21  ARRIVA LA BATTAGLIA


Quella mattina la cicogna americana aveva osato più del solito riuscendo con una delicata manovra a portarsi quasi sopra la piazza dove delicatamente aveva fatto cadere uno dopo l’altro una pioggia di volantini multicolori che, sospinti dal vento, presto avevano coperto il celeste cielo di Villa Santo Stefano. Scendevano lentamente, solo alcuni sorpresi di tanto in tanto da qualche folata di brezza,venivano trascinati veloci verso le campagne dove senza più vita rimanevano imprigionati tra i rami degli alberi di pero.
Quelli che invece raggiunsero la piazza divennero subito nuovi giochi per la folla di bambini che dopo averli inseguiti li aveva trasformati in aereoplanini o in una barchette da far navigare lungo i rivoli dei fontanili.
Anche Antonio Felici ne raccolse uno assediato da un gruppo di paesani che incuranti del divieto di assembramento in piazza aspettavano di sapere cosa ci fosse scritto. Lo studente in Lettere si concentrò sul testo e poi dopo averlo letto con un sorriso di soddisfazione spiegò agli astanti che si trattava di un avviso dell’esercito alleato che anticipava così il suo imminente arrivo.
Per facilitare la liberazione del paese quelli, che fino ad allora tutti pensavano essere gli americani, chiedevano alla popolazione un ultimo necessario sforzo, abbandonare al più presto le case, o meglio quello che sarebbe divenuto il loro prossimo obiettivo militare. La notizia fu confermata anche dai comunicati serali di “Radio Londra” che in molti ascoltarono a casa Planera dalla prima radio di Villa Santo Stefano. Lo stesso comunicato, quello delle 22.40, fu ascoltato anche a casa di Primo Toppetta presenti addirittura alcuni soldati tedeschi che inquieti non persero nemmeno una delle parole del Colonnello Stevens .
Il giorno dopo il 25 maggio il paese lentamente iniziò a svuotarsi, molti però indugiarono. Non era facile abbandonare la propria casa adesso che la libertà stava bussando a quella porta. Ma alla fine la paura dei combattimenti e il buon senso prevalsero e ogni famiglia, seppur a malincuore,iniziò a preparare la partenza. Furono radunate le cose più care, in realtà pochi oggetti, la foto dei genitori, il crocifisso, il ferro da stiro, il concone.
Invece le monete e i gioielli in corallo, sempre se ce n’ erano ancora, furono avvolti in un fazzoletto e nascosti prudentemente sotto lo zinale.
Solo a quel punto,liberato dalla catena il cane e nascosta la chiave di casa sotto una tegola, si affrontava il breve ma doloroso esilio. Il rifugio di ognuno divenne la campagna dove, all’ombra dei pagliari, gli anziani sedettero abbracciati accanto ai bambini. Ma anche le numerose grotte sotto Vallerea o al Parasacco insieme a quelle del Colle Saraceno divennero sicuro rifugio per questi sventurati.
Altri preferirono invece salire fino alle cisterne del Caprao sopra il cimitero anche se la maggior parte dei paesani pensò più sicuro arrampicarsi ancora più in alto, sul Monticello o al Macchione. Guglielmina invece seguì la nonna Flavia al Quarallo dove la famiglia Reatini aveva deciso di affrontare il passaggio del fronte tutti insieme. Dopo essersi radunati nella casetta in pietra di papà Ernesto, i fratelli Felice, Peppino e Romano con le loro famiglie iniziarono a muoversi al primo sole del 25 maggio verso il Monticello dove si sarebbero rifugiati in una cavità del terreno chiamata da tutti “La Pietra Cupiccia”.
Ma il gruppo fu presto rallentato dall’incedere lento di Za Flavia, rimasta indietro insieme alla nipote Guglielmina, che non l' avrebbe mai lasciata e Scipione, il cane dei Reatini, che non perdeva di un passo la bambina.
Alla fine Peppino, chiesto il permesso alla madre, la sollevò tra le sue braccia e così dolcemente la condusse fin sopra il Monticello. La loro meta era una ferita nella roccia che si apriva per circa venti metri tra gli uliveti del leggero colle, era profonda alcuni passi e poteva ospitare riparandole circa cinquanta persone. Vicino la spelonca al termine di una frugale cena i Reatini avvolti nelle coperte trascorsero così la loro prima notte sotto le stelle.
