IDA BONOMI

Una madre coraggio

di Maria Teresa Planera

Camminando per il centro storico di Villa, dopo aver superato la piazzetta antistante la Chiesa dell’Assunta, dedicata a Don Amasio Bonomi, si arriva alla stretta che da Via Santa Maria porta a Via San Pietro. Agli inizi del Novecento questa zona era un luogo di grande fervore sociale, reso vivo e singolare, da persone semplici ma attive, e da personalità emergenti che indubbiamente appartengono alla memoria storica del nostro paese.

 
   
 
   
 
   
 

La stretta citata era importante, perché qui c’era l’abitazione di Don Amasio Bonomi, davanti al portone era sempre seduta la madre ‘gnora Peppina Turriziani con il marito Sor Giuseppe. I due coniugi avevano sette figli: Ermete divenuto Colonnello dell’Esercito e Direttore della Scuola Militare AACC di Portici; l’arciprete, nonché indimenticabile educatore Don Amasio; Vittorio Pio detto Sor Piuccio padre del maestro Giggetto; Filiberto emigrato in America; Antonia fedele e accorta amministratrice della casa Bonomi dopo la morte della madre; Giggetta sposata con sor Checco; Berenice madre dell’avvocato Emergildo Perlini, eminente esponente politico di Villa negli anni cinquanta e del maestro Cesare, sposato alla maestra Teresa Sperandio; Ida sposata con Amilcare Panfili, donna di grande spessore umano e indiscusso esempio di madre coraggio per i tanti lutti che dovette affrontare.

Ida, nata a Villa Santo Stefano il 24/07/1878, era andata in sposa ad Amilcare Panfili, suo lontano parente che abitava di fronte la casa natale e che le offrì un matrimonio agiato e sicuro. La vita coniugale era risultata felice e allietata da sei figli: Filomena, Adalgisa, Geltrude, Panfilina, Enrico, Maria. Amilcare, indicato nei documenti del tempo come di professione possidente e ricevitore postale, era molto legato alla famiglia e, grazie ai suoi innumerevoli beni, consentiva alla moglie e ai figli una posizione in vista nel paese e una vita confortevole e privilegiata. La domenica e nei giorni di festa portava i suoi familiari a passeggio col calesse fino alla Madonna dello Spirito Santo, al Rivo, al Guanale, e in altri terreni di sua proprietà, ricchi di frutta e verdure di stagione, dove potevano giocare e fare merenda.

Ida, fino a circa trentanove anni, aveva pensato unicamente all’educazione dei figli, al marito, alla casa ed a mantenere i contatti colla sua famiglia materna. Improvvisamente il 27/06/1911, Amilcare venne a mancare ed Ida si trovò sola con i bambini da crescere e le molteplici attività del consorte da mandare avanti. Lei che era stata unicamente moglie e madre dovette assumere un ruolo che per quei tempi era prettamente maschile: l’amministrazione del patrimonio di famiglia. Esso consisteva in diversi terreni ed uliveti dati a colonia, in un grande vigneto sito nella località della Madonna dello Spirito Santo, un forno (detto di zia Candida), un frantoio a pietra, la gestione privata di un ufficio postale locato in Via San Pietro, una bottega che aveva la caratteristica di un emporio ubicato nella stessa via e alcuni investimenti finanziari. Superato un periodo di grande sconforto in cui le furono vicini le sorelle, la madre e il suo confessore nonché fratello Don Amasio, che seppe arrivare alla donna con le parole della fede e della speranza, Ida si gettò a capofitto nel lavoro, nelle responsabilità senza mai risparmiarsi o ammettere di non farcela.

Il tempo passava, i suoi figli erano cresciuti, la vita scorreva tranquilla e la vedovanza era sempre resa ufficiale dall’insostituibile vestito nero, segno del lutto mai dimenticato. Seppe organizzare la propria famiglia in modo efficiente, sapendo essere severa ed autorevole nelle decisioni da prendere, e sempre al passo dei tempi quando c’era da pensare al futuro dei figli. Le ragazze Filomena, Adalgisa, Geltrude, dopo aver studiato nel collegio di Ferentino, furono destinate alla Posta, dove scrupolosamente erano sempre pronte a decifrare il telegrafo e ad eseguire i compiti richiesti dall’esercizio postale, compresa la timbratura della posta in partenza.

Filomena fu chiamata a lavorare alle Poste Centrali di Roma e raggiunse la capitale per impiegarsi lì, con il sofferto consenso materno che avvalora la concretezza e l’apertura mentale di Ida. Enrico volle raggiungere il seminario di Ferentino per studiare e prepararsi a diventare sacerdote, anche se era l’unico maschio e la madre avrebbe voluto che fosse lui ad occuparsi del patrimonio familiare. Panfilina e Maria, ancora piccole, erano sempre intorno alle sottane della madre, pronte ad eseguire i comandi ed a fare la spola dalla loro abitazione alla bottega, alla posta, alla casa dell’arciprete o di ’gnora Giggetta, esaudendo le continue richieste materne presso i familiari. Questo periodo di una certa serenità e prosperità finì presto per il sopraggiungere della prima guerra mondiale alla quale furono chiamati anche molti giovani del nostro paese. Essa si rivelò lunga e provocò la morte al fronte di molti giovani mal equipaggiati e poco preparati ad affrontare una prova così dura e difficile.

