Uno sguardo al passato:

La chiesa di San Pietro

Secondo la tradizione S. Pietro venne a Roma durante l'Impero di Nerone, sbarcato a Taranto proveniente da Antiochia. Non da tutti è ammesso il suo passaggio, durante questo viaggio, per il Lazio Meridionale, voluto dalla stessa diffusa tradizione.

Ci sembra comunque innegabile il suo influsso evangelizzatore nel periodo in cui, primo pontefice, reggeva la neonata chiesa di Cristo, fino al martirio. Con certezza, possiamo affermare che il culto del principe degli Apostoli, si attestò qui molto precocemente.

Testimoni di questo culto, oltre ad una antica toponomastica, le numerose dedicazioni di chiese fin dall'alto Medio Evo,edificate nei punti più elevati dell'abitato, e, nei centri più antichi, in maniera caratteristica, nei siti ove precedentemente sorgevano i templi di Ercole.

Nella diocesi di Ferentino, ad eccezione di Giuliano di Pisterzo, troviamo una chiesa dedicata a S. Pietro in ogni paese. Quella di Patrica è Parrocchia, la più antica del paese (risalirebbe al IX-X secolo), è la più capiente della diocesi, ed ha la facciata rivolta verso Oriente; a Ceccano è una chiesa piccola e povera, con titolo abbaziale, appartiene alla mensa vescovile, ha un unico altare; la chiesa di Supino è parrocchiale ed è a tre navate; ad Amaseno è a due navate, è parrocchiale, ha quattro altari, è nominata nel testamento di Riccardo da Ceccano nel 1315; Ferentino, sede vescovile possedeva una chiesa dedicata a S. Pietro nella acropoli, presso la Cattedrale, sicuramente molto attiva già nel IX secolo; anticamente era stata parrocchia, e nel 1581 non esercitava più la cura di anime; la sua sorte sarà abbastanza simile a quella di S. Stefano. In parte per l'incuria del clero, in parte per la scarsezza delle risorse ed in parte per la spinta di nuovi culti emergenti, da sempre presente nella chiesa cattolica, nel corso dei secoli tutte presentavano segni di decadenza.quella di Ferentino già nel secolo XVI risultava vetusta e diruta; quasi tutte hanno il tetto ed il pavimento danneggiato e da riparare; l'altare di quella di Ceccano nel 1707 viene trovato mancante di tutto dal visitatore apostolico, che lo sospende dal culto.

A S.Stefano la comunità conservava gelosamente tra le altre, la reliquia delle vesti di S. Pietro. La chiesa a lui dedicata, sicuramente in epoca mediovale, era l'unica chiesa semplice urbana; si trovava a breve distanza dalla parrocchia, a ridosso delle mura castellane per il tramite del cimitero retrostante, con la facciata rivolta verso oriente come quella omonima di Patrica, prospiciente una piazzetta. A nord la sovrastavano varie case di privati. A ponente confinava con la casa che mastro Giuseppe Ferrari, originario della provincia di Milano e luogotenente di casa Colonna a S. Stefano, aveva lasciato nel 1762, dopo la morte di Angela Tranelli, sua moglie, alla Confraternita del Purgatorio; nella facciata di questa casa vi erano "dipinte a fresco le immagini di Gesù Bambino, Maria e S.Giuseppe, di sotto un Crocifisso, con le anime purganti e scheletri", di cui oggi non restano che ben miseri avanzi.

Essa dava il nome alla contrada, dividendola rispetto alla sua posizione in due zone: vicino S. Pietro e sotto S. Pietro, che trapassava insensibilmente in quella di "Campo d'Oglio". Mentre purtroppo non rimangono che pochi nomi, attingibili dal monco registro catastale del XVI secolo conservato presso l'archivio Comunale, degli abitanti della contrada, l'arciprete Don Ignazio Tambucci per fortuna ci ha lasciato l'elenco di quelli della metà del secolo XVIII: erano le famiglie di Agostino e Giuseppe Masi, quelle dei giulianesi Filippo e Biagio Pagliei, di Stefano Tranelle, delle vedove Fulvia Olivieri, Giusta lacoucci, Caterina Galante e Costanza Tranelli; e ancora le "zitelle" Margherita e Maria Lucarini, e per finire le numerose tribù del chierico coniugato Rocco Tambucci e di Sebastiano De Sebastianis, forti di 12 elementi ognuna, per un totale di circa 70 anime.

