GIOVAN BATTISTA PALOMBO

UN EROE DI VILLA SANTO STEFANO

(30 marzo 1892  -  28 maggio 1981)

di Giancarlo Pavat

Si dice che siano le circostanze, i casi della vita a trasformare gli uomini in eroi oppure in codardi. Questo nella vita di tutti i giorni. Figuriamoci cosa può succedere il corso di una esistenza umana viene a coincidere con avvenimenti epocali. Avvenimenti che "fanno" la Storia con la S maiuscola. Può succedere però che non siano le circostanze ad influire uomini, bensì questi ultimi ad entrare nella storia mediante deliberate e consapevoli decisioni.

Quello che desideriamo raccontare è proprio la scelta fatta da un Uomo, dal Santostefanese Giovan Battista "Titta" Palombo, novantanni fa, mentre il Mondo intero era sconvolto dalla bufera della Prima Guerra Mondiale. Lo spaventoso conflitto ormai universalmente ricordato come "La Grande Guerra".

Con lui si vuole  idealmente ricordare tutti quei nostri connazionali, i nostri nonni, i nostri padri, che hanno combattuto in quel conflitto terribile e sanguinoso.

 

1 - G.B.Palombo in divisa da Ardito 2 - G.B. Palombo Ardito con commilitoni 3 - G.B.Palombo Ardito

Come è noto la guerra scoppiò il 28 luglio 1914, a seguito dell'assassinio a Sarajevo il 28 giugno, dell'erede al Trono dell'Impero Austroungarico, l'Arciduca Francesco Ferdinando, ad opera di terroristi Serbi. Il complesso sistema delle alleanza militari trascinò nel conflitto gran parte delle nazioni Europee e dei loro Imperi Coloniali. Da un parte l'Impero Austroungarico e la Germania (successivamente anche l'Impero Ottomano e la Bulgaria) e dall'altra la Serbia, l'Impero Russo degli Zar, la Francia e l'Inghilterra. L'Italia, sebbene legata dalla "Triplice Alleanza" alla Germania ed all'Austria-Ungheria, rimase neutrale.

Il Paese si spaccò in due. I cosiddetti "Neutralisti" volevano rimanere fuori dal conflitto, mentre gli "Interventisti" volevano scendere in guerra ma non al fianco della Germania e dell'Austria-Ungheria ma contro, tradendo quindi la Triplice Alleanza. Questo per completare il Risorgimento e l'unità Nazionale, liberando quindi le ultime Terre Italiane ancora dominate dallo straniero. Terre che, sebbene sintetizzate nel celebre motto "Trento e Trieste", riguardavano tutto il Trentino, la Venezia Giulia, L'Istria e la Dalmazia. Da sempre di lingua e cultura italiane ma facente parte da secoli dell'Impero Austroungarico degli Asburgo.

Dopo quasi un anno di accesi dibattiti parlamentari, manifestazioni (anche violente) di piazza, interventi di personaggi illustri e noti anche all'estero come il poeta Gabriele D'Annunzio, il Governo fece la sua scelta. La Guerra.

Il 26 aprile 1915 venne sottoscritto segretamente il Patto di Londra, con il quale l'Italia si impegnava ad entrare in guerra al più presto (entro un mese erano gli accordi) al fianco delle Potenze dell'Intesa; Francia, Inghilterra e la Russia Zarista. Il 24 maggio del 1915, (lo scorso maggio, infatti, in tutta Italia si è ricordato il 90° anniversario) l'Italia, varcando i confini del 1866, attaccava l'Impero Austroungarico.

Probabilmente la guerra sarebbe finita subito con la vittoria dell'Italia, se i Comandanti delle FF.AA. Italiane avessero avuto il coraggio di attaccare immediatamente e rapidamente l'Impero Austroungarico. Le città di Trento, Trieste e Gorizia, distavano soltanto pochi chilometri dal confine italiano e su quel fronte l'esercito nemico (che combatteva già da un anno anche su altri sanguinosissimi fronti, come nei Balcani e nelle sterminate pianure della Polonia e dell'Ucraina) era numericamente inferiore a quello con il Tricolore.

Un azione temeraria e rapidissima avrebbe portato alla conquista in pochi giorni delle città denominate "Irredente", ovvero da redimere, liberare.

Oggi gli storici, studiando i documenti dell'epoca, hanno scoperto che, effettivamente il Governo e lo Stato Maggiore dell'Impero Austroungarico erano convinti (e rassegnati) di perdere, nel giro di poche settimane se non di giorni, Trieste, Gorizia e tutta la costa Adriatica dell'Istria e della Dalmazia.

