| 
       21  ARRIVA LA 
      BATTAGLIA 
       
       
      Quella mattina la cicogna americana aveva osato più del solito riuscendo 
      con una delicata manovra a portarsi quasi sopra la piazza dove 
      delicatamente aveva fatto cadere uno dopo l’altro una pioggia di volantini 
      multicolori che, sospinti dal vento, presto avevano coperto il celeste 
      cielo di Villa Santo Stefano. Scendevano lentamente, solo alcuni sorpresi 
      di tanto in tanto da qualche folata di brezza,venivano trascinati veloci 
      verso le campagne dove senza più vita rimanevano imprigionati tra i rami 
      degli alberi di pero.  
      Quelli che invece raggiunsero la piazza divennero subito nuovi giochi per 
      la folla di bambini che dopo averli inseguiti li aveva trasformati in 
      aereoplanini o in una barchette da far navigare lungo i rivoli dei 
      fontanili.  
      Anche Antonio Felici ne raccolse uno assediato da un gruppo di paesani che 
      incuranti del divieto di assembramento in piazza aspettavano di sapere 
      cosa ci fosse scritto. Lo studente in Lettere si concentrò sul testo e poi 
      dopo averlo letto con un sorriso di soddisfazione spiegò agli astanti che 
      si trattava di un avviso dell’esercito alleato che anticipava così il suo 
      imminente arrivo. 
      Per facilitare la liberazione del paese quelli, che fino ad allora tutti 
      pensavano essere gli americani, chiedevano alla popolazione un ultimo 
      necessario sforzo, abbandonare al più presto le case, o meglio quello che 
      sarebbe divenuto il loro prossimo obiettivo militare. La notizia fu 
      confermata anche dai comunicati serali di “Radio Londra” che in molti 
      ascoltarono a casa Planera dalla prima radio di Villa Santo Stefano. Lo 
      stesso comunicato, quello delle 22.40, fu ascoltato anche a casa di Primo 
      Toppetta presenti addirittura alcuni soldati tedeschi che inquieti non 
      persero nemmeno una delle parole del Colonnello Stevens . 
      Il giorno dopo il 25 maggio il paese lentamente iniziò a svuotarsi, molti 
      però indugiarono. Non era facile abbandonare la propria casa adesso che la 
      libertà stava bussando a quella porta. Ma alla fine la paura dei 
      combattimenti e il buon senso prevalsero e ogni famiglia, seppur a 
      malincuore,iniziò a preparare la partenza. Furono radunate le cose più 
      care, in realtà pochi oggetti, la foto dei genitori, il crocifisso, il 
      ferro da stiro, il concone.  
      Invece le monete e i gioielli in corallo, sempre se ce n’ erano ancora, 
      furono avvolti in un fazzoletto e nascosti prudentemente sotto lo zinale. 
      Solo a quel punto,liberato dalla catena il cane e nascosta la chiave di 
      casa sotto una tegola, si affrontava il breve ma doloroso esilio. Il 
      rifugio di ognuno divenne la campagna dove, all’ombra dei pagliari, gli 
      anziani sedettero abbracciati accanto ai bambini. Ma anche le numerose 
      grotte sotto Vallerea o al Parasacco insieme a quelle del Colle Saraceno 
      divennero sicuro rifugio per questi sventurati.  
      Altri preferirono invece salire fino alle cisterne del Caprao sopra il 
      cimitero anche se la maggior parte dei paesani pensò più sicuro 
      arrampicarsi ancora più in alto, sul Monticello o al Macchione. 
      Guglielmina invece seguì la nonna Flavia al Quarallo dove la famiglia 
      Reatini aveva deciso di affrontare il passaggio del fronte tutti insieme. 
      Dopo essersi radunati nella casetta in pietra di papà Ernesto, i fratelli 
      Felice, Peppino e Romano con le loro famiglie iniziarono a muoversi al 
      primo sole del 25 maggio verso il Monticello dove si sarebbero rifugiati 
      in una cavità del terreno chiamata da tutti “La Pietra Cupiccia”.  
      Ma il gruppo fu presto rallentato dall’incedere lento di Za Flavia, 
      rimasta indietro insieme alla nipote Guglielmina, che non l' avrebbe mai 
      lasciata e Scipione, il cane dei Reatini, che non perdeva di un passo la 
      bambina. 
      Alla fine Peppino, chiesto il permesso alla madre, la sollevò tra le sue 
      braccia e così dolcemente la condusse fin sopra il Monticello. La loro 
      meta era una ferita nella roccia che si apriva per circa venti metri tra 
      gli uliveti del leggero colle, era profonda alcuni passi e poteva ospitare 
      riparandole circa cinquanta persone. Vicino la spelonca al termine di una 
      frugale cena i Reatini avvolti nelle coperte trascorsero così la loro 
      prima notte sotto le stelle. 
      Il mattino del 26 maggio il paese era deserto, mentre invece la parte 
      bassa della valle dell’Amaseno era già campo di battaglia. Alle ore 12.00 
      il primo Sherman del 756° si era affacciato alle porte di Amaseno e come 
      consuetudine aveva colpito con una granata la prima casa a destra alle 
      porte del paese per saggiare così le difese tedesche. Non ci fu segno di 
      reazione, i gruppi tedeschi ritardanti avevano ripiegato ed ora erano 
      nascosti nella Macchia di Selvapiana nel silenzio rotto solo dal ronzare 
      delle mosche. I loro commilitoni della Dodicesima Compagnia di Villa Santo 
      Stefano invece fradici di sudore erano rintanati nelle trincee che avevano 
      scavato vicino le Mole. Nel frattempo, poco distanti da loro, avevano 
      iniziato a tuonare le batterie di artiglieria del Kampfgruppe Ewert 
      piazzate al Parasacco, vicino la Pezza e tra il Quarallo e il Casalino. 
      Questo dispositivo di difesa rispondeva alle direttive del 24 maggio 
      impartite direttamente dal Generale Fridolin Von Sengen und Etterlin 
      Comandante della XIV Panzercorp tedesco che, in considerazione della 
      rapida avanzata delle truppe coloniali francesi attraverso le montagne a 
      sud della Valle del Liri, aveva disposto la ritirata delle sue unità lungo 
      la nuova linea difensiva compresa tra i paesi di Giuliano di Roma, Ceccano 
      e Arnara, lasciando a ridotti raggruppamenti il compito di ritardare il 
      movimento nemico. 
      I primi colpi dell’artiglieria tedesca colsero di sorpresa Don Amasio e le 
      genti della sua casa mentre da poco avevano raggiunto il Macchione attesi 
      da alcuni buoni parrocchiani. Il sacerdote aveva portato con sé, aiutato 
      dalla fedele Mariangela, le preziose reliquie della chiesa, mentre Maria 
      Olivieri sotto lo zinale custodiva gelosamente tutto quello di valore che 
      era riuscita a portar via dalla Chiesa della Madonna dello Spirito Santo. 
      Nella tasca l’arciprete, inoltre, ben strette stringeva le chiavi della 
      chiesa e della sacrestia. La sua unica preoccupazione però al momento era 
      la statua di San Rocco che aveva celato ben protetta in luogo sicuro noto 
      solo a pochi. Verso le ore 21.00 l’artiglieria francese di stanza a 
      Vallecorsa, conquistata il 25 maggio dal Primo Battaglione Diebold del 
      Secondo Reggimento Tirailleurs Marocchini, iniziò a cannoneggiare Amaseno.
       
