14  L’AEREO DELLA VALCATORA

Uno dei passatempi preferiti dei bambini di Villa Santo Stefano consisteva nel riunirsi alla Terra e ammirare con il naso all ’insù’ le strabilianti evoluzioni degli aerei alleati che veloci sorvolavano la valle dell’Amaseno.
Spesso i mammocci sfidandosi tra loro scommettevano dove sarebbe apparso per primo uno di questi apparecchi, le puntate erano innocenti.... una fionda per Siserno, una figurina per monte Cacume e alcuni fichi secchi, con la nocciola però, in direzione di Priverno. Per riconoscerli più facilmente i bambini avevano soprannominato gli aviogetti con buffi soprannomi per cui ecco sfrecciare i veloci “Nasi rossi”, sbuffare in serata l’inglese “Pippo” o ronzare nascosta dalle nuvole a bassa quota la pigra “Cicogna”. Ma le assolute dominatrici di quel circo alato erano le fortezze volanti che altissime nel cielo regalavano ai bambini solo qualche breve riflesso quando il sole baciava le loro vesti di alluminio rilucente.
Quel continuo andirivieni di aerei per i piccoli osservatori era solo un caotico grande gioco che animava oltre che le loro giornate anche l’immensa distesa azzurra sopra le loro teste. I cartografi alleati invece consideravano quello spazio di cielo altamente organizzato. Gli invisibili quadranti che lo componevano ospitavano infatti un sistema infinito di traiettorie che divise per colore identificavano vie di fuga, di avvicinamento o per la perlustrazione.
Ma nella quotidianità delle loro missioni, interrotta solo dal fuoco delle Flak tedesche, la bassa valle dell’Amaseno veniva sorvolata dai piloti alleati senza badare troppo a queste coordinate, gli bastava infatti seguire il corridoio naturale limitato dalle basse creste dei Lepini che sapevano li avrebbe portati fin sopra l’obiettivo. In questo dedalo di rotte un giorno di aprile, diversamente dagli altri, i piccoli spettatori, sempre costantemente non paganti, assistettero ad uno spettacolo straordinario per quel finale di primavera.
Tutto iniziò con un brontolio insolito, più rauco del consueto che rese subito arduo anche ai più esperti, a cui sarebbe bastato un solo accenno di motore, il riconoscimento dell’ aeroplano in avvicinamento.
Quando da cupo il frastuono divenne assordante simultaneamente, eseguendo quasi una capriola,tutti insieme i bambini si voltarono verso Siserno.
Dietro la brulla cresta seguito da una densa scia di fumo apparve all’improvviso un velivolo.
Il caccia perchè di questo si trattava venne identificato subito come tedesco, non tanto per le croci nere ben visibili sulle ali quanto per l’inconsueta presenza in quei cieli vista l’ assoluta predominanza degli aeroplani alleati.
L’aereo, un FW190, appena superato il paese iniziò però ad inclinarsi pericolosamente verso ore sette fino a quando un prolungato sussulto non gli fece sputare nell’aria anche l' ultimo nervoso colpo di motore.
A quel punto i mammocci con le bocche spalancate attesero con ansia l’apertura del paracadute che seppur inevitabile non avvenne.
Il pilota aveva deciso infatti di atterrare. Ma il motore ormai ingovernabile e il poco margine per la manovra lo obbligarono però a puntare il muso del caccia verso un fianco della montagna di Prossedi, planando cosi disordinatamente sul versante sassoso di ponente. L’evento fuori dall’ordinario anche per gli stessi soldati della Wehrmacht fece scattare fulminee le misure per il salvataggio del velivolo e del suo occupante. Al comando di Prossedi furono assegnate le operazioni di recupero. Riguardo le sorti del pilota non si seppe mai nulla di preciso, solo da successive vaghe testimonianze si venne a sapere che era forse sopravvissuto rimanendo incolume dopo l'atterraggio forzato del suo caccia.
L’aereo infatti, nonostante la confusa manovra, era rimasto miracolosamente intatto e resistendo alla rudezza del terreno aveva conservato anche buona parte della sua fusoliera. Rinvenuto il relitto venne sezionato chirurgicamente in più parti dai componenti della squadra di soccorso che asportando i piani di coda e le ali lasciarono libera la sezione centrale per un più facile trasporto.
Per muovere a valle le porzioni del velivolo fu realizzato addirittura un sentiero che dalle pendici della montagna arrivava, superandola, fino oltre la strada provinciale. Infatti fu l’immenso pianoro della Valcatora quasi interamente coltivato a grano il luogo dove venne deposto l’aereo diviso in tutti i suoi segmenti. L’opera di recupero terminò quando il motore o ciò che ne rimaneva venne avvolto dentro un telo militare, forse proprio il paracadute mai utilizzato.