Ad unica navata, aveva due altari: quello: quello maggiore dedicato al santo titolare, e l'altro, posto a destra entrando, con la cappella a volta, dedicato a S.Giovanni Decollato; vi era annessa inoltre la sagrestia ed uno stanzolino. L'altare maggiore era sormontato da un quadro raffigurante il crocefìsso con S. Pietro e S.Giovanni Apostolo ai lati e ci risulta che venisse tenuto quasi sempre in condizioni decenti; la Cappella di S.Giovanni invece, già nel 1581 era tutta annerita dal fumo, senza un quadro, ma solo con alcune pitture murali. I segni del tempo e dell'uomo si facevano sentire, e i visitatori di volta in volta ci hanno lasciato testimonianze di uno stato di lenta ma continua decadenza, a cui era diffìcile mettere argine, nonostante la comminazione di pene disciplinari ed anche pecuniarie. A parte la cronica carenza di suppellettili liturgiche, il tetto, il pavimento e gli infissi, come ricordato, erano in perenne degrado e richiedevano riparazioni urgenti: " che si restauri il tetto della chiesa...." "che nella fenestra della sagrestia si faccino almeno i telari col'impannate..." "provvedere di una conchiglia per l'acqua benedetta da mettersi nel muro... " "che il campanile si porti in un'altra parte in modo che si possa suonare nella Sagrestia...." "S'accomodi la porta della chiesa ...." Accadeva pure che dalle finestre di Giovannini Luciana, di Felice Palombo e di Pietro Tranelli si buttassero abitualmente sullo sconnesso tetto sottostante della chiesa e della sagrestia, acque sporche ed immondizie di ogni genere: il vescovo nel 1707 intimò : " che in avvenire veruno di essi rechi simili pregiudizi alla chiesa sotto pena per ciascheduno e per ciascheduna volta di scudi dieci...." Ma, incredibile a credersi (!) dopo più di dieci anni, nel 1718, tale pratica continuava indisturbata tanto che fu minacciata la scomunica.

E' sempre il libro del catasto della metà del XVI secolo, sebbene incompleto, che ci tramanda la proprietà della chiesa di S.Pietro in quell'epoca: aveva beni al monfredo, pezza vila, stroppare , fontana di petro ioanni, parasacco, colle, scivarelle, vado orlando, sop.a., sti. Croce, sofravolata, formale, strette, colle stramma, piage, fontanelle, portella, prece, ficoreto, campotella, cerrito, tartarone, ciglia e codallo.

Nello stesso periodo nella stessa chiesa aveva sede, fondata in tempo imprecisato, la Confraternita o Cappella di S. Giovanni Apostolo; il 2 settembre 1554 Fabrizio Paoli "lascia per la sua anima alla cappella di S. Giovanni esistente nella chiesa di S. Pietro, due piedi di olive siti in contrada pezza della viola; lo stesso fa Antonio Petrilli col suo testamento del 13 settembre 1556. I suoi beni erano elencati nell'inventario fatto dal notaio Croce nella prima metà del secolo XVI, poi trascritto dal notaio Antonio Filippi nel 1556. Con tutta probabilità la parte del culto veniva officiata nell'altare in cornu epistolae che doveva essere dedicato all'Evangelista, e che successivamente verrà ridedicato al Battista. La cappella scomparirà verso la fine del 500 per la tenuità delle sue rendite, fondendo i suoi beni con quelli della chiesa di S.Pietro di cui assumerà il titolo. Resterà comunque fino all'inizio dell'800, traccia di quel culto: infatti il Priore di S.Pietro pagava al Capitolo uno scudo e venti baiocchi l'anno per una messa ogni seconda domenica del mese e per una messa cantata con vespero nel giorno di S.Pietro e in quello di S.Giovanni, il 27 dicembre.

