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       Il titolo della ricerca 
      curata da Marco Felici esercita immediatamente un effetto fortemente 
      attrattivo per chiunque, non solo per il cultore di storia o per 
      l’appassionato di cultura locale.  
      È, infatti, espressione che evoca immediatamente il segno distintivo del 
      racconto dell’anziano ciociaro, dei nostri nonni e padri, di coloro che 
      rispondendo a domande, o nel semplice colloquiare quotidiano, menzionavano 
      la guerra come la vissero, nelle nostre terre.  
      Chiunque di noi, da bambino e da adulto, con diversi stupori ed ovviamente 
      diverse riflessioni, coglieva le storie di ciò che accadeva, e veniva 
      vissuto, un tempo relativamente neanche poi tanto lontano. 
      Nel bambino, come nell’adulto, ai diversi riflessi dei racconti di quando 
      passò la battaglia, sempre un dato si riscontra con assoluta certezza: il 
      privilegio di vivere in un’epoca in cui certi drammi incredibili non 
      avvengono più. O non dovrebbero più avvenire. Ovunque.  
      Marco Felici con spiccata naturalezza e sincera passione abbraccia con 
      quest’opera quella missione silenziosa di tante persone, che quasi a 
      dispetto degli anni che trascorrono, si adoperano per cristallizzare in 
      interviste, domande, sensazioni da cogliere, quell’unico patrimonio che 
      anagraficamente è destinato, in punta di piedi, a scivolar via… 
      La seconda Guerra Mondiale a Villa Santo Stefano era certamente parte 
      della medesima guerra che infuriava in altre nostre contrade, strette come 
      cioce agli eventi bellici drammaticamente noti in tutto il mondo, quali il 
      bombardamento dell’Abbazia di Cassino, lo sbarco di Anzio, l’occupazione 
      tedesca e l’oppressione esercitata sulla popolazione civile da tetre 
      ideologie e drammi quotidiani di un popolo passato in poche ore da alleato 
      ad occupato, e nemico. 
      Eppure il piccolo centro lepino, oscuro caposaldo quasi di terza linea, 
      diventa lo scenario di fatti che mai la sua comunità ardì di immaginare.
       
      “Villa” come familiarmente è chiamata dalla comunità dell’Amaseno è il 
      proscenio incredibile ma tragicamente realistico di azioni di guerra, 
      quella guerra, definita mondiale, ma capace di spingersi e palesarsi anche 
      al di qua di Giuliano, o della “Macchia”… 
      Il paese, ultimissimo lembo meridionale di quell’ampia ed ancor per molti 
      versi ancora non riconosciuta cultura lepina, diviene sin dai primi giorni 
      di guerra teatro di eventi, di storie, di esperienze umane, che con questo 
      libro Marco Felici vuole fotografare, e conservare. 
      Occupata immediatamente dopo l’8 settembre da unità tedesche della 
      Divisione Hermann Goering impegnate a sud di Cassino, quindi da 
      un’importante ospedale militare, ma anche caposaldo di un movimento di 
      resistenza, la piccola comunità montana viene spinta, - esperienza comune 
      a gran parte della nostra zona, - in quella guerra fino ad allora distante 
      e mediata, abbarbicata a fronti lontani, a deserti o steppe mai conosciute 
      e solo raccontate. 
      Invece “Villa” comincia da quel momento il suo umile ma leale servizio, il 
      suo essere protagonista nel contesto di tragedie e follia che il conflitto 
      porta con sé. 
      Marco svolge un lavoro minuziosissimo, tramite archivi di tutto il mondo, 
      in maniera attenta ed in piena conformità ai canoni della cosiddetta 
      nouvelle histoire, laddove i piccoli episodi quotidiani ben aiutano a 
      comprendere un periodo storico in associazione alla descrizione 
      tradizionale e classica degli eventi, secondo la storiografia ufficiale ed 
      un po’ pomposa dei grandi personaggi e dei grandi giochi di potere. 
      L’autore, per usare un’espressione gergale militare, adotta il criterio 
      della “saturazione di area”: tutto ciò che persino marginalmente può aver 
      riguardato il suo paese negli anni di guerra, trova sicuro domicilio nel 
      patrimonio di memorie e documenti, venendo in tal modo contestualizzato, e 
      finalmente valorizzato. 
      L’indagine storica, che certo gode dei benefici della modernità, come ad 
      es. Internet, i riferimenti bibliografici su scala mondiale, gli 
      importanti contatti con reduci e cultori persino oltre oceano, strumenti 
      della ricerca storica ormai disponibili in un modo solo impensabile sino a 
      qualche anno fa, conduce l’autore, e suo tramite, noi lettori, a conoscere 
      Villa Santo Stefano e le sue storie di guerra.  
      Le storie di quando passò la battaglia… 
      Ma anche il cuore ed il legame profondo con la terra natìa svolge un 
      sicuro ruolo in cui ogni esperienza è funzionale e decisiva anche per lo 
      studio storico. E poi il frutto della intelligente ed aperta condivisione 
      con altri cultori ed appassionati, nella consapevolezza che certi 
      risultati sono raggiungibili solo tramite il “team work”. Anche quando si 
      verte su temi di storia locale.  