      Il paese conoscerà la liberta alle ore 23.30 quando il Caposquadrone 
      Drezet del Quarto Squadrone del 4° Spahis seguito da una Compagnia di 
      Tirailleurs e due squadre anticarri del Sesto Rtm e del Secondo Rtm vi 
      entreranno vittoriosi. 
      Più tardi il resto del Quarto Squadrone comandato dal Capitano De Gallon 
      si unirà ai vincitori nei pressi della chiesa di San Rocco insieme al 
      Capitano Leroux comandante del Primo Squadrone del 4°Rsm . 
      Con il cielo illuminato dai bagliori dei pezzi da 105 e 155 del 64° 
      Reggimento di Artiglieria Francese si concludeva così anche quella 
      giornata. 
      Il 27 maggio 1944 fu per Villa Santo Stefano il giorno dei giorni, il 
      Corpo di Spedizione Francese aveva previsto infatti una manovra risolutiva 
      che con una doppia progressione avrebbe permesso sia la liberazione di 
      Villa Santo Stefano che quella di Prossedi. L’azione sarebbe iniziata alle 
      ore 06.00 del mattino, quando i fucilieri marocchini si sarebbero mossi da 
      Amaseno infiltrandosi nella Macchia e, seguendo il fiume, sorpreso le 
      difese tedesche alle Mole, crocevia fondamentale per l’avanzata verso il 
      paese e il successivo affondo verso Prossedi. All’alba dello stesso giorno 
      muovendosi da Castro dei Volsci un Battaglione del Sesto Reggimento 
      Tirailleurs Marocchini, invece, avrebbe raggiunto Campo Lupino per violare 
      la barriera avversaria in quota e scendere in paese da quel versante 
      completando così la più classica delle azioni a tenaglia. 
      La tattica prevista era stata elaborata sulle mappe dagli ufficiali 
      francesi la sera precedente ma adesso all’alba avvolti dalla nebbia 
      spettava ai fucilieri del Marocco guardare negli occhi il nemico. 
      Abbandonati gli zaini ad Amaseno e affidandosi solo al loro vecchio Lebel 
      e a qualche Springfield americano i tiralleurs si mischiarono alla Macchia 
      tenendo costantemente la sponda dell’Amaseno a levante per non confondere 
      l’orientamento. 
      Verso le 09.00 le avanguardie francesi furono investite da un pesante 
      fuoco di artiglieria tedesca che rallentò notevolmente il loro passo. in 
      questa azione ebbe rilievo il comportamento del Sottotenente Roger Pesnel, 
      classe 1921 di Casablanca, comandante di una Sezione di mitraglieri della 
      Settima Compagnia del 1° Rtm. L’ufficiale con coraggio si espose al fuoco 
      nemico per trarre in salvo uno dei suoi soldati rimasto ferito da alcune 
      schegge di granate in terreno aperto. Rimasto miracolosamente incolume il 
      suo appuntamento con la morte sarà solo rimandato, cadrà infatti durante i 
      combattimenti per la presa di San Donato in Toscana il 12 .7.1944. Con un 
      pesante ritardo sulle spalle, alle 12.00, nei pressi dei “Muracci” i 
      marocchini uscirono finalmente allo scoperto e appoggiati dal tiro dei 
      mortai attaccarono le buche tedesche alle Mole e lungo la provinciale. La 
      resistenza tedesca fu strenua. Sebbene il loro compito fosse solo quello 
      di rallentare il nemico e di non affrontarlo direttamente lo scontro 
      costerà la vita a dodici panzergrenadier. Solamente alle ore 13.00, grazie 
      al provvidenziale intervento di una pattuglia di carri M1 Stuart del 1° 
      Squadrone del 4° Rsm guidata dal Tenente Tapounie, i francesi si 
      impossessarono delle Mole, mentre retrocedendo verso il paese il 
      Kampfgruppe Ewert andava ad occupare ordinatamente le posizioni arretrate 
      del Quarallo.  
      A quel punto avendo campo libero il potente cannone che nel frattempo si 
      era appostato grazie al traino di un grosso mezzo cingolato vicino la casa 
      dei Palombo, aggiustato il tiro spazzò l’area delle Mole con tre terribili 
      bordate, i francesi corsero ai ripari e questo permise ai tedeschi di 
      riprendere fiato.  
      Come alcuni di loro, sei almeno che armati di armi automatiche e di una 
      mitragliatrice al riparo di una macchiola oltre il Quarallo erano distesi 
      a terra ansimanti. Schiacciati sul terreno stavano contandosi con gli 
      occhi quando vennero allertati dal calpestio di foglie proveniente dal 
      sentiero che dal bosco conduceva alla vicina contrada. Era una pattuglia 
      francese insinuatasi nelle loro posizioni seguendo il limite del largo 