Dal 1624 al 1647, non sappiamo perché, la Confraternita di S.Pietro cambia nome; si chiamerà Confraternita della Misericordia come quella attiva nello stesso periodo a Giuliano, ove amministrava l'ospedale omonimo e vestiva un abito bianco a foggia di sacco. A S. Stefano essa nel 1624 ha un reddito di soli 4 scudi che utilizza per la riparazione della chiesa e nel 1636 amministra l'ospedale locale. Col tempo la confraternita aumenterà d'importanza e di reddito; i beni le provenivano da lasciti testamentari. da acquisti e permute, e nel 1706 nel corso di una transazione col comune per pagare la tassa dei pesi camerali il priore di S. Pietro offre 15 scudi.

Si è accennato al cimitero esistente dietro la Chiesa, è questa una prerogativa che la chiesa condivideva con le omonime di Patrica, Amaseno, Ferentino. Era scoperto e con una croce di legno. Già nel 1581 nella Confraternita di S.Giovanni: "vi sono descritti uomini e donne, si riuniscono le seconde domeniche del mese per assistere alla messa. Vanno processionalmente e accompagnano i defunti con sacchi bianchi." Il cimitero dietro la chiesa sicuramente in origine dava ricetto alle salme dei pellegrini e degli "uccisi", mentre nella sagrestia esistevano due tombe per i "fratelli" ossia per i componenti della confraternita. Durante gli anni del rifacimento della chiesa parrocchiale (1765-1768) la tomba dei confratelli di S. Pietro verrà utilizzata per tumulare tutte le salme del paese e prima della costruzione dell'attuale cimitero lo spazio dietro la chiesa incompiuta di S. Pietro verrà designato come cimitero provvisorio pubblico.

Il 25 maggio del 1795 il sacerdote santostefanese Don Luigi Maria Fiocco "mosso da pia e santa devozione" eresse canonicamente nella chiesa di S. Pietro la Confraternita dei Sette dolori della B.V. Maria. Il culto della Madonna Addolorata, introdotto nel 1423 in Germania dal Sinodo di Colonia era stato diffuso grandemente dall'ordine dei Servi di Maria che ottennero da Innocenzo XI una propria festa nella terza domenica di settembre. Il notaio nell'atto specificava che la sede di questa confraternita doveva essere solo la chiesa di S.Pietro ed annotava che in questa "è concorso buona parte del popolo dell'uno e dell'altro sesso per essere ascritti". Nell'elenco figuravano i maggioranti del paese: in testa a tutti l'arciprete Don Stefano Bravo, seguito dal vicario foraneo Don Giuseppe Passio, da tutto il Capitolo, dai Popolla e molti altri".

L'anno successivo Don Luigi faceva supplica al Papa ed otteneva per la "sua" festa il rito doppio maggiore e la messa per la terza Domenica di settembre. Ma nemmeno di questi si contentò, e nel 1800 perfeziona il culto ottenendo dalla Sagra Congregazione dei Riti l'ufficio doppio di seconda classe, svincolando la festa della addolorata dalla concorrenza con la festa liturgicamente prevalente di San Matteo.

Il culto dell'Addolorata andava in breve tempo guadagnando il favore e il fervore popolare sia in S. Stefano che nei paesi vicini, forse anche come reazione all’ateismo dissacratorio di stato che aveva caratterizzato la giacobina repubblica romana.

