocco anche i nostri antenati, pur non potendone precisare ancora l'esatta datazione.

LA CAPPELLA DI S.ROCCO. Si trattava di una cappellania laicale consacrata dal Vescovo, la Magnifica Comunità ne aveva il giuspatronato e l'amministrava nominandone ogni anno un Priore o Camerlengo che doveva poi essere approvato dal Vescovo di Ferentino, il quale a sua volta aveva il diritto di visita e di controllo. Nel ricordato testamento di Biagio Macellaro del 1600 viene specificato che la Cappella di S. Rocco era posta nella chiesa di S. Sebastiano, anch'essa di giurisdizione pubblica. Consisteva in un altare a cui erano annessi dei beni. L'altare era posto "in cornu epistolae" ossia a mano destra entrando in chiesa, circa a metà del muro. Aveva nel mezzo una nicchia chiusa da una vetrata e ornata da una cornice in noce intagliata e colorata dove veniva conservata la statua del Santo. Al di sopra un baldacchino "fatto a scacchi con tante cornicette"; sulla mensa la pietra sacra e due scalini con sei candelieri di legno argentato e due candelieri piccoli d'ottone "per le messe basse"; al davanti un paliotto di tela colorato. Completavano la dotazione sei tovaglie di cui una di battista, due lampade: una di ottone e l'altra di rame argentato e una cassa di legno contigua ad uso di banco con spalliera. Su questo altare oltre a celebrarsi la messa cantata il 16 agosto, giorno della festa del Santo, l'Arciprete Don Stefano Tambucci vissuto nel XVII secolo lasciò un legato perpetuo di una messa letta l'anno e Filippo De Filippi che custodiva per sua devozione la chiesa negli anni '60 dello stesso secolo, faceva celebrare ogni mese una messa per i benefattori. Il terrore che le grandi epidemie di peste del 1630 e del 1656 incutevano anche ai nostri antenati è ben testimoniato dallo zelo con cui veniva tenuto l'altare di S.Rocco: alle visite dell'ordinario risultava sempre "decentissime ornatus". Nel secolo successivo invece subentra una certa trascuratezza, forse mediata da una situazione di vita e di salute più tranquilla: il Vescovo raccomanda ogni volta più zelo nella tenuta dell'altare e della statua e nel rinnovo delle suppellettili, fino al 1821 quando ordinò di provvedere l'altare di sei candelabri grandi, quattro piccoli, la croce, il leggio e la tabella che evidentemente mancavano. Addirittura nel 1846 i candelieri erano stati traslocati nella chiesa parrocchiale, e la nicchia con la statua aveva il vetro rotto. Abbiamo detto che all'Altare erano annessi dei beni: alcuni di essi erano beni di prima erezione concessi ab initio dalla Comunità, il resto proveniva da lasciti di devoti, da permute e dai frutti di vari censi, per un totale di oltre 30 scudi; con questi proventi la Cappella era in grado di automantenersi. All'inizio dell'800 possedeva una cantina in contrada Campo di Fiore, terreni a Durante (Adrenta), alle Fontanelle, Valle, Preta Rea, Piaggia, Monticello, Sterpetto, Pocara e Gorga ed alcune vaccine in soccida. Nulla ci è rimasto purtroppo della più antica documentazione scritta della Cappella che, si ricorderà, era conservata nella antica chiesa di S. Pietro insieme alle altre scritture per ordine del vescovo Tosi e che comprendeva alcuni inventari compilati dai notai Giovannone e Carlone e quattro libri di Amministrazioni o Sindacati principianti dal 1665. In compenso da vari documenti sparsi ci sono stati tramandati i nomi di molti Priori: Stefano Lucarini nel 1689, Stefano Tambucci nel 1692, Paolo Leo nel 1765 e Domenico Lucarini nel 1795 per citarne solo alcuni. Il fervore verso il Santo portò alcuni notabili a voler essere sepolti nei pressi dell'altare: col permesso del Vescovo ebbe questo privilegio nel '600 il notaio Martucci e nell'800 tra gli altri, 2 medici: il dottor Baldassarre Perlini, padre dell'omonimo e più conosciuto sacerdote, il 14 dicembre 1829, e il dottor Agostino Ottaviani da Urbino il 27 maggio 1869.