Invece, per colpa, soprattutto del Comandante in Capo Italiano, il Generale Raffaele Cadorna (che verrà rimosso dopo la disfatta di Caporetto nel 1917), ma anche per l'effettiva impreparazione della Truppe Italiane, si avanzò molto lentamente, sia nella pianura Friulana (attestandosi sul fiume Isonzo) che sulle Alpi, dando tempo al nemico di fortificarsi. Passando quindi da una guerra "di movimento"a quella "di trincea".

"Nella sua complessiva condotta, il nemico si mostra molto cauto, si avvicina piano piano alle posizioni ove pianta la propria artiglieria e subito si trincera sotto terra. Dal punto di vista tattico non è un procedere inetto ma strategicamente è assolutamente sconsiderato. Il momento favorevole (per una fulminea e vittoriosa avanzata) è ormai passato e nulla lo farà più tornare."

(Traduzione dal tedesco dal Diario del Tenente Generale Kraft von Dellmensingen, Comandante del Corpo d'Armata Austroungarico del Tirolo – 7 giugno 1915)

Ma all'entrata dell'Italia in guerra G.B. Palombo non si trovava in Italia.

A quell'epoca il nostro Paese era terra di emigranti e anche Giovan Battista Palombo (nato nel 1892 e conosciuto da tutti in paese come "Titta"), come tanti altri Ciociari ed Italiani di tutte le regioni, si imbarcò giovanissimo per gli Stati Uniti d'America alla ricerca di lavoro e di fortuna.

Gli Stati Uniti sono sempre stati il Grande Paese delle Opportunità. La Nazione che persino nella propria Costituzione prevede "il diritto alla ricerca della felicità".

Certamente in quegli anni, gli emigranti (risorsa importantissima per un Paese sterminato e poco popolato) non sempre erano particolarmente ben visti, soprattutto se venivano da nazioni "latine". Ma per chi aveva capacità e voglia di lavorare le porte erano aperte. G.B. Palombo, giovane volonteroso ed onesto, si stabilì quindi negli Usa, per la precisione nello Stato di New York ed in Pennsylvania. Cominciò a lavorare subito nelle fabbriche, evitando di essere tentato da altre strade che portarono Italiani di altre regioni ad entrare a far parte di organizzazioni criminali poi divenute famose (o famigerate) anche grazie ai films di Hollywood.

Gli Stati Uniti, sin dalla fine della loro Guerra di Indipendenza, seguivano una politica di non ingerenza negli affari delle Nazioni del Vecchio Continente. Nel contempo, mediante la cosiddetta "Dottrina Monroe", dal nome del Presidente (J. Monroe 1817-1825) che l'aveva formulata nel 1823, avevano impedito, anche militarmente, qualsiasi intervento delle Potenze Europee nelle vicende delle Americhe. Sintetizzando tale dottrina con la celebre frase "L'America agli Americani".

Pertanto, quando in Europa scoppiò la "Grande Guerra", il Governo Americano si guardò bene dall'intervenire seguendo la volontà dei propri cittadini assolutamente isolazionisti e neutralisti.

Non esistevano leggi federali o trattati internazionali che obbligassero il Governo della più grande democrazia del Mondo a rimandare gli emigrati in Italia, dove, dopo il 24 maggio 1915 sarebbero finiti al fronte a combattere.

Perciò G.B. Palombo rimanendo al sicuro negli Usa neutrali, sarebbe scampato agli orrori di quel conflitto, senza rischiare accuse di renitenza alla chiamata alle armi o peggio di diserzione o tradimento.

Ma quelli erano altri Tempi. Tempi in cui termini come Patria, Nazione, Onore non erano soltanto vuoti sostantivi. Altri Tempi ed altri Uomini. Costretti a lasciare la propria Patria, in quanto questa era incapace di dar loro lavoro ed un futuro decoroso, ma pronti ad accorrere a combattere e a morire per difenderla.

Ma rientrare in Italia era pericolosissimo. Bisognava riattraversare l'Oceano Atlantico, infestato dai sottomarini U-BooT tedeschi che affondavano tutte le navi, anche neutrali. Clamoroso fu l'affondamento, il 7 maggio del 1915, al largo delle coste irlandesi, del celebre transatlantico "Lusitania". La grande nave passeggeri batteva bandiera americana, quindi apparteneva ad una nazione neutrale. Ma la Marina Tedesca era stata chiara. Per bloccare ogni rifornimento alle Isole Britanniche ed ai porti Francesi, in barba ad ogni convenzione internazionale, avrebbe implacabilmente colpito ogni imbarcazione intercettata in quelle acque o diretta ai porti dei paesi nemici, quindi anche a quelli italiani.