Il mattino del 26 maggio il paese era deserto, mentre invece la parte bassa della valle dell’Amaseno era già campo di battaglia. Alle ore 12.00 il primo Sherman del 756° si era affacciato alle porte di Amaseno e come consuetudine aveva colpito con una granata la prima casa a destra alle porte del paese per saggiare così le difese tedesche. Non ci fu segno di reazione, i gruppi tedeschi ritardanti avevano ripiegato ed ora erano nascosti nella Macchia di Selvapiana nel silenzio rotto solo dal ronzare delle mosche. I loro commilitoni della Dodicesima Compagnia di Villa Santo Stefano invece fradici di sudore erano rintanati nelle trincee che avevano scavato vicino le Mole. Nel frattempo, poco distanti da loro, avevano iniziato a tuonare le batterie di artiglieria del Kampfgruppe Ewert piazzate al Parasacco, vicino la Pezza e tra il Quarallo e il Casalino. Questo dispositivo di difesa rispondeva alle direttive del 24 maggio impartite direttamente dal Generale Fridolin Von Sengen und Etterlin Comandante della XIV Panzercorp tedesco che, in considerazione della rapida avanzata delle truppe coloniali francesi attraverso le montagne a sud della Valle del Liri, aveva disposto la ritirata delle sue unità lungo la nuova linea difensiva compresa tra i paesi di Giuliano di Roma, Ceccano e Arnara, lasciando a ridotti raggruppamenti il compito di ritardare il movimento nemico.
I primi colpi dell’artiglieria tedesca colsero di sorpresa Don Amasio e le genti della sua casa mentre da poco avevano raggiunto il Macchione attesi da alcuni buoni parrocchiani. Il sacerdote aveva portato con sé, aiutato dalla fedele Mariangela, le preziose reliquie della chiesa, mentre Maria Olivieri sotto lo zinale custodiva gelosamente tutto quello di valore che era riuscita a portar via dalla Chiesa della Madonna dello Spirito Santo. Nella tasca l’arciprete, inoltre, ben strette stringeva le chiavi della chiesa e della sacrestia. La sua unica preoccupazione però al momento era la statua di San Rocco che aveva celato ben protetta in luogo sicuro noto solo a pochi. Verso le ore 21.00 l’artiglieria francese di stanza a Vallecorsa, conquistata il 25 maggio dal Primo Battaglione Diebold del Secondo Reggimento Tirailleurs Marocchini, iniziò a cannoneggiare Amaseno.
Il paese conoscerà la liberta alle ore 23.30 quando il Caposquadrone Drezet del Quarto Squadrone del 4° Spahis seguito da una Compagnia di Tirailleurs e due squadre anticarri del Sesto Rtm e del Secondo Rtm vi entreranno vittoriosi.
Più tardi il resto del Quarto Squadrone comandato dal Capitano De Gallon si unirà ai vincitori nei pressi della chiesa di San Rocco insieme al Capitano Leroux comandante del Primo Squadrone del 4°Rsm .
Con il cielo illuminato dai bagliori dei pezzi da 105 e 155 del 64° Reggimento di Artiglieria Francese si concludeva così anche quella giornata.
Il 27 maggio 1944 fu per Villa Santo Stefano il giorno dei giorni, il Corpo di Spedizione Francese aveva previsto infatti una manovra risolutiva che con una doppia progressione avrebbe permesso sia la liberazione di Villa Santo Stefano che quella di Prossedi. L’azione sarebbe iniziata alle ore 06.00 del mattino, quando i fucilieri marocchini si sarebbero mossi da Amaseno infiltrandosi nella Macchia e, seguendo il fiume, sorpreso le difese tedesche alle Mole, crocevia fondamentale per l’avanzata verso il paese e il successivo affondo verso Prossedi. All’alba dello stesso giorno muovendosi da Castro dei Volsci un Battaglione del Sesto Reggimento Tirailleurs Marocchini, invece, avrebbe raggiunto Campo Lupino per violare la barriera avversaria in quota e scendere in paese da quel versante completando così la più classica delle azioni a tenaglia.