LA STATUA. Così viene descritta nel 1801: ".... statua di legno colorata al naturale che rappresenta S. Rocco con abito di Pellegrino indicando con la mano sinistra sul ginocchio la piaga pestifera ... ( ) ... la detta statua è a levatora"... "un bastone, o sperdone di legno dorato Altro consimile di rame argentato" e, vicino alla statua, alcuni ex voto: "una ragiera, o diadema d'argento, due orecchini d'oro, crocette d'argento n° 4 un crocefisso d'argento un cuore d'argento una medaglia d'argento". Al collo della statua era appesa a quell'epoca una preziosa reliquia degli ossi di S. Rocco, contenuta in una teca ovale ricamata d'argento, che circa cinquant'anni dopo si ritroverà appesa alla cintola. Questa teca era stata autenticata il 16 gennaio del 1758 da Pietro Saverio Antonini, vescovo di Veroli. La presenza di questa statua, di fattura molto fine, che rispecchia in pieno i concetti espressi dal Concilio di Trento sulle immagini sacre, è già documentata nel 1707. Si può sicuramente far risalire ad un artista di scuola romana del XVII secolo. Non a caso i colori verde della tunica e bruno del mantello erano gli stessi in uso presso l'Arciconfraternita di S. Rocco di Roma ai quali evidentemente l'autore si è ispirato. La preziosa aureola invece è una aggiunta posteriore. L'artistico cagnolino d'argento con la pagnottella in bocca che fino a pochi anni fa stava sulla macchina, ai piedi del Santo era opera molto più recente: fu donato nel 1928 da Giuseppe Bonomo del fu Andrea per sua particolare devozione. E non possiamo tacere della macchina, inseparabile compagna del simulacro. Quella antica, di legno colorato, avuta in dono, e che si conservava in sacrestia su un tavolo di noce, rimase in servizio fino agli inizi del '900 quando fu sostituita con l'attuale. Dai ricordi di anziani del paese si ha che questa sia opera di un artigiano del paese che la creò nella vecchia falegnameria, che più tardi sarebbe diventata il bar di Zì Michele. Si tramanda che costui imparasse l'arte dell'intaglio in carcere ove era stato per 15 anni per aver preso parte ad una sparatoria contro i Carabinieri nel luogo ove ha sede oggi il monumento ai caduti. E sempre dalla memoria orale, ed in particolare da quella di mia nonna Agesina e della nonna di mia moglie ho appreso che in tempo dell'ultima guerra alcuni santostefanesi furono costretti a nascondere la nostra statua con l'aiuto dell'allora parroco Don Amasio per salvarla dalle mani rapaci del contingente francese di stanza nella zona che minacciava di appropriarsene per portarla in Francia , e che si sarebbe accontentato anche della sola testa.