Un esempio dell'enorme impatto emotivo che il siluramento ebbe sull'opinione pubblica americana lo abbiamo sfogliando un agendina dello stesso G.B. Palombo, sulla quale annotò la data dell'affondamento, sottolineando il nome della nave.

Dunque imbarcarsi, comportava un rischio altissimo, si poteva morire prima ancora di arrivare al fronte, non per nulla erano previsti specifici riconoscimenti per chi affrontava una simile traversata.

"All'appello della Patria in armi, accorse sollecito da oltre Oceano, sfidando le insidie delle navi e dei sommergibili nemici".

Così recita uno dei tanti attestati ricevuti da G.B. Palombo per meriti combattentistici, anche questo conservato (assieme a molti altri) dalla figlia Sonia a Villa Santo Stefano.

Giovan Battista Palombo fece la sua scelta. Non si imboscò. Avrebbe potuto farlo legalmente, semplicemente rimanendo a lavorare negli Stati Uniti ed invece si imbarcò a New York. Fortunatamente la sua nave non fu colpita e riuscì a rientrare in Italia dove si arruolò volontario nel Regio Esercito Italiano.

Non entrò a far parte di un Corpo qualsiasi bensì di uno dei più duri ma anche circondato da un alone di romanticismo; quello dei "Bersaglieri Ciclisti". Con questa divisa, G.B. Palombo ebbe il suo "battesimo del fuoco" sul fiume Isonzo. Si batté alle porte di Gorizia, durante la cosiddetta "VI Battaglia dell'Isonzo", durata dal 6 all'8 agosto 1916 e che portò alla liberazione della città giuliana, ove ottenne, per il coraggio dimostrato in combattimento, il suo primo riconoscimento.

I Bersaglieri sorsero nel 1836, come Corpo dell'Esercito del Regno di Sardegna, ad opera del Generale Piemontese La Marmora. Si trattava di un Corpo di tiratori scelti (da cui il nome) allenati a muoversi e ad andare all'assalto sempre di corsa. Idea innovativa per l'epoca, visto che il resto della fanteria in tutti gli Eserciti Europei si muoveva lentamente a passo cadenzato, in serrate formazioni o in linea. Il 3 novembre del 1918, alle ore 15.30, al termine della Prima Guerra Mondiale, furono i primi a sbarcare a Trieste liberata.

Oggi i Bersaglieri, che conservano ancora il caratteristico "Piumetto" di Gallo Cedrone, fanno parte, come Truppe Meccanizzate o Corazzate dell'Esercito Italiano e stanno partecipando a molte missioni in varie regioni del Mondo.

 

La città di Gorizia era stata fortificata divenendo il "campo trincerato" più munito d'Europa. I monti che la circondavano, il S. Gabriele, il S. Michele, il Sabotino, il Montesanto, il Podgora ed altri ancora, erano stati anch'essi trasformati in inespugnabili fortezze. Uno di questi, il Podgora, dopo la battaglia con la quale gli Italiani riuscirono a conquistarlo, cambierà il nome in "calvario", a causa dell'enorme tributo di sangue versato.

La conquista di Gorizia ebbe un eco enorme in tutta Europa. Proprio perché considerata imprendibile. Inoltre sfatò l'iniquo mito che considerava gli Italiani incapaci di battersi seriamente. Tra le truppe che combattevano davanti a Gorizia c'era anche il poeta ventiseienne toscano Vittorio Locchi. Dipendente delle Poste e Telegrafi era partito volontario in guerra. Per celebrare la liberazione della città compose un Poema dal titolo "La Sagra di Santa Gorizia". Oggi completamente dimenticato ma sino agli anni '40 era insegnato nelle scuole. Si vuole proporre il passo finale quando le truppe Italiane dopo l'ultimo assalto entrano in città.

(…) Alla baionetta!

E tutte le baionette

Fioriscono sulle trincee.

Tutta la selva di punte

Ondeggia, si muove,

si butta sul monte,

travolge i nemici,

rigettandoli

oltre le cime,

scaraventandoli giù,

a precipizio

dentro l'Isonzo.

Sei nostra! Sei nostra!

Sembra gridare l'assalto.

La città è apparsa,

apparsa a tutti nel piano,

dalle vette raggiunte,

e tende le braccia,

e chiama,

lì, prossima,

tutta rivelata,

nuda e pura nel sole d'agosto

e libera! Libera!

Sotto la cupola celeste

del cielo d'Italia,

sotto le Giulie,

l'ultime torri

smaglianti della Patria.