      Solo qualche anno fa, incontrammo casualmente, presso il cimitero di 
      guerra tedesco di Cassino, una distinta signora tedesca, che 
      periodicamente viene a far visita alla tomba del padre; alle nostre 
      domande sul perché a Cassino, ci risposte, con il tipico inconfondibile 
      accento, come il motivo fosse semplice, essendo il padre sepolto a 
      Cassino, poiché morto a Villa Santo Stefano. Ursula, poi divenuta di casa 
      a Villa, rappresenta per tutti noi i tanti figli che persero il padre in 
      guerra, anche nella guerra a Villa. E che dinanzi alla richiesta di 
      sapere, non ha esitato, assieme a molti altri intervistati o coinvolti 
      dalla ricerca, di fornire il suo contributo a quest’opera. Che non è solo 
      descrizione degli eventi bellici in zona. 
      Questa la scelta del racconto di Marco Felici, seppur tra dati militari e 
      documenti inediti di fonte italiana e straniera, non manca mai di 
      considerare, sottolineando sempre il valore umano che dietro le nozioni 
      storiche e statistiche, si nasconde, per sorprenderci. 
      Ogni villasantostefanese diviene, nel mai distaccato o freddo esporre 
      dello scrittore, un vero e proprio personaggio storico, che con estrema 
      spontaneità l’autore fa parlare e rivivere nei vari capitoli, con cui 
      scandisce l’esperienza del paese nei mesi di guerra. 
      Con il sicuro effetto di condurre ogni lettore, non solo l’appassionato di 
      storia, nella scena descritta. E nella riflessione di quanto valori, 
      paradossalmente nascenti da un periodo buio di drammi e violenze, 
      riemergono vividi e luminosi. 
      Quando passò la battaglia… 
      Con essa passò, nella metà di un piovoso maggio 1944, anche la 
      Liberazione, “portata” tra marocchini ed americani, con i drammatici 
      riflessi da parte delle condotte degli uni, e con il sollievo e la 
      speranza degli altri, attesi durante un freddo inverno di stenti e 
      mitragliamenti aerei. 
      Ma un dato emerge determinato e concretamente schietto, com’è nello 
      spirito di queste comunità: la semplicità mista al senso d’appartenenza, 
      la generosità che ogni individuo, pur nella bufera che imperversava, seppe 
      non solo mantenere ma addirittura sublimare nonostante gli occupanti, gli 
      spezzonamenti, i rastrellamenti, e soprattutto, per tutti, 
      l’insopportabile mancanza di cibo… 
      In questo triste quadro, ancor più si evidenziano le qualità di una gente 
      contadina e buona, allorché l’autore descrive quel vero e proprio emblema 
      che è rappresentato dall’aiuto fornito dalla popolazione al pilota 
      americano Matthew O’Brien, che appena abbattuto, paracadutatosi ai margini 
      del paese, viene nascosto, rivestito, aiutato in ogni modo, trovando negli 
      abitanti di Villa, ancora occupata da nervosissimi tedeschi, con il fronte 
      ormai ravvicinato, l’alto contributo oscuro ed anonimo, fornito alla 
      Liberazione anche mediante questo gesto, a dispetto delle asprissime pene 
      per chi avesse favorito, in qualsiasi forma, il nemico.  
      Proprio in quest’episodio si concentra lo spirito che sapientemente 
      l’autore riesce a portare alla luce. Lo spirito di chi, vivendo quei duri 
      momenti, vuole quasi passarci il testimone. Il senso di quanto 
      l’individuo, persino se sottoposto a difficilissime prove, con fiero senso 
      di dignità e sincera generosità, riesce, nonostante tutto a conservare 
      quei valori di libertà per i quali è disposto ad affrontare qualsiasi 
      avversità. Forte e consapevole dell’antica e radicata autenticità di quei 
      valori, che sono la vera guide-line dell’opera, come espresso nella bella 
      ed intelligente figura di Don Amasio. Ma anche di tanti suoi parrocchiani, 
      figli di quella Villa, e di quella cultura. 
      Non è retorica: a fine ostilità Villa conta una distruzione del 40%, anche 
      se da incrementarsi alla luce dei danni mai dichiarati.  
      Il ponte sul fiume Amaseno definitivamente crollato anche per via dei 
      genieri tedeschi ormai in ripiegamento.  
      Violenze su donne e feriti da residuati bellici.  
      Coltivazioni e piccoli allevamenti completamente cancellati.  
      Derrate alimentari ormai esaurite da giorni, e tutto ciò su una comunità 
      rurale di meno di duemila anime, che vede molti suoi figli non ritornare 
      da fronti lontani, padri di famiglia ancora in prigionia o addirittura in 
      servizio con gli Alleati laddove la guerra continua, come l’incredibile 
      storia di Alfonso Felici.  
      Ma la ricostruzione inizia subito, tra mille sacrifici, senza attendere 
      aiuti. Sempre con il conforto di quei valori di altruismo che la comunità, 
      certamente non ricca, così come da prima della guerra, ha saputo 
      proteggere. E che traspaiono sempre dagli episodi raccolti dall’autore. 
      Infatti, è la battaglia, non la guerra, che è passata. 
      Non è solo un’espressione dialettale, ma è la summa di quell’insieme di 
      speranza e consapevolezza che oggi, e sempre, rimarrà l’insegnamento 
      prezioso di quanti, testimoni di quei mesi d’inferno, vogliono assicurarci 
      ad oltre sessantacinque anni. 
      È stata solo una battaglia, che non poteva non passare. 
      Come le bombe, la fame, il freddo…  
      Non poteva non passare, dinanzi all’incontenibile desiderio di rinascere. 
      E di vivere… 
      Frosinone, 10 Maggio 2010  |