La chiesa di S. Pietro, capace di contenere solo circa duecento persone, non bastava più. Si pensò di costruirne un'altra più grande: per prima cosa don Luigi si rivolse alla Principessa Colonna:

"... essendo a tal segno cresciuto il fervore del popolo verso la Regina de' Martiri, che la chiesa ove trovarsi eretta tal Congregazione non è più capace di contenere tutti li devoti servi che n'accorrono. Sono venuti nella determinazione di edificare una nuova chiesa... e trovandosi non poco angustiati ...supplica umilmente l'E.V. a ciò si degni somministrare qualche sussidio... ". Ma il sussidio non ci fu. Intanto già nascevano ostilità tra il potere civile e quello religioso che frenavano le pratiche per l'erezione della nuova chiesa, tanto che il 15 agosto del 1801 Don Luigi Fiocco fu costretto a scrivere di nuovo alla Principessa pregandola di intervenire per far cessare " la rugine tra il Governatore e Don Giuseppe Bonomo ". Ma il fatto più increscioso si verificò quando, sul finire dello stesso mese il Luogotenente Francescantonio Iorio, dopo aver autorizzato il taglio della legna alla macchia per poter fare la "calcara", approfittò per tagliare legna per se stesso e "dal cattivo di lui esempio chi potè tagliare tagliò". Nel frattempo Monsignor Buschi,Vescovo di Ferentino, incaricava Gian Lorenzo Popolla, avvocato figlio di Giacinto, di redigere gli inventari completi delle Confraternite e Cappelle di S. Stefano e delle loro rendite.

Del progetto della nuova Chiesa veniva incaricato l'architetto mantovano Luigi Campovecchio, allievo di Paolo Pozzo e fratello del più famoso Giovanni, pittore, che da tempo si era stabilito in Roma.

Il progetto della chiesa prevedeva una struttura a croce greca, con un altare maggiore in marmo e due altari laterali, due torri campanarie ai lati del portale. La copertura era concepita a volta sferica, con tamburo e con un lanternino per aumentare la luce all'interno; le decorazioni prevedevano capitelli in stile dorico e pilastri "d'ordine corintio" e "a foglia d'acqua", marmi, quadri, e stucchi decorativi per il presbiterio. L'architetto aveva anche determinata la spesa in 2782 scudi per i soli materiali e le maestranze, il popolo di Santo Stefano avrebbe fornito a titolo gratuito la manodopera per un valore di 9000 scudi. Tempo previsto per la costruzione: 7 anni.

Il 30 settembre veniva accesa la fornace per la calcara che avrebbe fornito oltre seicento rubia di calce, l'equivalente di oltre 5 tonnellate, ma "il 3 ottobre avendo rovinato" la commissione dei responsabili si riuniva nella chiesa di S. Sebastiano per decidere il da farsi: si stabiliva di fare una nuova calcara e procurarsi "legna, sassi ed altro occorrente".

Il silenzio dei mesi successivi esprime chiaramente l'insorgere di nuove difficoltà: forse discordie in seno alla gestione della "Fabrica"; sicuramente ci si misurava con costi molto alti e del resto il vescovo Buschi aveva suggerito di valutare bene "le forze". Infatti si chiese all'architetto di stringere le spese e da 2782 scudi si scese a 2200.

Nell'aprile del 1802 fu presentata una supplica alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari per poter costruire la chiesa di Maria SS.ma Addolorata con il contributo di tutte le Confraternite e Cappelle del paese.

Inizia così un lungo iter burocratico, tipico delle organizzazioni ecclesiastiche dei secoli scorsi.

La Sagra Congregazione chiede al Vescovo di esprimersi sulla reale necessità della chiesa e sulla spesa occorrente, richiesta subito girata al vicario foraneo di S. Stefano. Si riuniscono gli Amministratori dei Luoghi Pii: sono l'Arciprete Don Stefano Bravo che amministra i beni della Madonna dello Spirito Santo, Pietro Pocci quelli della Cappella di S. Rocco, Giuseppe Leo quelli del SS.mo Sacramento, SS.mo Rosario, S. Pietro e S. Sebastiano; in tutto mettono a disposizione 1308 scudi. Il clero e alcuni benestanti ne offrono per i sette anni previsti 892; il resto di 153 scudi si conta di racimolarli facilmente da altre donazioni di persone devote. Nel frattempo viene richiesta una perizia ai due muratori Giuseppe Buzzolini e Carlo Guarnieri, incaricati della costruzione.