Vittorio Locchi sarebbe morto il 13/2/1917 nel naufragio della nave militare "Minas", silurata da un U-BooT tedesco al largo di Capo Matapan in Grecia.

Ma, quando nell'estate del 1917, per volontà del Generale Capello, nacquero i Reparti d'Assalto degli Arditi, G.B. Palombo chiese ed ottenne di entrarne a far parte.

Gli "Arditi" erano un Corpo che oggi si definirebbe "d'Elites". Sorti appositamente per azioni e missioni molte volte senza ritorno, che richiedevano coraggio, sprezzo del pericolo, ma anche una preparazione ed un addestramento che non venivano impartiti ai normali fanti. Oltre agli appartenenti al "Corpo degli Arditi" propriamente detto, rivestivano tale qualifica (con tutte le mansioni d'istituto previste) anche elementi inquadrati in altri Corpi dell'Esercito, come appunto G.B. Palombo che divenne "Bersagliere Ciclista Ardito Fiamme Cremisi", dal colore delle fiamme che i bersaglieri portavano e portano sul bavero della divisa e che a volte viene confuso e chiamato erroneamente "rosso".

Per G.B. Palombo, quindi, alle peculiarità dei "Bersaglieri Ciclisti" si univano le caratteristiche da "mission impossible" degli Arditi.

Assaltatori temerari, si lanciavano contro le trincee e le fortificazioni nemiche con i loro caratteristici "attacchi a valanga".

A volte, per cogliere di sorpresa il nemico, andavano all'assalto, con il pugnale tra i denti e lanciando bombe a mano, senza il cannoneggiamento preparatorio dell'artiglieria. Trovavano i nemici non decimati dal bombardamento e con le difese intatte ma pativano meno perdite degli altri reparti, impegnati nei "classici" falcidianti attacchi frontali, proprio perché sfruttavano l'effetto sorpresa.

Leggendario divenne il loro "Spirito di Corpo", il loro "cameratismo" ed il loro morale altissimo. Al contrario degli altri milioni di soldati di tutte le nazioni belligeranti, che trasformati in una sorta di automi, andavano a morire all'assalto passivamente, gli Arditi erano volontari e forti della loro entusiasta e consapevole adesione alle motivazioni della guerra ed agli ideali patriottici.

Tenuti in grande considerazione dagli Alti Comandi del Regio Esercito, temuti dall'Impero Austroungarico, proprio per le loro caratteristiche e la loro fama di sfegatati e votati a missioni suicide godevano di alcuni privilegi. Ai reparti degli Arditi veniva risparmiata la dura vita di trincea, venivano alloggiati in comode caserme nelle retrovie del fronte.

Avevano un soprassoldo, una disciplina meno rigida e formale, più licenze e permessi.

Nel 1917, nel paese di Sdricca di Manzano, sulla riva destra del Natisone, in provincia di Udine, venne addirittura istituita una vera e propria "Scuola di Addestramento" per gli Arditi. Con alloggi, servizi vari e persino una "Collina tipo" sulla quale esercitarsi negli assalti.

Erano tutti giovani e giovanissimi e per essere accettai nei ranghi degli Arditi dovevano essere molto prestanti fisicamente. Svolgevano molta attività fisica e sports. Ovviamente più si addestravano e più avevano possibilità di riportare a casa la pelle.

Avevano un vitto infinitamente migliore di quello delle altre truppe ed un equipaggiamento (niente zaino in spalla) ed uniformi più comode.

La divisa degli Arditi divenne famosa per la sua particolare giubba aperta ed il caldo maglione (per l'inverno) o una camicia dal collo aperto invece del colletto chiuso della regolamentare uniforme grigioverde.

4 - G.B. Palombo Bersagliere ciclista 5 - G.B. Palombo in divisa da Bersagliere, 1915 6 - G.B. Palombo nel 1919 dopo essere ritornato negli U.S.A.

I segni di riconoscimento di questi reparti erano il "fez" e le "fiamme" di colore nero, (entrambi cremisi per i bersaglieri) ed il distintivo con il teschio e le tibie. Le famose "teschiere" che diverranno, qualche anno più tardi, simboli di un ben preciso movimento politico. Ma all'epoca non c'era alcuna ideologia tra di loro, se non quella, è ovvio, dell'amore per l'Italia.

Usavano armi "sui generis", oltre al fedele pugnale ed alle bombe a mano, utilizzavano i primi lanciagranate e lancia fiamme.

