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       7  FUGGIASCHI 
       
      Come per la maggior parte dei soldati Italiani anche per quelli 
      santostefanesi l’otto settembre rappresentò il giorno della delusione e 
      dello scoramento.  
      Improvvisamente indifesi, orfani del Regio Esercito, affrontarono il 
      disastro nazionale grazie solo alle loro straordinarie capacità .  
      Come i fratelli Toppetta, Armando e Antonio, acquartierati in quella data 
      nefanda a Trieste, in due caserme attigue, tanto che i due fanti potevano 
      comunicare attraverso le finestre dei rispettivi dormitori. 
      Armando comprese subito dopo l’annuncio dell’armistizio che era giunto il 
      momento di tornare a casa ma non senza il fratello che cercò di convincere 
      in ogni modo, ma l’esitazione del primogenito e il sopraggiungere 
      inaspettato dei tedeschi li divisero definitivamente. Il destino di 
      Antonio fu la prigionia in Germania, esperienza devastante che lo 
      accompagnerà per tutta la vita, mentre per Armando iniziò il lento e 
      faticoso rientro a casa. 
      Infoltendo l'enorme esercito di sbandati prese a camminare di notte fino a 
      che gli era possibile, mentre il giorno, spossato, cercava riposo e ombra 
      al riparo di selve e cespugli. La sua ferrea volontà gli concesse un’unica 
      breve sosta, a Firenze, dove trovò rifugio nel convento delle Suore Oblate 
      dell’Assunzione in via Borgo Pinti 15. Nell'istituto religioso numerose 
      erano le conventuali provenienti da Villa Santo Stefano,tra queste la zia, 
      Suor Teresa Margherita. 
      La religiosa sorpresa dell’ inaspettata visita del nipote lo accolse 
      amorevolmente ma prima di concedergli un comodo giaciglio e un pasto caldo 
      chiese doverosamente il permesso alla madre superiora, Suor Madeleine.  
      La nobile tedesca acconsentì limitando però la permanenza di Armando a 
      solo pochi giorni.  
      La Badessa non volle essere severa con il fuggitivo ma il convento, 
      nonostante la sua abile diplomazia con gli ufficiali della Wehrmacht, era 
      da tempo sorvegliato dalla Gestapo soprattutto dopo che alcune famiglie 
      ebree vi si erano rifugiate. Rifocillato di quel poco che anche le suore 
      potevano permettersi, dopo alcuni giorni, come promesso, Armando, sacco in 
      spalla, riprese il suo cammino verso il paese natio. Negli stessi giorni 
      stesso destino anche se per sentieri diversi stava affrontando Vincenzo 
      Malizia, il fidanzato di Maria Bonomo. 
      La sua odissea iniziò nella residenza di Racconigi dove il giovane 
      ciociaro svolgeva servizio di guardia ai Reali. Dopo l’otto settembre, 
      come tutti i suoi compagni, abbandonò il fucile e da quel giorno ostacoli 
      e difficoltà diverranno i suoi unici compagni di viaggio. Come quando 
      giunto quasi a casa fu costretto a salire sulla macchina di due tedeschi 
      intenzionati ad accompagnarlo a tutti costi fino alla periferia di Roma. 
      Il provvidenziale passaggio però si rivelò un incubo, soprattutto per la 
      carta geografica nascosta in un calzino donatagli da una buona famiglia 
      per orientarsi. A quei tempi il solo possedere mappe o macchine 
      fotografiche voleva significare essere passati per le armi immediatamente 
      come spie, ma la fortuna aiutò ancora chi lo meritava e Vincenzo riuscì ad 
      abbracciare i suoi cari poche settimane dopo a Ceccano. 
      Anche Ernestino Lucarini, come Antonio Toppetta, conobbe il baratro della 
      prigionia iniziata nei freddi Balcani dove la vigliacca complicità del suo 
      comandante con i tedeschi costò l’arresto della sua intera compagnia 
      decisa a lottare fino allo stremo all'interno di un fortino fuori Lubjana. 
      Tornerà dai campi di lavoro in Germania solo a guerra finita con impressa 
      nella sua vivida mente una sola unica frase “Nicht arbeit! Nicht essen!”, 
      niente lavoro! niente cibo!. 
      Sorte comune ebbero invece, dopo essere stati catturati insieme in Nord 
      Africa Ferrante Fracassino Iorio e Andrea Lucarini che furono i primi 
      santostefanesi, loro malgrado, a raggiungere il continente australiano. La 
      loro lunga prigionia terminerà solo il 27 ottobre 1947 con il loro ritorno 
      in paese grazie ad una nave della Croce Rossa sbarcata a Napoli.  