Il Vescovo che vede di buon occhio l'iniziativa mette da parte ogni remora e risponde alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari: "... (la chiesa) di S. Pietro Apostolo è ... assai piccola, bassa, ristretta e bisognosa di rifarsi per la sua antichità e cattiva costruzione delle mura, ragionevolmente perciò nella compiegata supplica implorano gli oratori di poterla rinnovare in forma più decente ed ampia. ... onde il mio parere sarebbe di secondare le pie intenzioni degli Ori...". Ma si sa, la Chiesa è per sua natura cauta e ponderata e il 7 dicembre la stessa Sacra Congregazione richiede ad ulteriore garanzia un impegno formale dei vari oblatori e una delibera consiliare che ratifichi l'impegno popolare. Don Luigi amareggiato e un po' contrariato, ma non domo anche questa volta si mette in moto e in pochi giorni riesce ad ottenere le obbligazioni formali richieste. E finalmente, anche grazie ai buoni uffici del Cardinale Mattei, la Sacra Congregazione esprime parere favorevole ed il 18 marzo 1803 Sua Santità Pio VII " benigne approbavit ".Tutti tirarono un sospiro di sollievo.

Ad aprile si procedeva alla designazione dei deputati alla "fabbrica".

Come Dio volle iniziarono i lavori. Per far posto alla nuova costruzione era necessario demolire la vecchia chiesa, compresa la sagrestia ed alcune abitazioni contigue che si permutarono con altre. Da questo momento in poi le carte tacciono. La costruzione che era progredita fino all'inizio della copertura si arrestò. La tradizione popolare tramandata di generazione in generazione e sbiadita dal tempo vuole che a quel punto finirono i fondi. In effetti i tempi erano diffìcili, le stagioni una più magra dell'altra. E' da credere che i Luoghi Pii di S. Stefano sui quali gravava l'onere maggiore della spesa, non riuscissero a riscuotere le corrisposte e i crediti arretrati promessi; per cui i lavori si trascinarono a stento per alcuni anni. E come se non bastasse di lì a poco lo Stato della Chiesa doveva fare i conti con Napoleone, e quello che era iniziato nel 1808 come un semplice transito di truppe culminò con una vera e propria occupazione e con l'annessione all'Impero Francese.

Il Vescovo di Ferentino nel 1839 scrivendo alle gerarchie romane così si esprimeva sintetizzando la vicenda: "nell'anno 1802 fu dato inizio all'erezione dalle fondamenta sul sito di un'altra vecchia chiesa. Ma per le vicissitudini dei tempi la costruzione già dell'anno 1808 fu abbandonata, nonostante fosse già giunta alla base della copertura" e prometteva di adoperarsi per riprendere quanto prima l'opera interrotta per completarla. Altrettanto nel 1845: "... già da molti anni iniziata dalle fondamenta, non ancora completata, ma spero con l'aiuto di Dio, quanto prima di completarla ". Il tempo non ha dato loro ragione. Sfumata definitivamente la possibilità di una nuova grande chiesa di S. Pietro, la Confraternita sopravvisse. Con l'unità d'Italia e l'introduzione delle leggi eversive essa confluirà nei "Luoghi Pii" e sarà associata al beneficio parrocchiale di S. Maria Assunta con i resti della costruzione. Nel 1988 questo angolo di storia, con tutto il benefìcio parrocchiale viene trasferito in proprietà all'Istituto interdiocesano per il sostentamento del clero.

 

Dottor Vincenzo Tranelli

(Fonti e bibliografia presso l'autore)

da: "La Voce di Villa" - Notiziario a cura dell'Amministrazione Comunale di Villa Santo Stefano

www.villasantostefano.com

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