La tattica prevista era stata elaborata sulle mappe dagli ufficiali francesi la sera precedente ma adesso all’alba avvolti dalla nebbia spettava ai fucilieri del Marocco guardare negli occhi il nemico. Abbandonati gli zaini ad Amaseno e affidandosi solo al loro vecchio Lebel e a qualche Springfield americano i tiralleurs si mischiarono alla Macchia tenendo costantemente la sponda dell’Amaseno a levante per non confondere l’orientamento.
Verso le 09.00 le avanguardie francesi furono investite da un pesante fuoco di artiglieria tedesca che rallentò notevolmente il loro passo. in questa azione ebbe rilievo il comportamento del Sottotenente Roger Pesnel, classe 1921 di Casablanca, comandante di una Sezione di mitraglieri della Settima Compagnia del 1° Rtm. L’ufficiale con coraggio si espose al fuoco nemico per trarre in salvo uno dei suoi soldati rimasto ferito da alcune schegge di granate in terreno aperto. Rimasto miracolosamente incolume il suo appuntamento con la morte sarà solo rimandato, cadrà infatti durante i combattimenti per la presa di San Donato in Toscana il 12 .7.1944. Con un pesante ritardo sulle spalle, alle 12.00, nei pressi dei “Muracci” i marocchini uscirono finalmente allo scoperto e appoggiati dal tiro dei mortai attaccarono le buche tedesche alle Mole e lungo la provinciale. La resistenza tedesca fu strenua. Sebbene il loro compito fosse solo quello di rallentare il nemico e di non affrontarlo direttamente lo scontro costerà la vita a dodici panzergrenadier. Solamente alle ore 13.00, grazie al provvidenziale intervento di una pattuglia di carri M1 Stuart del 1° Squadrone del 4° Rsm guidata dal Tenente Tapounie, i francesi si impossessarono delle Mole, mentre retrocedendo verso il paese il Kampfgruppe Ewert andava ad occupare ordinatamente le posizioni arretrate del Quarallo.
A quel punto avendo campo libero il potente cannone che nel frattempo si era appostato grazie al traino di un grosso mezzo cingolato vicino la casa dei Palombo, aggiustato il tiro spazzò l’area delle Mole con tre terribili bordate, i francesi corsero ai ripari e questo permise ai tedeschi di riprendere fiato.
Come alcuni di loro, sei almeno che armati di armi automatiche e di una mitragliatrice al riparo di una macchiola oltre il Quarallo erano distesi a terra ansimanti. Schiacciati sul terreno stavano contandosi con gli occhi quando vennero allertati dal calpestio di foglie proveniente dal sentiero che dal bosco conduceva alla vicina contrada. Era una pattuglia francese insinuatasi nelle loro posizioni seguendo il limite del largo prato che divideva la Macchia di Villa Santo Stefano da quella di Selvapiana.
Non appena gli esploratori furono allo scoperto, i tedeschi fecero fuoco. Un marocchino rimase a terra mentre atterriti i suoi compagni arretrarono sparendo di nuovo tra la vegetazione.
Dopo essersi velocemente riorganizzati i francesi iniziarono silenziosamente la manovra che avrebbe accerchiato il loro nemico. Un gruppo si portò nuovamente sulla strada e tenendosi questa volta al coperto iniziò ad avanzare sparando contro i tedeschi, gli altri senza far rumore invece penetrarono alle loro spalle. Così senza via di fuga indietreggiando tra i rovi i granatieri andarono incontro alla morte. Uno solo di loro ferito gravemente riuscirà ad allontanarsi dal luogo dell’agguato strisciando per parecchi metri fino ad una grande quercia dove morirà alcune ore dopo. Alle ore 15.00 i francesi furono finalmente pronti per continuare la progressione verso il cuore del paese.
Dalle macerie del ponte, come stabilito la notte precedente,si sarebbe staccato anche un contingente con obiettivo la liberazione di Prossedi avvenuta regolarmente alle ore 18.00 senza troppi problemi.
Alle 15.30 via radio alcuni osservatori che si erano portati con una jeep dall’antenna lunghissima quasi alla Madonna della Stella comunicarono le coordinate di tiro ai cannoni da 105 e 155 che nel frattempo erano stati trainati da Amaseno.
Era la batteria del Capitano Piroth allineata nel tratto di strada che dal ponte raggiungeva l’area poco prima occupata dall’enorme cannone tedesco.