      Su un bastimento simile tornerà anche Guido Iorio che era stato fatto 
      prigioniero dagli inglesi a Bardia il 3 gennaio 1941 insieme ad altri 
      migliaia di italiani. 
      Dall’Egitto, via nave, il geniere raggiungerà l’India dove verrà rinchiuso 
      nel campo di concentramento numero 26 di YOL, acronimo di Young Officer 
      Lane, alle falde dell’Himalaya. Lasciate le creste innevate verrà 
      trasferito in seguito più a sud a Bangalore nel campo numero 11 Wing 4 , 
      dove per quei curiosi scherzi del destino ritroverà lo zio, Padre Augusto 
      Lombardi, che ricopriva un importante incarico presso la Delegazione 
      Vaticana di Bombay. 
      Grazie al suo intervento e al telegrafo pontificio Mimma Iorio, a Villa 
      Santo Stefano, poté comunicare di nuovo con il fidanzato di cui aveva 
      perso ogni traccia. 
      Ma da quel lontano angolo di mondo Guido non avrebbe mai immaginato che la 
      sua odissea sarebbe ancora continuata, ad Aberdeen questa volta, nel nord 
      della Scozia. Da queste brumose lande solo dopo essersi spezzate le 
      braccia nelle sconfinate farm insieme ad Alfredo Leo di Za Natalina e 
      Antonio Fiocco riuscirà finalmente a raggiungere la patria.  
      Invece Giovanni Lucarini dopo essere stato dimenticato per troppo tempo in 
      un campo alleato in Sud Africa ritornerà in paese riconosciuto solo da 
      pochi. Confuso in quel cappotto inglese troppo grande per le sue spalle 
      che stremate ma indomite si erano opposte ad ognuna delle vessazioni del 
      nemico. 
      Il Sud Africa divenne anche la destinazione di due cugini, Giuseppe e 
      Giovannino Toppetta, dopo che furono catturati nel deserto africano dagli 
      australiani. 
      Il Carcere militare inglese di Zonderwater vicino Pretoria li ospiterà 
      forzatamente fino al 21 aprile 1945. Solamente un anno dopo, il giorno di 
      carnevale del 1946 ,Giuseppe Toppetta non più anonima matricola 97455 farà 
      ritorno insieme al cugino a Villa Santo Stefano. Come i due cugini anche 
      altri due santostefanesi, Violante Anticoli e Gaetano Iorio, si 
      ritrovarono in prigionia entrambi reclusi nel campo di lavoro di Lennep a 
      Remscheid in Germania. 
      Diversa sorte ebbe invece il giovane Sottotente Ermanno Palombo, già 
      collega del Capitano Millotti al distretto di Frosinone, che dopo la dura 
      esperienza in Russia con la divisione “ Torino” al ritorno in patria venne 
      assegnato ad un Reggimento di artiglieria a Verona dividendo la stessa 
      caserma con un'unità della Wehrmacht. 
      L’otto settembre il secco comunicato di Badoglio raggiunse gli ufficiali 
      alleati in mensa mentre per l'ultima volta sedevano insieme.  
      Solo al termine della trasmissione nella sala deserta raggelata dalle 
      parole del Maresciallo, Ermanno si accorse di essere rimasto l'unico 
      ufficiale di grado superiore italiano. Il giorno dopo senza nessuna 
      indicazione del Comando di Zona, che forse non esisteva più, gli fu 
      intimata categorica la resa, opponendosi ai tedeschi Ermanno rispose con 
      la sua vita offerta in cambio della liberazione di tutti i suoi soldati.
       
      Arrestato fu tradotto in Germania su un treno da cui rocambolescamente 
      durante una sosta in Svizzera riuscì a fuggire. Vivrà da quel momento in 
      poi in perenne latitanza fino al giorno in cui riuscì a raggiungere la 
      capitale e la sua amata Maria. A Roma troverà rifugio in casa del signor 
      Bolognini che lo aveva già ospitato durante il periodo universitario. 
      L’otto settembre impose anche scelte difficili e sofferte come quella di 
      Benito Lucidi che abbandonata la divisa della Regia Marina seguì il suo 
      orgoglio di italiano fino alle porte della caserma di via Marina di 
      Robilant a Genova arruolandosi nel Battaglione “Risoluti” della Decima 
      Mas.  
      Il ricordo del paese e quello intenso della famiglia continuavano intanto 
      a tormentare Armando mentre accovacciato si nascondeva vicino ai binari 
      che nel silenzio della notte illuminati dalla luce delle stelle gli 
      avrebbero indicato la via del ritorno. Alla fine di novembre quando ormai 
      la suola dei suoi instancabili compagni di viaggio fu completamente 
      consumata Armando superata l'ultima collina ritrovo' finalmente Villa 
      Santo Stefano. 