      prato che divideva la Macchia di Villa Santo Stefano da quella di 
      Selvapiana.  
      Non appena gli esploratori furono allo scoperto, i tedeschi fecero fuoco. 
      Un marocchino rimase a terra mentre atterriti i suoi compagni arretrarono 
      sparendo di nuovo tra la vegetazione.  
      Dopo essersi velocemente riorganizzati i francesi iniziarono 
      silenziosamente la manovra che avrebbe accerchiato il loro nemico. Un 
      gruppo si portò nuovamente sulla strada e tenendosi questa volta al 
      coperto iniziò ad avanzare sparando contro i tedeschi, gli altri senza far 
      rumore invece penetrarono alle loro spalle. Così senza via di fuga 
      indietreggiando tra i rovi i granatieri andarono incontro alla morte. Uno 
      solo di loro ferito gravemente riuscirà ad allontanarsi dal luogo 
      dell’agguato strisciando per parecchi metri fino ad una grande quercia 
      dove morirà alcune ore dopo. Alle ore 15.00 i francesi furono finalmente 
      pronti per continuare la progressione verso il cuore del paese. 
      Dalle macerie del ponte, come stabilito la notte precedente,si sarebbe 
      staccato anche un contingente con obiettivo la liberazione di Prossedi 
      avvenuta regolarmente alle ore 18.00 senza troppi problemi.  
      Alle 15.30 via radio alcuni osservatori che si erano portati con una jeep 
      dall’antenna lunghissima quasi alla Madonna della Stella comunicarono le 
      coordinate di tiro ai cannoni da 105 e 155 che nel frattempo erano stati 
      trainati da Amaseno. 
      Era la batteria del Capitano Piroth allineata nel tratto di strada che dal 
      ponte raggiungeva l’area poco prima occupata dall’enorme cannone tedesco. 
      Solo in quel momento molti santostefanesi capirono quale importanza avesse 
      avuto la presenza dell’ ospedale tedesco in paese e l’incolumità che aveva 
      garantito ai suoi abitanti. Dopo un assordante boato una tempesta di 
      proietti investi completamente Villa Santo Stefano. Micidiali schegge si 
      insinuarono dappertutto e ogni angolo del centro abitato venne devastato, 
      crollarono parecchie case e molti tetti furono lesionati, addirittura un 
      incendio interessò un’abitazione all’interno del palazzo del Marchese dove 
      alcune taniche di benzina nascoste dai fratelli Palombo esplosero. Il 
      primo colpo di cannone troncò di netto la punta del cipresso secolare che 
      si trovava di fronte il cimitero mentre i successivi tiri, superato 
      Santomarco, si abbatterono devastandoli sui tetti della chiesetta e dei due 
      locali all’interno del camposanto. 
      Aggiustato l’alzo piombarono sul caseggiato altre granate sempre più 
      letali, una sconquassò completamente l’interno di una casa di via delle 
      Ceneri mentre il proiettile successivo colpì in pieno Piazza Umberto I. 
      Altre granate invece squarciarono il tetto della casa a via della Rocca 6 
      e in successione altre due esplosero sul costone pozzolanico del Cigneraro. 
      Come se non bastasse quattro colpi consecutivi centrarono la casa di 
      Baldassare Panfili e alcune schegge allargarono la finestra di casa 
      Felici, ignorando completamente il parere dell’allora Ufficio Tecnico 
      Comunale.  
      Nelle campagne il Meito fu una delle aree più danneggiate mentre in paese 
      le bordate continuarono a colpire demolendole prima la casa di via S. 
      Antonio 5 e poi la casa di Giuseppe Reatini dove un proiettile rimasto 
      inesploso penetrò pericolosamente dentro la soffitta, infine anche l’asilo 
      materno in piazza verrà più volte raggiunto. 
      Spostando ancora il tiro i francesi con un colpo tremendo centrarono al 
      Quarallo la casa dei Bonomo mentre erano intenti a impastare il pane. 
      La poca preziosissima farina si tramutò in pallida nube mista alla polvere 
      dei calcinacci mentre lo spostamento d’aria trascinò tutti i presenti a 
      terra privandoli dell’udito per parecchi giorni, era il primo di numerosi 
      proiettili che colpirono quell’area fino allo Sterpetto indirizzati contro 
      una delle batterie tedesche.  
      In tarda serata, dopo aver demolito il paese, i cannoni francesi 
      concentrarono il loro fuoco contro il Monticello. Alcuni colpi erano già 
      caduti verso le 15.30, destinati ai soldati tedeschi in fuga da Campo 