L'interno attuale della Chiesa di San SebastianoLA FESTA. La festa di S. Rocco, da sempre solennizzata il 16 agosto, era preceduta da una novena di preparazione che solo nel XX secolo fu sostituita da un triduo: il Capitolo cui erano affidate le celebrazioni, officiava i primi e secondi vesperi. Nello stesso giorno si svolgevano due processioni: al mattino e alla sera. Per antico costume risalente addirittura agli antichi egiziani le porte delle abitazioni e le strade percorse dalle processioni venivano ornate con festoni di mortella "segno di festa, d'allegria e di liete speranze", così come avveniva presso l'Arciconfraternita di S. Rocco di Roma, cui forse la nostra fondazione era aggregata. Nell'anno 1800, probabilmente sull'onda di un rinnovato fervore religioso succeduto alla fine della dominazione francese, viene fatta richiesta al Papa per elevare il grado della festività. Eccone il testo: "B.mo Padre. La Comunità e Capitolo della Terra di S. Stefano Diocesi di Ferentino in Campagna umilmente rappresenta alla S.V., che nel giorno 16 d'Agosto si celebra in quella Terra con gran pompa, concorso de' Forestieri, e gran devozione del Popolo la Festa del glorioso S. Rocco avvocato del Luogo. Ma siccome concorre in quel med.o giorno la festa di S. Ambrogio Martire Protett.e Principale della Diocesi, quindi è, che affine di non defraudare il glorioso S. Rocco di quegli atti d'ossequio che gli si devono, supplicano della facoltà di potere in quel giorno celebrare una Messa solenne, e rimettere l'Offizio nel giorno prossimo non impedito; Che". Il 29 novembre il Papa concede il permesso. Questo consentiva di rendere autonoma la festa e di recitare l'ufficio doppio maggiore oltre che di celebrare la messa solenne cantata sull'altare del Santo. Ma la festa non si esauriva con i riti e le cerimonie religiose. Abbiamo accennato che fin dalla fondazione della Cappellania, veniva servito un pasto pubblico chiamato panarda. Siamo ora in grado, dopo lunghe ricerche di precisare alcuni aspetti che caratterizzavano questo rito alimentare agli inizi del culto di S. Rocco da noi. La panarda si svolgeva nel cortile della Rocca, in quello stesso cortile ove si radunò fino a tutto il '600 il Consiglio comunale. Il luogo spesso viene indicato nei documenti come il Parco della Torre, riferendosi alla torre diruta ancor oggi visibile, alla quale Giacomo lorio nel 1789 addosserà il suo palazzotto, conosciuto come il palazzo del marchese. Proprio qui in onore del Santo veniva allestita una copertura di canne sotto la quale si disponevano le tavolate dove tutto il popolo poteva mangiare. Consumato il pasto si procedeva alla elezione del cittadino che avrebbe organizzato la festa dell'anno successivo: il cosiddetto Signore della Festa. Alla presenza delle autorità locali, ossia i due officiali, del camerlengo della Cappella di S. Rocco, del Signore della Festa dell'anno in corso, e del Capitano, rappresentante del Principe, si poneva una sedia a capo della tavola per gli offerenti: uno alla volta i benestanti facevano la loro offerta in onore del Santo e naturalmente la gara si concludeva con l'aggiudicazione al miglior offerente, che veniva acclamato con grida di evviva, e che si impegnava formalmente a consegnare il dono, che in genere consisteva in una quantità di grano, alla Cappella la sera della festa. Dietro di loro alla cerimonia assisteva tutto il popolo di S. Stefano. Non siamo in grado di precisare la composizione del pasto ma sulla base delle scarne notizie successive e delle usanze dei paesi circostanti, avanziamo l'ipotesi che si trattasse di una sorta di zuppa di legumi, in particolare ceci, con pane, molto somigliante alla nostra classica "minestra di pane", di chiaro sapore medievale, accompagnata dal vino. Ma già prima della metà del secolo XVII cambia il modo di organizzare la panarda: al posto del Signore che "reggeva" la festa e si faceva carico delle spese troviamo due Maestri di Casa con funzioni organizzative. Essi vengono eletti dal Consiglio. La partecipazione alla festa da parte della pubblica amministrazione non è scontata. Le ristrettezze economiche in cui versava cronicamente il Comune e le frequenti raccolte magre di cereali facevano si che il Consiglio, che si riuniva di solito pochi giorni prima della ricorrenza, dovesse decidere anno per anno se farla e in che modo. Nel 1647 vi si dovette rinunciare per una carestia particolarmente grave. Ma il fervore popolare era sempre forte e spesso, specialmente nella prima metà del '700 sono gli stessi cittadini, che presenziano sempre molto numerosi ai consigli, a reclamare che si faccia la festa a S. Rocco. Si incaricavano i maestri di casa di fare la cerca tra il popolo; per il resto provvedeva il Comune secondo le sue possibilità comprando le vettovaglie, ricorrendo al Monte dell'Abbondanza, o se si era ecceduto nella spesa, imponendo una tassa straordinaria: ..."se se scapita se butta a foco"... (ossia si ripartisce un tot a famiglia). Nella seconda metà del '700 in poi la partecipazione del comune alla festa risulta minore. Qualche notizia in più ci è fornita dai documenti dell'800. Da essi veniamo a sapere che la festa veniva annunciata dal suono dei tamburi fatti girare per le vie del paese, usanza ricordata fino a pochi decenni fa. Il Comune acquistava la polvere e provvedeva allo sparo di mortai e fuochi artificiali incaricando "bombardieri" nostrani. In più quando il Delegato Apostolico lo consentiva si procedeva all'estrazione del "palio della sorte". La banda era d'obbligo, e quando nel 1874 quella di Priverno mancò fu addirittura spostata la festa al 20 settembre. Spesso il Comune faceva eseguire pulizie straordinarie alla piazza fuori porta, e concedeva regalie alla forza armata incaricata dell'ordine pubblico, specie nei periodi più burrascosi come quello del brigantaggio, quando venivano lamentati anche delitti. Non mancavano nemmeno critiche a qualche amministratore accusato di fare la "cresta" sull'acquisto della polvere per i fuochi pirotecnici.

Negli anni tra il 1816 e il 1821, non sappiamo come e perché, la Cappella di S. Rocco, insieme a quella di S. Sebastiano passa sotto il diretto controllo della Curia Ecclesiastica venendo amministrata insieme alle altre confraternite dai Luoghi Pii. Dopo circa mezzo secolo, nel 1857, la sonnacchiosa amministrazione comunale inizia a rivendicare il diritto di giuspatronato perso. Ma dopo tre anni di inutili tentativi le ragioni addotte vengono considerate insufficienti dalla Delegazione Apostolica ed è costretto a rinunciarvi. Con l'introduzione delle leggi eversive sui beni ecclesiastici in seguito all'unità d'Italia, il Comune tornava a rivendicare l'amministrazione della Cappella, e dopo anni di schermaglie con l'amministratore dei Luoghi Pii, il 25/9/1881 il Consiglio deliberava la confluenza della stessa nella Congregazione di Carità locale, subordinandola al controllo comunale. Successivamente le verrà riconosciuto lo stato giuridico di fabbriceria, ossia istituzione non ecclesiastica di amministrazione di beni patrimoniali. Questo fino al 6 agosto 1911 quando, nonostante la strenua opposizione di Don Baldassarre Perlini, che ricorse anche in Consiglio di Stato, verrà con Regio Decreto concentrata definitivamente nella Congregazione di Carità. I suoi beni finiranno col tempo venduti; sparirà anche l'altare di cui nessuno più conserva neanche la memoria. Altre cose vorrei scrivere ..........ma è finita la carta!

Dott. Vincenzo Tranelli

 

da: "La Voce di Villa" - Notiziario a cura dell'Amministrazione Comunale di Villa Santo Stefano

www.villasantostefano.com

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