Ad aggravare la situazione nel 1918 arrivò "la spagnola", una tremenda epidemia che colpì molte persone, soprattutto giovani, portandole alla morte. In quell’anno Ida perse, in una settimana, tre figli: Adal-gisa (il 15/10/1918), Enrico (il 18/10/1918) a Villa e Filomena (il 22/10/1918) a Roma per questa grave malattia. I primi due morirono a distanza di tre giorni l’uno dall’altra e lei non ebbe nemmeno il tempo di seppellirli che le arrivò la chiamata da Roma di correre al capezzale dell’altra figlia morente. Riuscì a trovarla viva e la ragazza notando il lutto più evidente del solito e l’aria affranta della mamma, le chiese se fosse successo qualcosa a casa. La povera donna rispose di no e cercò di distoglierla in tutti i modi da quel pen-siero nonostante il dolore le devastasse il cuore. Morta anche Filomena, riportò a Villa il suo feretro e finalmente potette piangere ed esternare il dolore di madre. Questa volta fu difficile riprendere il suo cammino, chissà quali furono le parole di Don Amasio per confortarla e accendere in lei di nuovo un interesse per la vita e uno stimolo ad andare avanti. Certamente Egli dovette attingere dalla sua profonda conoscenza sui temi della fede e sul mistero della morte ed esternare tutta la capacità di riportarli alla donna in modo sem-plice, ma dialetticamente convincente.

Il rapporto già stretto si cementò sempre di più, la vicinanza costante e premurosa del fratello la rese forte e, anche se provata, fu pronta ad occuparsi delle tre figlie che le erano rimaste ed a gestire le attività per il bene della fa-miglia. Riprese il suo lavoro alla "bottega" che si trovava dinanzi la casa dei Petrilli; dietro un bancone di legno costruito da zi’ Arcangelo, bravo falegname di quell’epoca, vendeva la pasta sfusa che avvolgeva in fogli di carta pane, le sarde, le alici, il baccalà sotto sale, orzo, surrogati vari di caffè, cioccolato, caramelle, vino, quaderni, pennini, matite, fili per cucire… Aveva una grande bilancia e un registro sul quale annotava il credito dei clienti, perché nessuno pagava, ma faceva segnare l’importo dovuto da saldare nel momento in cui racimolava qualche lira.

’Gnora Ida non negava mai niente a nessuno, anche se il debito era alto, rassicurava tutti che li aspettava e per ognuno aveva una parola affettuosa, un consiglio da dare, un saluto da mandare a qualche familiare, una domanda da fare per informarsi sulla vita dei clienti. Nel retrobottega, c’era un angolo con un piano cottura sul quale preparava i pasti per i suoi familiari, e da qui si accedeva alla grotta dove veniva tenuto al fresco il vino che vendeva sfuso. Acquistava il vino dalla famiglia Narducci di Giuliano, periodicamente le arrivava un barile trasportato su un carretto e dalla piazza portato a spalla fino a San Pietro da un certo Natalino.

Nei momenti liberi dei caldi pomeriggi estivi si sedeva fuori la bottega sotto il pergolato che faceva ombra e parlava o diceva "ca posta di rosari" con le donne di via San Pietro: ‘za Filotea, ‘gnora Ausilia,’za Sabetta con la figlia Peppenella, ’za Diadema, ’za Cleonice, ’za Marzioccia e le sorelle Antonia e Berenice; di fronte era seduta sugli scalini della sua abitazione ’za Nunzia, donna di grande generosità che s’adoperava sempre per chi ne avesse bisogno, con le figlie Teresa e Antonina. Periodica-mente con la "barozza", accompagnata da qualche familiare si recava a Frosinone per rifornire la "bottega"di quello che mancava e in quell’occasione tirava fuori il suo soprabito e vestito nero più elegante adatto alla città. Erano passati diversi anni da quel terribile 1918 e le figlie Geltrude, Panfilina, Maria ormai in età da marito ad una ad una si sposarono.

Geltrude sposò il cugino Baldassarre (detto Saruccio) Panfili che lavorava con lei nell’ufficio postale, Panfilina andò in sposa ad Augusto Aversa, Maresciallo delle Guardie Regie di Giuliano Di Roma, e Maria ad Armando Marini, facoltoso commerciante di Frosinone. Nacquero anche i nipoti e la sua casa si ripopolò delle voci felici dei bambini: Panfilina ebbe tre femmine: Filomena, Adalgisa e Giuseppina; Maria tre maschi: Silvio, Enrico e Roberto. Sembrava che dopo tanto dolore la sua vecchiaia sarebbe stata serena, ma il destino aveva in serbo per lei nuovi lutti e nuove sofferenze. Morì la nipote Filomena e gli eventi politici del tempo precipitarono fino alla seconda guerra mondiale.