      Lupino, ma quelli che sopraggiunsero al tramonto furono devastanti. Nel 
      fragore delle esplosioni milioni di schegge ridussero in mortali frammenti 
      i monoliti della collina granitica, la famiglia Anticoli che cercava 
      riparo nella parte bassa del promontorio ne venne interamente investita, 
      numerosi furono i feriti, Mario e il piccolo Zenobio Anticoli insieme a 
      Ruggero Ruggeri furono quelli che purtroppo non ce la fecero. 
      Al termine del cannoneggiamento verso le 20.00 si udì un’altra terribile 
      esplosione erano i genieri tedeschi che avevano fatto brillare le cariche 
      esplosive che mutilarono senza rimedio Ponte Grande.  
      La fortuna non aiutò uno di loro raggiunto dalle avanguardie marocchine in 
      via Roma mentre su un sidecar tentava con un compagno di abbandonare 
      velocemente il paese. Gli rimase il tempo, sebbene colpito ad un fianco, 
      di rifugiarsi non visto nella prima casa che si trovo davanti, quella del 
      civico 9. Alle 21.00 al termine di quella sanguinosa giornata i francesi 
      entrarono vittoriosamente a Villa Santo Stefano guidati dai carri M1 
      Stuart del Primo Squadrone condotti dal Capitano Leroux.  
      Il Groupment Blinde’ Louchet aveva assolto così la sua missione.  
      Ma i francesi oltre la libertà portarono anche odio e violenza. Il 22 
      maggio mattina a Pisterzo arrampicandosi sull’erto sentiero che conduceva 
      al “Calvario” era arrivata una pattuglia inglese per prelevare David dopo 
      che aveva svolto più che brillantemente il suo delicato compito. 
      L’ufficiale che fino ad allora aveva agito in incognito, dopo aver 
      indossato la sua uniforme da tenente, fu informato delle orrende violenze 
      che stavano verificandosi in zona contro la maggior parte delle donne. 
      David pensò bene, prima di andarsene, di avvisare Don Luigi Falconi 
      dell’imminente pericolo in modo da allertare per tempo i suoi 
      parrocchiani. 
      Il buon sacerdote ci riuscì anche se a Valle Vettina molti di quegli abusi 
      purtroppo erano stati già perpetrati, vili protagonisti di quei misfatti i 
      goumiers accampati fino a poco tempo prima ai piedi di Monte Alto. Gli 
      stessi individui erano ora in Piazza Umberto I ricongiunti ai loro 
      compagni che scesi da Campo Lupino si erano già macchiati di cinque 
      omicidi tra la popolazione civile.  
      Inebriati avrebbero festeggiato insieme la vittoria per tutta la notte. 
      Il giorno seguente i primi mezzi corazzati americani e francesi entrarono 
      in paese, lo fecero transitando per Ponte Panciacca poiché la distruzione 
      di Ponte Grande ne aveva impedito il passaggio la sera precedente, il loro 
      lento movimento aveva alzato una enorme nube di polvere bianca e i primi 
      timidi raggi di sole che la filtravano colorarono il paese, ancora 
      deserto, di una luce surreale, era il 28 maggio domenica di Pentecoste. Ma 
      invece di essere ricordato per la gioia di libertà per la gente di Villa 
      Santo Stefano quello divenne il giorno da dimenticare. Alle 06.00 del 
      mattino ne era stato funesto messaggero un soldato tedesco trascinatosi da 
      Campo Lupino. Era un reduce del Terzo Battaglione Hochgebirgsjager ferito 
      alle gambe che cercando aiuto si era rifugiato a casa di Antonio 
      Zomparelli. L’alpino era stato nascosto tutta la notte in montagna e ora 
      bussava disperato alla porta della casa che fino al giorno prima aveva 
      ospitato Matthew O’ Brien. Il tedesco fu fatto adagiare su un tavolo e con 
      dell’ acqua ossigenata gli furono medicate le ferite. Ma non ci fu nemmeno 
      il tempo di stringergli la prima benda che sfondando a calci la porta una 
      pattuglia di marocchini entro prepotentemente in casa. Erano sulle sue 
      tracce da ore e minacciando con i mitra chi si fosse opposto, senza troppi 
      complimenti, lo trascinarono via. Scosso dell’accaduto chi si era 
      rifugiato in quella casa decise di allontanarsene per riparare, non visto, 
      a casa di Giotto Saiano. 
      Ma ben presto i marocchini raggiunsero anche quelle mura bramando denaro e 
      preziosi, sfuggirgli era ormai impossibile, come formiche fameliche 
      avevano invaso tutta la montagna. Sotto la minaccia delle armi i 