Di loro scrisse anche il grande scrittore americano E. Hemingway, volontario sul fronte italiano con la Croce Rossa. Dopo essere guarito della ferita rimediata sul Piave, Hemingway si unì al IX Reparto d'Assalto degli Arditi e fu con loro nei combattimenti di Bassano del Grappa.

Dopo Gorizia il fronte si spostò sull'Altipiano della Bainsizza ed il conflitto di impantanò nuovamente. Di nuovo inutili assalti frontali con centinaia di migliaia di caduti, elemento centrale della dottrina della cosiddetta "guerra di logoramento" allora imperante nei Comandi Militari.

Gli Arditi furono impiegati numerose volte, spesso riuscirono a conquistare, con pochi uomini, aspre colline fortificate con trinceramenti e nidi di mitragliatrici.

Ma una visione sclerotica della concezione della guerra legata a concetti tattici superati, unita ad oggettivi errori dei Comandi non permisero di sfruttare appieno le capacità di manovra degli Arditi, tanto da renderli decisivi per una vittoria risolutiva del conflitto.

Poi, nell'autunno del 1917 assieme alle piogge torrenziali che dalle Alpi si rovesciavano sulla pianura friulano-veneta, arrivò anche la disfatta di Caporetto.

Gli Arditi, assieme ad altri reparti, resistettero il più possibile, ma alla fine, sebbene mai sconfitti dagli Austroungarici, dovettero anche loro ripiegare sulla linea del Monte Grappa e del Fiume Piave.

Il nemico, pregustando la vittoria (sui treni che li portavano al fronte i soldati austroungarici avevano scritto "Morgen nach Rom", "Domani a Roma") si lanciò all'attacco con una forza ed una violenza mai dispiegata prima. L'offensiva si articolò in due fasi. La prima dal 10 al 26 novembre e la seconda dal 4 al 26 dicembre del '17. La linea del fronte vacillò ed, in alcuni punti, cedette.

Fu in quei tragici, terribili giorni che la Nazione intera ritrovò unità e fermezza. Cadorna, colpevole della rotta di Caporetto fu destituito dal Comando (vigliaccamente cercò di attribuire la responsabilità della disfatta ai soldati e non al suo sciagurato comportamento). Al suo posto, alla testa delle nostre Truppe, fu nominato il Generale Armando Diaz che, anche migliorando le condizioni di vita dei soldati, risollevò il morale, riuscendo ad infondere coraggio e volontà di resistere.

Esiste una celebre fotografia che si trova su molti libri di storia; si vede un muro di una casa diroccata a Sant'Andrea di Barbarana, vicino al Piave, con scritto "Tutti Eroi! O il Piave o tutti accoppati!".

(…) "No! Disse il Piave. No! Dissero i fanti!

Mai più il nemico faccia un passo avanti!

Si vide il Piave rigonfiar le sponde

E come i fanti combattevan l'onde (…)

Rosso del sangue del nemico altiero,

il Piave comandò "indietro va, straniero!"" (…)

da "La Leggenda del Piave" di E.A. Mario

Alle fine di quello spaventoso inverno, fatto di paura, di morti, di dispersi e di popolazioni civili in fuga dalle regioni invase dal nemico, si riuscì a bloccare l'avanzata dell'Impero Austroungarico.

Ma questo, sebbene a sua volta provato da ormai quasi cinque anni di guerra su più fronti, riuscì a raccogliere le forze per dare un ultima e decisiva spallata al fronte italiano.

"L'attacco dovrà essere fatto a guisa di uragano, con un avanzata ininterrotta sino all'Adige, i nostri primi obiettivi saranno le città di Treviso e Venezia"

Dal discorso del Feldmaresciallo S. Boroevjc von Bojna, Comandante III° Gruppo Armate Austroungariche del Piave, ai suoi ufficiali ed alle sue truppe. – Villa Ancillotto di Spinè di Oderzo – 13 giugno 1918.

E fu la cosiddetta "Battaglia del Solstizio". Se gli Austroungarici e i loro alleati tedeschi fossero riusciti a sfondare, per l'Italia sarebbe stata la fine. Quando tutto sembrava davvero perduto per gli Italiani, furono proprio gli Arditi (ma tutti i reparti Italiani diedero mostra di abnegazione e valore) i primi a dare l'esempio, a battersi, a resistere, a contrattaccare e rigettare nel fiume le teste di ponte delle truppe nemiche.

G.B. Palombo fu un prima linea, si batté con coraggio e disperazione. Sul manico del suo pugnale d'Ardito si allungò la fila di tacche per ogni cecchino nemico ucciso. Fu coinvolto in scontri corpo a corpo con armi bianche. Per anni avrebbe raccontato ai figli di aver visto le acque del fiume Piave tingersi di rosso per lo spaventoso tributo di sangue. Ma resistette.