Solo in quel momento molti santostefanesi capirono quale importanza avesse avuto la presenza dell’ ospedale tedesco in paese e l’incolumità che aveva garantito ai suoi abitanti. Dopo un assordante boato una tempesta di proietti investi completamente Villa Santo Stefano. Micidiali schegge si insinuarono dappertutto e ogni angolo del centro abitato venne devastato, crollarono parecchie case e molti tetti furono lesionati, addirittura un incendio interessò un’abitazione all’interno del palazzo del Marchese dove alcune taniche di benzina nascoste dai fratelli Palombo esplosero. Il primo colpo di cannone troncò di netto la punta del cipresso secolare che si trovava di fronte il cimitero mentre i successivi tiri, superato Santomarco, si abbatterono devastandoli sui tetti della chiesetta e dei due locali all’interno del camposanto.
Aggiustato l’alzo piombarono sul caseggiato altre granate sempre più letali, una sconquassò completamente l’interno di una casa di via delle Ceneri mentre il proiettile successivo colpì in pieno Piazza Umberto I.
Altre granate invece squarciarono il tetto della casa a via della Rocca 6 e in successione altre due esplosero sul costone pozzolanico del Cigneraro. Come se non bastasse quattro colpi consecutivi centrarono la casa di Baldassare Panfili e alcune schegge allargarono la finestra di casa Felici, ignorando completamente il parere dell’allora Ufficio Tecnico Comunale.
Nelle campagne il Meito fu una delle aree più danneggiate mentre in paese le bordate continuarono a colpire demolendole prima la casa di via S. Antonio 5 e poi la casa di Giuseppe Reatini dove un proiettile rimasto inesploso penetrò pericolosamente dentro la soffitta, infine anche l’asilo materno in piazza verrà più volte raggiunto.
Spostando ancora il tiro i francesi con un colpo tremendo centrarono al Quarallo la casa dei Bonomo mentre erano intenti a impastare il pane.
La poca preziosissima farina si tramutò in pallida nube mista alla polvere dei calcinacci mentre lo spostamento d’aria trascinò tutti i presenti a terra privandoli dell’udito per parecchi giorni, era il primo di numerosi proiettili che colpirono quell’area fino allo Sterpetto indirizzati contro una delle batterie tedesche.
In tarda serata, dopo aver demolito il paese, i cannoni francesi concentrarono il loro fuoco contro il Monticello. Alcuni colpi erano già caduti verso le 15.30, destinati ai soldati tedeschi in fuga da Campo Lupino, ma quelli che sopraggiunsero al tramonto furono devastanti. Nel fragore delle esplosioni milioni di schegge ridussero in mortali frammenti i monoliti della collina granitica, la famiglia Anticoli che cercava riparo nella parte bassa del promontorio ne venne interamente investita, numerosi furono i feriti, Mario e il piccolo Zenobio Anticoli insieme a Ruggero Ruggeri furono quelli che purtroppo non ce la fecero.
Al termine del cannoneggiamento verso le 20.00 si udì un’altra terribile esplosione erano i genieri tedeschi che avevano fatto brillare le cariche esplosive che mutilarono senza rimedio Ponte Grande.
La fortuna non aiutò uno di loro raggiunto dalle avanguardie marocchine in via Roma mentre su un sidecar tentava con un compagno di abbandonare velocemente il paese. Gli rimase il tempo, sebbene colpito ad un fianco, di rifugiarsi non visto nella prima casa che si trovo davanti, quella del civico 9. Alle 21.00 al termine di quella sanguinosa giornata i francesi entrarono vittoriosamente a Villa Santo Stefano guidati dai carri M1 Stuart del Primo Squadrone condotti dal Capitano Leroux.
Il Groupment Blinde’ Louchet aveva assolto così la sua missione.
Ma i francesi oltre la libertà portarono anche odio e violenza. Il 22 maggio mattina a Pisterzo arrampicandosi sull’erto sentiero che conduceva al “Calvario” era arrivata una pattuglia inglese per prelevare David dopo che aveva svolto più che brillantemente il suo delicato compito. L’ufficiale che fino ad allora aveva agito in incognito, dopo aver indossato la sua uniforme da tenente, fu informato delle orrende violenze che stavano verificandosi in zona contro la maggior parte delle donne.