Il paese visse anni difficili di miseria e di sofferenza, arrivarono i tedeschi che sulle case nuove ("in cima alla vigna") crearono un ospedale che curava anche la gente del posto e dopo la loro ritirata e l’armistizio si vedeva passare qualche aereo alleato che bombardava un luogo sospetto o cadeva perché abbattuto. Per sfuggire al passaggio delle truppe alleate Ida con la sua famiglia e tutti i paesani si rifugiarono sul Macchione, si nascosero nelle poche capanne che c’erano e Don Amasio in quei momenti così difficili pregava con loro e per loro, sperando che " il passaggio della battaglia" non lasciasse ferite per la popolazione. Non fu così, l’esercito alleato aveva al suo seguito truppe spietate e cruente, quelle de "i Marocchini" che nelle ore libere raggiunsero il Macchione e seminarono il terrore specie tra le donne, molte delle quali furono violentate e stuprate.

Questa è un pagina triste che il nostro paese ha vissuto e che mai è stata dimenticata. Intanto, dopo il loro sbarco, gli Americani avanzavano liberando il territorio italiano, ma provocando la morte di molti civili per i loro bombardamenti a Montecassino, a Roma, a Castel Gandolfo …. In quest’ultima città il 10/02/1944, s’abbatté un terribile bombardamento anglo-americano che provocò la parziale distruzione del Palazzo Propaganda Fide dove erano rifugiati molti civili italiani tra cui Maria Panfili, il marito ed i figli, e tutti tragicamente moriro-no sotto le macerie. La madre apprese la notizia in paese, distrutta dal dolore, seppellì anche questa figlia, ma non ebbe mai un luogo dove piangere i nipoti, perché i loro resti non furono trovati. Anche in questa nuova tragedia ebbe un ruolo fondamentale Don Amasio, senza di lui sicuramente non ce l’avrebbe fatta; lentamente riprese la vita di sempre alla bottega e nelle varie attività, confortata dalle figlie superstiti e da tutti i familiari. Si concedeva poco o nulla come donna, ormai non aveva più speranze per sé , era proiettata unicamente nella famiglia, nella preghiera, nel ricordo dei suoi cari, diventando un esempio di forza e di madre coraggio per tutti.

In quegli anni Via San Pietro era il centro di grande fervore educativo, molti bambini e ragazzi frequentavano la scuola serale di Don Amasio nel vicolo omonimo e la chiesa di San Pietro dove coltivavano gli orticelli e si dedicavano alle attività della palestra. Ida ave-va la bottega attigua alla chiesa e vicina alla scuola, perciò seguiva tutte le iniziative del fratello e a volte lo rimproverava, perché si affaticava troppo e trascurava la sua salute. L’arciprete, come lei affettuosamente lo chiamava, poco seguiva i suoi consigli, anzi le mandava i ragazzi alla bottega per rifornirsi di quaderni, pennini, inchiostro, facendo segnare a suo nome il credito che poi pagava parzialmente o affatto. La sorella gli accordava il suo aiuto economico per il grande affetto che nutriva per lui, per l’appoggio che le aveva sempre dato nei momenti difficili e come forma di carità per "i suoi morti".

Il 22/1/1949 anche Don Amasio venne a mancare privandola di quel punto di riferimento dal quale attingere forza e conforto. Lo scorrere lento della sua vita continuò incentrato intorno al lavoro, alla famiglia,alla fede; anche quando non fu più in grado di uscire cercava il contatto con l’esterno affacciandosi alla finestra della sua camera che era posta di fronte la sua casa natale e da lì parlava con Antonia e Berenice e con le persone che passavano e per le quali aveva sempre un saluto, una domanda, una richiesta. Viveva con le due figlie rimaste, con il genero Saruccio, le due nipoti Adalgisa e Giuseppina, quest’ultima morì prematuramente nel 1956 e lei era solita affermare che se n’era andata prendendo il suo posto.

Gli anni che seguirono furono tranquilli, visse con i suoi ricordi tenendo nel cuore ogni caro che l’aveva lasciata. Si avvicinò alle novità che arrivavano nelle case negli anni sessanta, come la televisione, dapprima con sospetto poi con completa accettazione comprendendone l’importanza. Si spense serenamente il 27/7/1966 e per i lutti che aveva vissuto, si assicurò sempre un posto privilegiato nella memoria di chi la conobbe o ne sentì parlare, perché le venivano riconosciuti il coraggio e l’esempio di una maternità sofferta e sempre vissuta con dignità e rassegnazione.

 

up. 08.02.13

www.villasantostefano.com

PrimaPagina  |  ArchivioFoto | DizionarioDialettale | VillaNews