Per inciso si ricorda che durante questa battaglia, il 19 giugno, sopra il Montello presso il Piave, venne abbattuto con il proprio aereo l'asso dell'Aviazione Italiana Francesco Baracca. Il suo simbolo era un cavallino nero rampante. Nel 1924, durante una gara automobilistica in Romagna, un certo Enzo Ferrari, giovane ed emergente pilota e costruttore di autovetture da corsa, fu avvicinato dalla madre dell'eroico ufficiale pilota, la signora chiese di adottarne lo stemma al fine di perpetuarne il ricordo. Ancora oggi quel Cavallino Rampante è il simbolo dell'Italia che miete successi nel Mondo. Quell'Enzo Ferrari era proprio il fondatore della mitica Scuderia automobilistica di Maranello.

Il 27 giugno, mentre la battaglia si avviava verso la sua conclusione, ed ormai emergeva chiaramente che gli Italiani avevano compiuto un altro miracolo, respingendo (stavolta definitivamente) il nemico, il Comandante in Capo del XXVIII Corpo d'Armata appuntava, sul petto di G.B. Palombo, la Croce di Guerra per gli atti eroici compiti durante i furiosi combattimenti.

La guerra non finì con la "Battaglia del Solstizio". Continuò per altri mesi, con altri combattimenti ed altro sangue e sofferenze. Finché il 24 ottobre 1918, il Gen. A. Diaz lanciò l'offensiva che si concluse vittoriosamente a Vittorio Veneto con il crollo del secolare Impero degli Asburgo che si disgregò in numerosi staterelli.

Il 3 novembre 1918, dall'Incrociatore "Audace", i Bersaglieri sbarcarono a Trieste. G.B. Palombo raccontava spesso ai figli come, dal molo al quale avevano attraccato (e che ancora oggi porta il nome della storica nave da guerra), tra ali di folla acclamante, si riversarono nella centralissima "Piazza Grande" che prese il nome di "Piazza Unità d'Italia", ove vennero letteralmente sommersi dai Triestini tripudianti in lacrime; i quali non ci pensarono due volte a "spiumarli" delle celebri piume di gallo cedrone che ancora oggi adornano i loro copricapi.

7 - Franz Joseph, Imperatore d'Austria e Re d'Ungheria alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. 8 - Cartolina di Trieste dei primi anni del '900 9-Banconota da 1000 corone austroungariche 10 - Banconota da 1000 marchi tedeschi

Tra i ricordi di G.B. Palombo, amorosamente conservati dalla figlia, c'è infatti un cappello da bersagliere privo del "piumetto".

I triestini, a ricordo di quei fatti, hanno voluto porre sulle rive, proprio di fronte a Piazza dell'Unità d'Italia, una statua bronzea in grandezza naturale, di un Bersagliere che corre verso la città con il Tricolore al vento.

Furono moltissimi i giovani italiani originari delle cosiddette "Terre Irredente" che passarono il confine ed andarono a combattere con l'Italia contro l'Austria, pur sapendo che, se catturati, sarebbero stati passati per le armi come traditori in quanto sudditi Austoungarici. Dai ricordi di G.B. Palombo emergono molti di questi sconosciuti soldati, che conobbe al fronte ed assieme ai quali combattè nel Regio Esercito. Trieste ha dedicato una piazza ai "Volontari Giuliani" che pagarono un'alto tributo di sangue. Si ricordano, tra gli altri, i trentini Fabio Filzi e Cesare Battisti, impiccati dagli Austriaci nel castello del Buonconsiglio a Trento, i triestini Emo Tarabocchia, Guido Brenner, gli scrittori Scipio Slataper e Carlo Stuparich ed il Comandante di Sommergibili istriano Nazario Sauro. Alla sua tragica ed avventurosa figura di patriota Trieste ha eretto uno statua in riva la golfo. Il coraggioso istriano, nativo di Capodistria, fatto prigioniero dagli Austriaci, riconosciuto e giustiziato a Pola, è ritratto come se fosse sulla tolda della propria nave, avvolto nel mantello d'ordinanza mentre guarda pensieroso la sua Istria perduta. Durante la Seconda Guerra Mondiale il grandioso monumento a lui dedicato nella sua città natale a Capodistria fu fatto saltare in aria dai Nazisti. Evidentemente, la figura di questo patriota dava fastidio, e continua a darlo visto che nessuno dei regimi e degli Stati che si sono succeduti in Istria, dalla Yugoslavia all'attuale Slovenia, hanno ritenuto opportuno ricostruirlo.