Solo a quel punto la squadra si allontanò portando a spalla le mitragliatrici, il loro munizionamento e la sezione radio, quello che era stato un predatore dei cieli fu lasciato in compagnia del fruscio delle gialle spighe mosse delicatamente dal vento.
Spariti i tedeschi una folla di curiosi, rimasta nascosta fino ad allora, si avvicinò incredula allo scheletro del FW 190.
I più temerari iniziarono ad arrampicarsi a turno nella cabina del pilota dove simulando con la bocca il rombo del motore si concedevano fantasiose ardite manovre. Dopo aver superato nella corsa molti suoi coetanei anche Primo si arrestò esterrefatto davanti al caccia, vista l’eccezionalità dell’evento aveva portato con sé la macchina fotografica con all’interno fortunatamente ancora pochi ma preziosi fotogrammi. Il giovane ammirato non riusciva a staccare lo sguardo da quel gigante alato che fino ad allora aveva visto solo nei cieli volteggiare a milioni di chilometri sopra di lui.
Mentre regolava l’obiettivo notò che parte della sua copertura laterale era assente mostrando così i tiranti che governavano i piani di coda, era come se un enorme felino avesse con una zampata portato via il fianco dell’aereo.
A sinistra giaceva immobile il motore che con il suo olio corvino aveva unto il telo che lo avvolgeva, invece a lato della fusoliera erano state deposte le enormi ali che mostravano oltre alla croce della Luftwaffe, verniciata in nero, anche una lettera una B o forse una R. Primo, fieramente come un cacciatore ad un safari, si fece fotografare vicino alla sua preda. Giusto il tempo di un'altra memorabile istantanea, questa volta con Alfredo Iorio, che i tedeschi, a bordo di alcuni camion, tornarono ordinando a quella che ormai era divenuta una adunata di allontanarsi. I resti dell’ aeroplano vennero sollevati con cura per essere disposti ordinatamente sui cassoni degli automezzi che così appesantiti si allontanarono lentamente lungo la provinciale. Successivamente alcuni paesani vollero recarsi sia sul versante del monte che sul prato della Valcatora per raccogliere qualche piccolo ricordo, una vite o un bullone, ma fu tutto inutile i tedeschi avevano ripulito sistematicamente le due aree.
Le cause dell’abbattimento dell’ aereo tedesco non furono mai note, ma sicuramente un combattimento tra caccia americani e un aereo tedesco avvenne nei cieli di Villa Santo Stefano.
Era il 10 maggio 1944 quando un FW 190 spuntò da monte Gemma tallonato a breve distanza da due aerei americani, forse due P40, che lo stavano crivellando di colpi. Durante l'inseguimento centinaia dei loro bossoli sputati dai vani laterali delle mitragliatrici calibro venti avevano iniziato a piovere, sprofondando ancora roventi tra le zolle del Parasacco e di Colle Strambo. La caccia terminò quando dopo mille evoluzioni sopra la valle uno dei due caccia colpì mortalmente l’aereo tedesco che si allontanò trafitto verso Cassino. Gli aerei americani invece virarono verso sud lasciandolo andare per poi scomparire insieme dietro Amaseno seguiti da una debole scia di fumo bianco.
Anche Guglielmina e Za Flavia erano rimaste coinvolte loro malgrado nel duello aereo mentre, lasciato Ponte Grande, attraverso la strada Romana si recavano al Quarallo. Nel pieno dello scontro una raffica di traccianti colpì alcuni massi lungo l’antico sentiero sfiorando di un pelo nonna e nipote che nonostante l’ingenuo riparo, alcuni esili cespugli, rimasero fortunatamente illese dalle insidiose schegge di pietra che impazzite iniziarono a fendere l’aria.
Quel pomeriggio Guglielmina indossava il suo vestito piu amato, quello rosso.
Il giorno dopo Za Flavia ancora scossa per l’episodio “… chiss’ sparene le bomme ‘ccume se fussero cerase …” , fu costretta a privare la nipote del grazioso abitino che, nella sua innocente semplicità, forse proprio per il colore troppo acceso aveva attirato involontariamente i caccia alleati.
Con una carezza Guglielmina si congedò dalla veste preferita riponendola con cura dentro un baule.
Quel 10 maggio anche Za Graziuccia Palombo e il figlioletto Domenico Rossi, di ritorno da Roccasecca dei Volsci dove avevano acquistato alcune marzelline, furono sorpresi dallo stesso combattimento subito dopo il ponte delle Mole.
La paura di essere trafitti dalle raffiche dei caccia li spinse a gettarsi in fretta a terra al riparo del fossato che correva lungo i margini della provinciale trascurando però il prezioso carico che l'intraprendente donna teneva in equilibrio sul capo dentro una cesta. Finito lo scontro madre e figlio non poco dovettero penare per raccogliere le piccole forme di formaggio sparse tutto intorno.