David pensò bene, prima di andarsene, di avvisare Don Luigi Falconi dell’imminente pericolo in modo da allertare per tempo i suoi parrocchiani.
Il buon sacerdote ci riuscì anche se a Valle Vettina molti di quegli abusi purtroppo erano stati già perpetrati, vili protagonisti di quei misfatti i goumiers accampati fino a poco tempo prima ai piedi di Monte Alto. Gli stessi individui erano ora in Piazza Umberto I ricongiunti ai loro compagni che scesi da Campo Lupino si erano già macchiati di cinque omicidi tra la popolazione civile.
Inebriati avrebbero festeggiato insieme la vittoria per tutta la notte.
Il giorno seguente i primi mezzi corazzati americani e francesi entrarono in paese, lo fecero transitando per Ponte Panciacca poiché la distruzione di Ponte Grande ne aveva impedito il passaggio la sera precedente, il loro lento movimento aveva alzato una enorme nube di polvere bianca e i primi timidi raggi di sole che la filtravano colorarono il paese, ancora deserto, di una luce surreale, era il 28 maggio domenica di Pentecoste. Ma invece di essere ricordato per la gioia di libertà per la gente di Villa Santo Stefano quello divenne il giorno da dimenticare. Alle 06.00 del mattino ne era stato funesto messaggero un soldato tedesco trascinatosi da Campo Lupino. Era un reduce del Terzo Battaglione Hochgebirgsjager ferito alle gambe che cercando aiuto si era rifugiato a casa di Antonio Zomparelli. L’alpino era stato nascosto tutta la notte in montagna e ora bussava disperato alla porta della casa che fino al giorno prima aveva ospitato Matthew O’ Brien. Il tedesco fu fatto adagiare su un tavolo e con dell’ acqua ossigenata gli furono medicate le ferite. Ma non ci fu nemmeno il tempo di stringergli la prima benda che sfondando a calci la porta una pattuglia di marocchini entro prepotentemente in casa. Erano sulle sue tracce da ore e minacciando con i mitra chi si fosse opposto, senza troppi complimenti, lo trascinarono via. Scosso dell’accaduto chi si era rifugiato in quella casa decise di allontanarsene per riparare, non visto, a casa di Giotto Saiano.
Ma ben presto i marocchini raggiunsero anche quelle mura bramando denaro e preziosi, sfuggirgli era ormai impossibile, come formiche fameliche avevano invaso tutta la montagna. Sotto la minaccia delle armi i fuggiaschi furono raccolti di fronte alla casa colonica e chi tentò di reclamare fu colpito violentemente in volto con il calcio del fucile. Vennero tutti perquisiti ma il magro guadagno li fece imbestialire, si calmarono solo quando qualcuno di loro riuscì a trovare accuratamente nascoste nella ciabatta di Maria Cencetta alcune banconote. Intanto a monte, nella pineta, iniziò a sentirsi distintamente lo scalpitio di numerosi cavalli. Mentre i marocchini litigando si spartivano il magro bottino i fuggitivi indisturbati si poterono allontanare nascondendosi più a valle dietro alcune macere nel silenzio rotto ogni tanto solo dalle imprecazioni di Cencio Ranfacane, il marito di Maria.
Quella stessa mattina altre persone erano in fuga, era il gruppo di Don Amasio che informato della malvagità dei liberatori cercava di evitarli dirigendosi verso gli Acquaroni. Senza fiato i fuggitivi giunsero nei pressi della casa dove era rifugiata la nipote di Gnora Orietta, proprio nel momento in cui alcuni marocchini stavano tentando di violentare le donne che vi erano nascoste. Sor Checco a capo del gruppo, conoscendo bene l’inglese per il suo passato in America, rapido insieme al Capitano Millotti corse ad avvisare dell’imminente tragedia alcuni ufficiali francesi nei pressi di un pozzo. Solo dopo averli lungamente pregati questi intervennero, ma la loro presenza inattesa scatenò la reazione violenta degli aggressori, le armi si sostituirono alle parole e un marocchino rimase ucciso. Avvenuto l’irreparabile i graduati esortarono Sor Checco a portare via tutti i presenti, sicuri che ci sarebbero state delle rappresaglie da parte dei compagni dell’ucciso, che agivano ormai in maniera incontrollata ignorando perfino gli ordini dei loro stessi superiori.