      fuggiaschi furono raccolti di fronte alla casa colonica e chi tentò di 
      reclamare fu colpito violentemente in volto con il calcio del fucile. 
      Vennero tutti perquisiti ma il magro guadagno li fece imbestialire, si 
      calmarono solo quando qualcuno di loro riuscì a trovare accuratamente 
      nascoste nella ciabatta di Maria Cencetta alcune banconote. Intanto a 
      monte, nella pineta, iniziò a sentirsi distintamente lo scalpitio di 
      numerosi cavalli. Mentre i marocchini litigando si spartivano il magro 
      bottino i fuggitivi indisturbati si poterono allontanare nascondendosi più 
      a valle dietro alcune macere nel silenzio rotto ogni tanto solo dalle 
      imprecazioni di Cencio Ranfacane, il marito di Maria.  
      Quella stessa mattina altre persone erano in fuga, era il gruppo di Don 
      Amasio che informato della malvagità dei liberatori cercava di evitarli 
      dirigendosi verso gli Acquaroni. Senza fiato i fuggitivi giunsero nei 
      pressi della casa dove era rifugiata la nipote di Gnora Orietta, proprio 
      nel momento in cui alcuni marocchini stavano tentando di violentare le 
      donne che vi erano nascoste. Sor Checco a capo del gruppo, conoscendo bene 
      l’inglese per il suo passato in America, rapido insieme al Capitano 
      Millotti corse ad avvisare dell’imminente tragedia alcuni ufficiali 
      francesi nei pressi di un pozzo. Solo dopo averli lungamente pregati 
      questi intervennero, ma la loro presenza inattesa scatenò la reazione 
      violenta degli aggressori, le armi si sostituirono alle parole e un 
      marocchino rimase ucciso. Avvenuto l’irreparabile i graduati esortarono 
      Sor Checco a portare via tutti i presenti, sicuri che ci sarebbero state 
      delle rappresaglie da parte dei compagni dell’ucciso, che agivano ormai in 
      maniera incontrollata ignorando perfino gli ordini dei loro stessi 
      superiori.  
      Per evitare ulteriori guai i francesi si occuparono anche della sepoltura 
      dell’ ucciso ricoprendolo frettolosamente con alcune pietre raccolte da 
      una macera. 
      Atterrito il gruppo si portò più in alto verso un pagliaro dove vennero 
      sotterrati gli averi di ognuno compreso l’oro della Madonna dello Spirito 
      Santo. 
      Don Amasio a quel punto cosciente dell’inevitabile fece sedere a terra 
      donne vecchi e bambini e inginocchiandosi diede l’estrema unzione a tutti 
      i presenti. Alla fine della benedizione come annunciato dagli ufficiali 
      francesi, arrivarono, assetati di sangue, i marocchini che sparando in 
      aria presero a minacciarli con le armi, ma nella sorpresa degli assaliti e 
      degli assalitori alzandosi ritto in piedi Don Giuseppe Giancarli si portò 
      avanti quei disperati e mostrando il petto fece segno di colpire lui per 
      tutti. Ma in quel momento drammatico tra i fucili spianati e il coraggioso 
      sacerdote si pose con inaspettata risolutezza sua madre, Rita Giancarli 
      con addirittura in braccio il fratello più piccolo, i goumiers 
      disorientati da tanta determinazione affrettarono la loro perquisizione e 
      rinunciando al gruppo corsero via urlando come ossessi in cerca di qualcun 
      altro da depredare. 
      Dopo lo scampato pericolo Sor Checco decise insieme a Don Amasio che 
      sarebbe stato meglio, a quel punto, scendere in paese e chiedere ai 
      francesi una scorta per le donne e i bambini. Nell’attesa, per sicurezza, 
      furono fatti nascondere tutti sotto un covone mentre i pochi averi 
      protetti dai fazzoletti continuarono a rimanere sepolti poco distante. Za 
      Marietta Olivieri iniziò allora, insieme alla sorella Loreta, a pregare la 
      Madonna, la sua Madonna quella dello Spirito Santo, affinché 
      salvaguardasse i paramenti sacri lasciati secondo lei troppo incustoditi, 
      le sue preghiere furono ascoltate e in seguito ogni cosa poté essere 
      recuperata. Al momento però il timore peggiore rimaneva qualche soldato 
      isolato che passando da quelle parti incendiasse il pagliaro, come era già 
      avvenuto altrove, con tutte quelle povere anime sotto. Dopo ore ritornò 
      Sor Checco con alcuni militari francesi e finalmente anche i primi 
      americani che scortarono il gruppo tra le pietraie incolume fino al Cauto.
       