(Foto di G. Pavat: Monumento all'eroe istriano Nazario Sauro a Trieste)

Ma per l'Italia il prezzo pagato per la vittoria fu elevatissimo. 650.000 morti, 1.050.000 feriti di cui mezzo milione di mutilati tra i soldati. Le vittime tra i civili furono oltre 100.000, inoltre bisogna aggiungere i 500.000 decessi dovuti alla pandemia di "Febbre Spagnola" che infuriò negli ultimi mesi del conflitto.

Per non parlare poi dei danni materiali allo Stato e quelli psicologici e sociali per la popolazione. Per il nostro paese iniziarono anni incerti, difficili. La crisi economica, le tristi condizioni in cui versavano i reduci che tornavano alle proprie case, le ingiustizie perpetrate nei confronti di chi aveva combattuto e sofferto da parte di chi invece si era imboscato, le promesse non mantenute da parte di una classe politica che aveva mandato al massacro intere generazioni, oltre alla situazione internazionale, concorsero al crollo dello Stato liberale e costituzionale.

Proprio per questo G.B. Palombo, una volta smobilitato e tornato a Villa Santo Stefano (la figlia Sonia conserva anche il "Foglio di Congedo Illimitato" rilasciato dal Ministero della Guerra tramite il Comune di Villa S. Stefano che porta la data del 30 agosto 1919) prese la decisione di ripartire per gli Stati Uniti, poco prima che Gabriele D'Annunzio, alla testa proprio degli Arditi, compisse l'Impresa di Fiume.

Carico di gloria, con le sue decorazioni, Palombo si lasciava alle spalle la spaventosa crisi economica che imperversava nell'Italia del Dopoguerra. Era giovane, forte, era passato attraverso esperienze terribili, aveva visto la morte in faccia decine e decine di volte, nulla poteva spaventarlo. Nemmeno l'dea di una nuova vita in un Paese immenso e straniero. Sbarcò a New York, da dove era partito quasi 5 anni prima, e dopo qualche anno acquisì la cittadinanza statunitense.

Ma G.B. Palombo non recise mai il cordone ombelicale che l'univa alla propria Patria, per la quale aveva combattuto, e con la propria Terra, con Villa Santo Stefano. Vi ritornerà definitivamente negli anni '60. Nel 1968, il Presidente della Repubblica Saragat lo insignì del titolo di "Cavaliere di Vittorio Veneto" per i meriti acquisiti partecipando, in difesa dell'Italia, al conflitto di 50 anni prima.

11 - Cartolina degli anni '50 con le Sorgenti del Fiume Piave 12 - Vecchia cartolina con il Monumento ai Caduti di Villa S. Stefano 13 - Piazza Unità d'Italia a Trieste 14 - Monumento al Bersagliere a Trieste

All'inizio si è parlato della Storia con la "S" maiuscola. Quella che modifica i destini di interi Popoli e Nazioni, figuriamoci quelli dei singoli. Ma a volte possiamo comprenderla meglio proprio basandoci sulle memorie, sui ricordi di questi singoli. Ed ecco che, anche quando questi protagonisti non ci sono più, quando non possiamo più sentire dalla loro viva voce il racconto di quelle vicende lontane nel Tempo, allora continuano a parlare per loro non più ricordi mentali affabulati dalla parola, ma i loro ricordi materiali. Gli oggetti che sono appartenuti ai nostri nonni, ai nostri padri. Che risalgono a tanto tempo fa. E' quello che fanno gli archeologi, quando disvelando le vestigia di antiche civiltà, fanno parlare i loro protagonisti attraverso gli oggetti, magari di tutti i giorni, che tornano in superficie. E questo vale anche per periodi più vicini a noi.

Ecco perché dobbiamo conservare con cura, con rispetto, le testimonianze dei nostri avi.

Le medaglie, gli attestati, elementi dell'uniforme, ma anche lettere, scritti, addirittura vecchissime banconote ormai fuori corso aventi un semplice valore storico, tutti i ricordi di G.B. Palombo sono stati conservati dalla figlia Sonia.

Ed alla testimonianza tangibile di quei tempi di guerra, leggendo tutti quei documenti ormai storici, oltre ai ricordi dei racconti del padre, si è sommato il desiderio di saperne di più, di conoscere i luoghi in cui G.B. Palombo si trovò a combattere.

Ai viaggi turistici nel Friuli-Venezia Giulia, a Gorizia, a Redipuglia, a Trieste, sul Piave, a Vittorio Veneto, si sono affiancate lunghe ricerche su libri e pubblicazioni specializzate sulla Grande Guerra.