Per evitare ulteriori guai i francesi si occuparono anche della sepoltura dell’ ucciso ricoprendolo frettolosamente con alcune pietre raccolte da una macera.
Atterrito il gruppo si portò più in alto verso un pagliaro dove vennero sotterrati gli averi di ognuno compreso l’oro della Madonna dello Spirito Santo.
Don Amasio a quel punto cosciente dell’inevitabile fece sedere a terra donne vecchi e bambini e inginocchiandosi diede l’estrema unzione a tutti i presenti. Alla fine della benedizione come annunciato dagli ufficiali francesi, arrivarono, assetati di sangue, i marocchini che sparando in aria presero a minacciarli con le armi, ma nella sorpresa degli assaliti e degli assalitori alzandosi ritto in piedi Don Giuseppe Giancarli si portò avanti quei disperati e mostrando il petto fece segno di colpire lui per tutti. Ma in quel momento drammatico tra i fucili spianati e il coraggioso sacerdote si pose con inaspettata risolutezza sua madre, Rita Giancarli con addirittura in braccio il fratello più piccolo, i goumiers disorientati da tanta determinazione affrettarono la loro perquisizione e rinunciando al gruppo corsero via urlando come ossessi in cerca di qualcun altro da depredare.
Dopo lo scampato pericolo Sor Checco decise insieme a Don Amasio che sarebbe stato meglio, a quel punto, scendere in paese e chiedere ai francesi una scorta per le donne e i bambini. Nell’attesa, per sicurezza, furono fatti nascondere tutti sotto un covone mentre i pochi averi protetti dai fazzoletti continuarono a rimanere sepolti poco distante. Za Marietta Olivieri iniziò allora, insieme alla sorella Loreta, a pregare la Madonna, la sua Madonna quella dello Spirito Santo, affinché salvaguardasse i paramenti sacri lasciati secondo lei troppo incustoditi, le sue preghiere furono ascoltate e in seguito ogni cosa poté essere recuperata. Al momento però il timore peggiore rimaneva qualche soldato isolato che passando da quelle parti incendiasse il pagliaro, come era già avvenuto altrove, con tutte quelle povere anime sotto. Dopo ore ritornò Sor Checco con alcuni militari francesi e finalmente anche i primi americani che scortarono il gruppo tra le pietraie incolume fino al Cauto.
Raggiunto però Santantonio i profughi ritrovarono gli onnipresenti marocchini che, parecchio eccitati, stavano facendo il tiro a segno con delle galline. A corto di bersagli adocchiarono i due pennuti che avevano seguito fino alle porte del paese Za Checca Petrilli, strattonata la donna impotente se li vide portar via.
A mezzogiorno del 28 maggio il territorio di Villa Santo Stefano era ormai completamente in mano dei soldati marocchini che a gruppi di tre a cavallo o a piedi si muovevano veloci con la sola intenzione di depredare senza nessun timore uomini e cose. Nelle rare occasioni che rovistando tra le case riuscivano a trovare qualcosa di prezioso, la follia li portava a battersi tra di loro strappandosi barbe e orecchini. Intanto la notizia delle violenze sulle donne e delle rapine ingiustificate si era sparsa ovunque per cui l’incontro anche accidentale con questi bizzarri liberatori era sconsigliato.
Augusto Bonomo ebbe questa sventura mentre da Siserno, in cerca dei suoi puledri liberati tra gli ulivi scendeva in paese. Gli si pararono davanti sulle fiere cavalcature due goumiers che accortisi della sua sorpresa per rincuorarlo gli offrirono del vino che il poveretto avrebbe dovuto bere però secondo loro da un pitale. Il buon Augusto coraggiosamente rifiutò nonostante un fucile lo stesse minacciando, uno dei due allora visto il carattere forte dell’uomo per impressionarlo maggiormente prese a strappare a morsi la testa di una gallina che aveva appesa alla sella, Augusto rimase impassibile, con disprezzo il cavaliere sputò allora i resti del pennuto allontanandosi deluso insieme al compagno.