      Raggiunto però Santantonio i profughi ritrovarono gli onnipresenti 
      marocchini che, parecchio eccitati, stavano facendo il tiro a segno con 
      delle galline. A corto di bersagli adocchiarono i due pennuti che avevano 
      seguito fino alle porte del paese Za Checca Petrilli, strattonata la donna 
      impotente se li vide portar via.  
      A mezzogiorno del 28 maggio il territorio di Villa Santo Stefano era ormai 
      completamente in mano dei soldati marocchini che a gruppi di tre a cavallo 
      o a piedi si muovevano veloci con la sola intenzione di depredare senza 
      nessun timore uomini e cose. Nelle rare occasioni che rovistando tra le 
      case riuscivano a trovare qualcosa di prezioso, la follia li portava a 
      battersi tra di loro strappandosi barbe e orecchini. Intanto la notizia 
      delle violenze sulle donne e delle rapine ingiustificate si era sparsa 
      ovunque per cui l’incontro anche accidentale con questi bizzarri 
      liberatori era sconsigliato.  
      Augusto Bonomo ebbe questa sventura mentre da Siserno, in cerca dei suoi 
      puledri liberati tra gli ulivi scendeva in paese. Gli si pararono davanti 
      sulle fiere cavalcature due goumiers che accortisi della sua sorpresa per 
      rincuorarlo gli offrirono del vino che il poveretto avrebbe dovuto bere 
      però secondo loro da un pitale. Il buon Augusto coraggiosamente rifiutò 
      nonostante un fucile lo stesse minacciando, uno dei due allora visto il 
      carattere forte dell’uomo per impressionarlo maggiormente prese a 
      strappare a morsi la testa di una gallina che aveva appesa alla sella, 
      Augusto rimase impassibile, con disprezzo il cavaliere sputò allora i 
      resti del pennuto allontanandosi deluso insieme al compagno.  
      Per evitare incontri simili la giovane Edda Sassano a casa di Sor Ascenzio 
      al Macchione fu fatta vestire da ragazzo mentre in dignitoso silenzio, 
      rotto solo da qualche singhiozzo, si fece tagliare i lunghi capelli biondi 
      per rendere ancor più verosimile il suo travestimento. Decisamente più 
      pericolosa, come abbiamo visto, fu l’esperienza vissuta da Leonilde, la 
      fidanzata del Capitano Domenico Millotti, che dopo l’arrivo dei francesi 
      per due intere notti insieme alla sorella Lina e alla cugina Elide si 
      rifugiò in un pozzo senz’acqua protetto da una botola ricoperta di 
      frasche. Una mattina però le tre ragazze dopo essere uscite dal loro 
      nascondiglio per un po’ di sole e una boccata d’aria, mentre erano nella 
      loro camera udirono dei passi per le scale, erano due marocchini che le 
      impedirono subito di fuggire chiudendosi immediatamente la porta alle 
      spalle. 
      Senza perdere tempo presero a rovistare tra i cassetti in cerca di oro 
      poi, continuando a mostrarsi gentili, chiesero se erano sposate. Per 
      prendere tempo le giovani risposero di sì ma poi, all’improvviso, 
      disorientandoli corsero via cercando di nascondersi nelle altre stanze. 
      Uno dei falsi galantuomini le inseguì insieme ad altri due suoi compagni 
      che fino a quel momento erano rimasti a tenere a bada con i loro Lebel gli 
      altri abitanti della casa radunati sotto una cimasa. 
      Fortuna volle che il Capitano Millotti fosse avvertito del pericolo che 
      stava correndo Leonilde per cui affrettandosi corse ad avvisare 
      energicamente insieme a Sor Checco, alcuni ufficiali francesi 
      dell’accaduto. La prima richiesta di aiuto fu rifiutata poi viste le 
      sacrosante insistenze dei due uomini i graduati acconsentirono giungendo 
      sul posto insieme a tre soldati francesi. Tra i soccorritori e i quattro 
      marocchini nacque una vivace discussione causata dall’ostinata insistenza 
      dei goumiers a non allontanarsi dalla casa. La situazione degenerò dando 
      luogo ad un violento scontro a fuoco.  
      A lasciarci le penne fu un marocchino, tutti gli altri invece riuscirono a 
      fuggire coperti dal loro capo che da dietro una macera minacciò sia i 
      civili che gli ufficiali di ritornare a vendicarsi. La violenza dei 
      liberatori giunse fino alla Valcatora dove parte del Battaglione del 
      Comandante Girard del 1° Rtm il pomeriggio del 27 era accampato pronto a 
      muovere per Giuliano di Roma. Nell’attesa dell’attacco alcuni tiralleurs 
      allontanatosi senza permesso violarono il pagliaro di Filotea la mamma di 
      Alfonso al Pantaniglio.  
      Con un'arroganza inaudita i marocchini devastarono le poche cose presenti 
      nella misera abitazione poi minacciosi portarono la loro attenzione verso 
      l’anziana donna e la sorella Marietta. 
      Senza pensarci due volte Antonio Felici corse in loro aiuto ma venne 
      subito malmenato da un marocchino mentre un altro strappandogli gli 
      occhiali li schiacciava sotto lo scarpone.  
      Provvidenziale fu Peppino, il figlio di Zi Carmeluccio, che sin dalla 
      nascita soffriva purtroppo di gravi disturbi alla parola, l’arrivo 
      inaspettato e i suoni incomprensibili del buon vicino spaventarono a morte 
      gli assalitori che fuggirono oltre la vigna. Nel frattempo Enrichetta Loll 
      e Za Maria di Ciunna accorse alle grida delle due sventurate vicine 
      presero a consolarle come sorelle. Poco lontano dalla casa di za Filotea 
      alla Rivienna un’altra accozzaglia di questi liberatori stava accanendosi 
      nella ricerca forsennata di oro e soldi nella casetta dei Bonomo. Per 
      scovare gli averi di Luigi, il padre di Maria e Antonio, si stavano 
      servendo addirittura dei metal detector abitualmente usati dai genieri per 
      la ricerca delle mine. Grazie ai sofisticati strumenti trovarono quasi 
      subito sepolto nell'orto quello che pensavano fosse un tesoro ma scavando 
      scoprirono invece che si trattava solo di qualche pentola e pochi piatti.
       