      La nonna Flavia fece fatica a riconoscerlo ma non esitò un solo istante ad 
      abbracciarlo benedicendolo mille volte mentre la sorellina Guglielmina 
      allungandosi sulle magre gambe baciò sulla guancia quel signore dalla 
      barba lunga e crespa. Dopo essersi liberato dei consunti abiti borghesi 
      che comunque gli avevano salvato la vita Armando ritrovò, dopo lungo 
      tempo, il piacere di un bagno caldo e accarezzato dalle profumate lenzuola 
      di lino con cui la nonna aveva avvolto il semplice materasso di paglia si 
      addormentò.  
      Il giorno seguente di buon mattino si recò al Quarallo, dove attorniato da 
      parenti ed amici, raccontò del fratello Antonio prigioniero in Germania e 
      di tutte le vicissitudini fino ad allora affrontate. Con la stessa 
      caparbietà con cui era ritornato a casa, senza perdere tempo, chiese di 
      poter subito lavorare. 
      Gli furono affidate per la sua abilità le ultime bufale dello Zio Felice 
      scampate alle razzie dei tedeschi che Armando avrebbe custodito nonostante 
      la loro costante presenza. Anche Peppe Bonomo, amico di Armando e suo 
      vicino, era tornato a piedi da Bolzano dove era aggregato ad una compagnia 
      mitraglieri. 
      Dopo il rientro la prima preoccupazione furono le sue bestie, alcune 
      capre, che per precauzione insieme al padre disperse in montagna dove ogni 
      tanto risaliva solo per contarle, compito oltremodo arduo considerando che 
      le povere bestie per cautela non avevano più la campana al collo. Ma in 
      quei giorni nelle macchie e in montagna non si aggiravano solo i nostri 
      caparbi reduci, molti loro coetanei che parlavano una lingua diversa e 
      avevano indossato un’altra uniforme condividevano la stessa sorte. 
      Erano i prigionieri alleati che in quell’autunno del 1943 sperando in un 
      futuro migliore erano evasi dai reclusori tedeschi del frusinate in due 
      tra le più memorabili evasioni di massa. La prima fu progettata 
      all’interno del reclusorio di Paliano da uno dei tanti comitati di fuga 
      formato da ufficiali inglesi, che seguendo una rigida procedura, 
      programmavano tempi e modi delle evasioni dei diversi equipaggi della Raf 
      catturati dopo i primi bombardamenti in Italia del 1942. Molti di questi 
      aviatori durante la loro latitanza vennero aiutati da diverse famiglie 
      ciociare e ad alcune di queste per la disinteressata generosità venne 
      concesso anche un premio di riconoscenza da parte del Governo Militare 
      Alleato. 
      La seconda grande evasione invece fu provocata accidentalmente da uno dei 
      troppi bombardamenti che devastarono il capoluogo laziale. 
      Da un enorme fenditura apertasi sul muro del Distretto Militare, divenuto 
      carcere tedesco dopo l’armistizio, riuscirono a scappare circa duecento 
      prigionieri alleati. Molti di loro si aggregarono ai gruppi partigiani 
      della zona come quello di Virgilio Reali o del Tenente Ambrosi altri 
      invece tentarono da soli di raggiungere le linee alleate,spesso con poca 
      fortuna come gli inglesi arrestati il 18 aprile 1944 nelle campagne di 
      Villa Santo Stefano. Ma già prima di quella data numerose erano state le 
      misure adottate per la ricerca e cattura degli evasi dai comandi tedeschi 
      del frusinate, anche gli uomini di Weiss vi furono coinvolti.  
      Una di queste azioni portò il 16 dicembre 1943 alla cattura di due 
      prigionieri inglesi a Giuliano di Roma e di uno americano nelle campagne 
      di Villa Santo Stefano. Al termine del rastrellamento l’evaso 
      statunitense, esausto, venne condotto in paese ma prima di essere 
      trasferito di nuovo in carcere fu fatto sedere legato vicino la chiesa di 
      San Sebastiano.  
      Era il primo alleato che i santostefanesi vedevano e molti ne rimasero 
      sinceramente delusi, forse per il suo aspetto dismesso non certo di fiero 
      liberatore. Tuttavia l’atteggiamento nei suoi confronti fu di comprensione 
      e pietà, nei suoi occhi spaventati le madri di Villa Santo Stefano lessero 
      le stesse ombre che sicuramente riempivano lo sguardo dei loro figli 
      lontani da casa e persi chissà dove.  
      Il prigioniero fu condotto via, nessuno lo rivide più, la desolante scena 
      del suo trasferimento raffreddò i cuori di tutti, in lontananza monte 
      Cacume mostrò il suo capo imbiancato, sarebbe stato un inverno duro, ci 
      stavamo avvicinando al Natale del ‘43.  
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