Per evitare incontri simili la giovane Edda Sassano a casa di Sor Ascenzio al Macchione fu fatta vestire da ragazzo mentre in dignitoso silenzio, rotto solo da qualche singhiozzo, si fece tagliare i lunghi capelli biondi per rendere ancor più verosimile il suo travestimento. Decisamente più pericolosa, come abbiamo visto, fu l’esperienza vissuta da Leonilde, la fidanzata del Capitano Domenico Millotti, che dopo l’arrivo dei francesi per due intere notti insieme alla sorella Lina e alla cugina Elide si rifugiò in un pozzo senz’acqua protetto da una botola ricoperta di frasche. Una mattina però le tre ragazze dopo essere uscite dal loro nascondiglio per un po’ di sole e una boccata d’aria, mentre erano nella loro camera udirono dei passi per le scale, erano due marocchini che le impedirono subito di fuggire chiudendosi immediatamente la porta alle spalle.
Senza perdere tempo presero a rovistare tra i cassetti in cerca di oro poi, continuando a mostrarsi gentili, chiesero se erano sposate. Per prendere tempo le giovani risposero di sì ma poi, all’improvviso, disorientandoli corsero via cercando di nascondersi nelle altre stanze. Uno dei falsi galantuomini le inseguì insieme ad altri due suoi compagni che fino a quel momento erano rimasti a tenere a bada con i loro Lebel gli altri abitanti della casa radunati sotto una cimasa.
Fortuna volle che il Capitano Millotti fosse avvertito del pericolo che stava correndo Leonilde per cui affrettandosi corse ad avvisare energicamente insieme a Sor Checco, alcuni ufficiali francesi dell’accaduto. La prima richiesta di aiuto fu rifiutata poi viste le sacrosante insistenze dei due uomini i graduati acconsentirono giungendo sul posto insieme a tre soldati francesi. Tra i soccorritori e i quattro marocchini nacque una vivace discussione causata dall’ostinata insistenza dei goumiers a non allontanarsi dalla casa. La situazione degenerò dando luogo ad un violento scontro a fuoco.
A lasciarci le penne fu un marocchino, tutti gli altri invece riuscirono a fuggire coperti dal loro capo che da dietro una macera minacciò sia i civili che gli ufficiali di ritornare a vendicarsi. La violenza dei liberatori giunse fino alla Valcatora dove parte del Battaglione del Comandante Girard del 1° Rtm il pomeriggio del 27 era accampato pronto a muovere per Giuliano di Roma. Nell’attesa dell’attacco alcuni tiralleurs allontanatosi senza permesso violarono il pagliaro di Filotea la mamma di Alfonso al Pantaniglio.
Con un'arroganza inaudita i marocchini devastarono le poche cose presenti nella misera abitazione poi minacciosi portarono la loro attenzione verso l’anziana donna e la sorella Marietta.
Senza pensarci due volte Antonio Felici corse in loro aiuto ma venne subito malmenato da un marocchino mentre un altro strappandogli gli occhiali li schiacciava sotto lo scarpone.
Provvidenziale fu Peppino, il figlio di Zi Carmeluccio, che sin dalla nascita soffriva purtroppo di gravi disturbi alla parola, l’arrivo inaspettato e i suoni incomprensibili del buon vicino spaventarono a morte gli assalitori che fuggirono oltre la vigna. Nel frattempo Enrichetta Loll e Za Maria di Ciunna accorse alle grida delle due sventurate vicine presero a consolarle come sorelle. Poco lontano dalla casa di za Filotea alla Rivienna un’altra accozzaglia di questi liberatori stava accanendosi nella ricerca forsennata di oro e soldi nella casetta dei Bonomo. Per scovare gli averi di Luigi, il padre di Maria e Antonio, si stavano servendo addirittura dei metal detector abitualmente usati dai genieri per la ricerca delle mine. Grazie ai sofisticati strumenti trovarono quasi subito sepolto nell'orto quello che pensavano fosse un tesoro ma scavando scoprirono invece che si trattava solo di qualche pentola e pochi piatti.
Dopo averli seminati con rabbia tutto intorno iniziarono a malmenare selvaggiamente l’uomo fino a spaccargli la testa.