      Dopo averli seminati con rabbia tutto intorno iniziarono a malmenare 
      selvaggiamente l’uomo fino a spaccargli la testa. 
      Poche ore prima dell' aggressione Luigi e la sua famiglia erano rifugiati 
      nella casetta dello Scopeglito dove però furono costretti ad allontanarsi 
      quando il fuoco dell' artiglieria francese mutò direzione a seguito delle 
      coordinate trasmesse via radio dalla cicogna che ormai sorvolava la 
      vallata indisturbata. L'improvviso cannoneggiamento spaventò a morte la 
      giovane Maria che iniziò a piangere.  
      Il fratello, allora, nella speranza di distrarla le chiese di pettinarsi i 
      lunghi capelli castani ma appena la giovane prese in mano il pettine di 
      osso una scheggia trapassando il fogliame sopra le loro teste si andò a 
      conficcare a pochi centimetri dei suoi piedi. Il cambiamento di fuoco 
      francese aveva disorientato anche altri gruppi di sfollati soprattutto 
      quelli rifugiati sopra il Cimitero che per primi erano stati investiti dai 
      colpi d’artiglieria. 
      Per precauzione molti di loro si spostarono nella vicina Vallerea ed in 
      una delle sue grotte si strinsero circa trenta anime senza mai pensare che 
      poco dopo le granate avrebbero devastato anche quella zona. 
      Colpendo in pieno l’orto dei Tambucci i francesi sollevarono le schegge 
      delle loro granate ovunque. Rimasero uccisi un asino e una capra mentre 
      all’interno della cavità alcune persone rimasero lievemente ferite tra 
      queste Angelina Iorio colpita ad un orecchio.  
      Al tramonto Antonio Felici, mentre cercava di ricomporre gli amati 
      occhiali, fedeli compagni di mille letture, intravide in lontananza, tra 
      il fumo degli ultimi focolai, il Battaglione Girard marciare in fila 
      indiana immerso fino alla cintola nel giallo mare di grano. Avrebbero così 
      evitato i campi minati della Valcatora ma non il destino già scritto che 
      li attendeva alla salita di San Martino dove erano diretti per tentare la 
      conquista di Giuliano di Roma. 
       