Nelle motivazioni della concessione delle decorazioni e degli attestati di benemerenza ricevuti da G.B. Palombo, per ovvi motivi di sicurezza e segretezza militare non viene mai specificata la località esatta del fatto d'armi, ma un generico e laconico "Zona di Guerra".

Ma, fortunatamente, su alcuni di questi stessi documenti è riportato il Reparto in cui era stato inquadrato; il IX Battaglione Bersaglieri Ciclisti, appartenente al XXVIII Corpo d'Armata, parte integrante della "Invitta" Terza Armata.

La Terza Armata era guidata dal valoroso Generale Emanuele Filiberto Duca d'Aosta, il quale, durante la "Battaglia del Solstizio", fece schierare il XXVIII Corpo d'Armata, con il suo IX Battaglione, in posizione leggermente arretrata lungo la fascia difensiva di Pero-Monastier-Meolo. Poi, verso il 19 giugno, lanciò XXVIII Corpo d'Armata in un furioso combattimento lungo l'argine del fiume a Zenson di Piave. In quel settore erano schierato il XXIII Corpo d'Armata Austroungarico del Generale von Csicserics, che aveva gettato numerose passerelle sul fiume.

Zenson di Piave. Ecco la località esatta dei sanguinosi scontri all'arma bianca, dei cecchini austriaci, dei ponti di barche gettati sul fiume e fatti saltare in aria, per fermare l'avanzata nemica, con spericolate azioni di sabotaggio. La località in cui si battè con valore G.B. Palombo e per cui venne decorato con la Croce di Guerra.

A Zenson, nel basso Piave, già durante l'offensiva del 10/26 novembre 1917 gli scontri furono sempre particolarmente violenti e feroci. Già allora l'Esercito Austroungarico era riuscito a creare una "testa di ponte" sulla riva destra del fiume proprio nei pressi di quella località. "Testa di ponte" neutralizzata proprio dagli Arditi nella seconda fase della battaglia, quella dal 4 al 26 dicembre dello stesso anno.

Oggi, a guardare le placide anse del fiume Piave, si stenta a credere che lì, circa 90 fa, si scatenò l'inferno in Terra. Eppure, se rimaniamo fermi lungo l'argine, in silenzio, possiamo ancora percepire tutto il dolore, il dramma di quei terrificanti e lontani avvenimenti.

A ricordarlo sono poi i numerosissimi monumenti, cippi e targhe commemorative che costellano la Bassa Pianura Veneta e, più a est, gli immensi Sacrari di Redipuglia, Oslavia ed altri ancora. Ove riposano tanti ragazzi immolatisi lassù.

Ragazzi schierati da entrambi i lati del fronte. Il pensiero, infatti, deve andare anche a quanti si batterono, per scelta, per beffardo destino o per costrizione, dall'altra parte della barricata. Come il nonno di chi scrive. Il quale italiano d'Istria e quindi suddito Asburgico, venne chiamato alle armi, con l'ultima classe di leva, appena diciassettenne.

Qualche tempo fa,uno degli ultimi cavalieri di Vittorio Veneto ancora in vita, Carlo Orelli (classe 1894), durante un ricevimento al Quirinale, davanti alle più alte cariche dello Stato così si espresse:

"Eravamo legati alla nostra Bandiera, alla nostra divisa, ma non c'era astio ideologico, non c'era volontà d'annientamento del nemico. Dalla guerra non ho avuto alcun vantaggio, ma non ho combattuto per un vantaggio, per nulla che non fosse il nostro Paese".

Simili, alte parole si attagliano perfettamente anche a Giovan Battista Palombo.

Che oggi riposa nel cimitero di Villa S. Stefano. Sulla lastra di marmo nero del proprio sacello volle una sua fotografia di settantanni prima in divisa da Ardito e, come epitaffio, la frase: "Qui riposa l'Italo-Americano, Bersagliere Ciclista Ardito Fiamme Rosse, Cavaliere di Vittorio Veneto Giovan Battista Palombo"

Una frase secca, concisa, l'insieme dei suoi titoli e qualifiche. Non potrebbe emergere più chiaramente il profondo amore per la propria Patria, intesa nel senso antico, latino, del termine. Ovvero la Terra dei propri Padri, la Terra natia. Un amore che ha segnato una vita intera.

 

 

 

foto: 1...6 - 8...11 collezione privata Palombo - Pavat

foto: 14  G. Pavat

(30 ott. - agg. 9 nov 2005)

 

www.villasantostefano.com

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