Poche ore prima dell' aggressione Luigi e la sua famiglia erano rifugiati nella casetta dello Scopeglito dove però furono costretti ad allontanarsi quando il fuoco dell' artiglieria francese mutò direzione a seguito delle coordinate trasmesse via radio dalla cicogna che ormai sorvolava la vallata indisturbata. L'improvviso cannoneggiamento spaventò a morte la giovane Maria che iniziò a piangere.
Il fratello, allora, nella speranza di distrarla le chiese di pettinarsi i lunghi capelli castani ma appena la giovane prese in mano il pettine di osso una scheggia trapassando il fogliame sopra le loro teste si andò a conficcare a pochi centimetri dei suoi piedi. Il cambiamento di fuoco francese aveva disorientato anche altri gruppi di sfollati soprattutto quelli rifugiati sopra il Cimitero che per primi erano stati investiti dai colpi d’artiglieria.
Per precauzione molti di loro si spostarono nella vicina Vallerea ed in una delle sue grotte si strinsero circa trenta anime senza mai pensare che poco dopo le granate avrebbero devastato anche quella zona.
Colpendo in pieno l’orto dei Tambucci i francesi sollevarono le schegge delle loro granate ovunque. Rimasero uccisi un asino e una capra mentre all’interno della cavità alcune persone rimasero lievemente ferite tra queste Angelina Iorio colpita ad un orecchio.
Al tramonto Antonio Felici, mentre cercava di ricomporre gli amati occhiali, fedeli compagni di mille letture, intravide in lontananza, tra il fumo degli ultimi focolai, il Battaglione Girard marciare in fila indiana immerso fino alla cintola nel giallo mare di grano. Avrebbero così evitato i campi minati della Valcatora ma non il destino già scritto che li attendeva alla salita di San Martino dove erano diretti per tentare la conquista di Giuliano di Roma.


Forze impegnate il 27 maggio 1944 per la liberazione di Villa Santo Stefano:

Groupment Blinde’ Louchet comandato dal Generale di Brigata Louchet composto dal :

4° Reggimento Spahis Marocchini comandato dal Colonnello Dodelier che impegneranno il 1° Squadrone di Ricognizione comandato dal Capitano Leroux costituito da carri leggeri M1 Stuart , automitralleuses M8 Greyhound e half tracks . Era un’ unità di cavalleria leggera composta da truppe indigene dell’Africa del nord francese, in origine cammellate.

756° US Tank Battalion comandato dal Lt. Col. Glenn F. Rogers.

II/1° Regiment Tirailleurs Marocains traspostati su camion. Erano comandati dal Capitano Desjours. Durante la liberazione del paese secondo i loro resoconti cattureranno cinque cannoni anticarro e quattordici mitragliatrici.
Tra gli ufficiali oltre al Capitano Desjours c’erano il Comandante Billot ,il Tenente medico Chevallier, il Sottotenente Lathuillere e l’Aspirant Goiran.

Il battaglione si componeva di cinque Compagnie:
La Compagnie d’ Accompagnement comandata dal Tenente Verie oltre ai Tenenti Fabre e Dodo, il medico auxiliaire Tobelem e gli Aspirant Bagarre e Paulins.

La 5a Compagnia comandata dal Capitano Gazeau oltre ai Tenenti Georges, Luynes du Houley e Gourbin e l’ Aspirant Roucet.

La 6a Compagnia comandata dal Capitano Duchatelle oltre ai Tenenti Campunas, Jouve e gli Aspirant Godon e Pelletier.
La 7a Compagnia comandata dal Tenente Gaudron oltre al parigrado Flachot e gli Aspiranti Lebrun e Pesnel.

La 8a Compagnia comandata dal Capitano Spiral oltre ai Tenenti Gamramy e Moreau e gli Aspiranti Squaglia e Coubenet.

8° Regiment Chasseurs d’Afrique comandato dal Tenente Colonnello Simon che muoverà il 4° Squadrone Tank M10 Destroyer comandato dal Capitano Frappa, ecco i nomi dei dodici carri che lo componevano :

Dia, Douna, Djenne, dire,Koulikoro,Koutiala,Kati,Koulouba,Segou,Segou Koura,San, Sansanding.

II/64° Reggimento d’artiglieria d’Afrique comandata dal Colonnello Latarse che utilizzera’ la Prima Batteria comandata dal Tenente Piroth composta da tre cannoni da 105 e uno da 155.