       
      Forze impegnate il 27 maggio 1944 per la liberazione di Villa Santo 
      Stefano: 
       
      Groupment Blinde’ Louchet comandato dal Generale di Brigata Louchet 
      composto dal : 
       
      4° Reggimento Spahis Marocchini comandato dal Colonnello Dodelier che 
      impegneranno il 1° Squadrone di Ricognizione comandato dal Capitano Leroux 
      costituito da carri leggeri M1 Stuart , automitralleuses M8 Greyhound e 
      half tracks . Era un’ unità di cavalleria leggera composta da truppe 
      indigene dell’Africa del nord francese, in origine cammellate. 
       
      756° US Tank Battalion comandato dal Lt. Col. Glenn F. Rogers. 
       
      II/1° Regiment Tirailleurs Marocains traspostati su camion. Erano 
      comandati dal Capitano Desjours. Durante la liberazione del paese secondo 
      i loro resoconti cattureranno cinque cannoni anticarro e quattordici 
      mitragliatrici. 
      Tra gli ufficiali oltre al Capitano Desjours c’erano il Comandante Billot 
      ,il Tenente medico Chevallier, il Sottotenente Lathuillere e l’Aspirant 
      Goiran. 
       
      Il battaglione si componeva di cinque Compagnie: 
      La Compagnie d’ Accompagnement comandata dal Tenente Verie oltre ai 
      Tenenti Fabre e Dodo, il medico auxiliaire Tobelem e gli Aspirant Bagarre 
      e Paulins. 
       
      La 5a Compagnia comandata dal Capitano Gazeau oltre ai Tenenti Georges, 
      Luynes du Houley e Gourbin e l’ Aspirant Roucet. 
       
      La 6a Compagnia comandata dal Capitano Duchatelle oltre ai Tenenti 
      Campunas, Jouve e gli Aspirant Godon e Pelletier. 
      La 7a Compagnia comandata dal Tenente Gaudron oltre al parigrado Flachot e 
      gli Aspiranti Lebrun e Pesnel. 
       
      La 8a Compagnia comandata dal Capitano Spiral oltre ai Tenenti Gamramy e 
      Moreau e gli Aspiranti Squaglia e Coubenet. 
       
      8° Regiment Chasseurs d’Afrique comandato dal Tenente Colonnello Simon che 
      muoverà il 4° Squadrone Tank M10 Destroyer comandato dal Capitano Frappa, 
      ecco i nomi dei dodici carri che lo componevano :  
       
      Dia, Douna, Djenne, dire,Koulikoro,Koutiala,Kati,Koulouba,Segou,Segou 
      Koura,San, Sansanding. 
       
      II/64° Reggimento d’artiglieria d’Afrique comandata dal Colonnello Latarse 
      che utilizzera’ la Prima Batteria comandata dal Tenente Piroth composta da 
      tre cannoni da 105 e uno da 155. 
   |