C’era una volta il mostro
FRANCESCO LUCARINI, alias BOTTICELLI
l’Hannibal delle Pocara

di Ernesto Petrilli

Amavo, da bambino, nelle lunghe serate invernali senza tv ascoltare, seduto accanto al fuoco, i racconti della memoria orale santostefanese narrati da mia nonna e da mia madre.

I preferiti erano quelli sui briganti: Gioia, Andreozza, i tesori della Vallevona e la battaglia di Campo Lupino del 1867. Seguivano le vicende della battaglia del maggio ’44 coi tedeschi in fuga e l’arrivo scomposto e doloroso dei marocchini "colle trezzelle". Quella, però, che mi piaceva ascoltare di più era la storia di Utt’c’gli’ che, con espressione oggi in voga, si può definire "il mostro delle Pocara", e di cui si diceva che fosse il nonno di Sor Checco.

Grazie ai documenti di archivio posso fornirvi, ora, il resoconto dettagliato di quella orribile tragedia, liberando il povero antenato di Sor Checco dalla nomea di assassino avendo egli ricoperto il ruolo di vittima e non di carnefice.

     PROLOGO

9 giugno 1834

Nella sacrestia vuota e silenziosa della chiesa parrocchiale, trattenendo a stento le lacrime, l’anziano parroco Luigi Maria Fiocco vergò lentamente sul Liber Mortuorum le seguenti parole:

Angelo, figlio di Pasquale Iorio, di anni 13, fanciullo di ottimi costumi, dedito massimamente al servizio della Chiesa, proditoriamente, impietosamente e senza alcun motivo fu ucciso nella Contrada fuori del paese detta Pocara o Vado Macellaro, il 26 maggio 1834. Dopo 15 giorni fu rinvenuto, in detta Contrada, fatto in pezzi, colla testa recisa e, raccolti i pochi avanzi del suo corpo furono religiosamente riposti in una cassetta e, condotta in chiesa, gli furono fatti i funerali con la massima pompa funebre, e con grande pianto di tutto questo mio Popolo e per i suoi angelici costumi e per la fierezza (crudeltà) non mai vista dell’uccisore.

Ciò accadde nel giorno 9 giugno del ritrovamento dei suoi avanzi e in detto giorno gli fu data onorevole sepoltura nel tumulo dei fanciulli nella chiesa di Santa Maria Assunta in Cielo.

 

     PRESENTAZIONE

Il mio nome è Francesco Lucarini, da tutti detto Utt’c’gli’, sono nato il 24 di febbraio del 1784 da Salvatore fu Nicola e da Teresa Viella fu Pietro. Ho sposato Teresa Toppetta, sorella di quel bifolco di Biagio, e da essa ho avuto tre figli, due femmine e un maschio. Ho una sorella, moglie di Marco Palladini, che ha sei figli, il primo dei quali si chiama Benedetto. Di mestiere faccio il contadino e ho scontato qualche anno di pena alle Terme di Roma per un duplice omicidio commesso nel tempo in cui mi ero dato alla macchia con alcuni compagni.

Dopo l’amnistia ho fatto ritorno a S. Stefano ove abito in vocabolo la Portella, proprio accanto a Pasquale Iorio della cui figlia, Maria Vincenza, mi sono invaghito a tal punto che non riesco più a trovar quiete né notte né dì. La smania di possederla è sì forte che ogni volta che la vedo cerco in ogni maniera di costringerla a giacere con me.

Sono sicuro che riuscirei nell’intento se non fosse per quella scrofolosa pastenese di sua madre, Maria Giuseppa, che mi odia e qualche mese fa si è addirittura querelata contro di me accusandomi di ingiurie e minacce, ma ho giurato sul Santissimo Sacramento che gliela farò pagare cara "stricherò tutta la famiglia e mi godrò quella verginella fino a quando ne avrò voglia".

 

     Quel maledetto 26 maggio 1834

La mattina del 26 maggio, con tremendi propositi che mi avvelenavano il cuore, uscii dalla Portella e, passando Sottall’Orta, proseguii per Valle Fredda dove Pasquale possedeva una piccola vigna. Giunto in vocabolo I Vitelli incontrai suo figlio Angelo, somigliante "spiccicato" alla sorella Vincenza, che stava cercando, tutto affannato, alcuni maiali neri sfuggiti alla sua custodia. Lo afferrai per un braccio, lo strattonai ben bene e poi, legatogli il polso della mano destra con un mio fazzolettone, lo costrinsi a seguirmi. Mentre attraversavamo prati e fossi gli gridai rabbioso che "se la madre non mi cassava la pretesa querela, non l’avrei più rimandato a casa". Così lo portai per circa due miglia, passando per la Stretta Cupa e San Giovanni, fino alla zona detta le Pocara o Vado Macellaro dove cresceva "un forte e lungo macchione". Allora lo strinsi forte e spogliatolo lo possedetti pensando di possedere la sorella e poi lo strinsi alla gola e "quando stava per cessare di vivere, con due colpi di accetta gli tagliai la testa, gettando in esso macchione il corpo che servì di pasto ai cani e volpi. La testa, invece, la trasportai a circa 50 passi dal corpo, sotto un piccolo carpine tagliato nel medesimo macchione e la coprii di felci".

(A questo punto, però, la tradizione popolare differisce dai documenti e parla di un rito cannibalesco compiuto dal Botticelli "che c’cacciau’ le fritt’ e s’ l’ cu’ciu’ agli’ pad’llucci’".)

Tutto quel sangue sembrava avermi ubriacato e rinvigorito. Partii di buona lena da quel posto e feci ritorno in paese. A casa cercai di pulire con la calce la mia camicia sporca di sangue, ma poi lasciai perdere e, come una furia, andai in casa degli odiati vicini. Qui trovai sola Maria Vincenza alla quale "richiesi l’onore", ma al suo rifiuto l’assalii con l’accetta. La perfida riuscì ad infilarsi sotto al letto e, gridando come un’ossessa, fece accorrere la madre ed un giovane, Andrea Buzzolini, che riuscì a disarmarmi non prima però che ferissi con l’accetta la stramaledetta Maria Giuseppa alla spalla sinistra". Fui costretto a fuggire ed a vagare per la campagna in cerca di un rifugio, quando, a Scorzarini, mi imbattei in Pasquale Iorio e nei suoi figli Vincenzo e Stefano che mi assalirono a colpi di ronca ferendomi gravemente alla spalla e alla gamba sinistra.

Qualche tempo dopo arrivarono i gendarmi e mi trasportarono nella caserma dei Bersaglieri. Dopo qualche giorno, su insistenza del comandante della brigata di Ceccano, Luigi Capobianchi, confessai l’omicidio di Angelo Iorio, e svelai il luogo dove trovare i suoi resti.

IDDIO ABBIA PIETA’ DI ME.

 

     EPILOGO

Dopo la confessione del Botticelli di "aver fatto tre pezzi dell’ucciso e averli separatamente sepolti ne’ confini di Giuliano e S. Stefano" la Forza, coadiuvata da circa trenta individui addetti alla Confraternita della Buona Morte, partì per il luogo indicato e "rinvenne con stupore poca quantità di ossa spolpate e di panni intrisi del sangue del misero ucciso".

L’assassino, le cui condizioni di salute parevano disperate, fu affidato alle cure del dottor Perotta al quale si raccomandò il massimo impegno a tenerlo in vita affinchè potesse essere giustiziato dinnanzi al popolo. Fu raccomandato altresì al Priore di S. Stefano, Francesco Leo, definito dal Governatore di Ceccano, Francesco Pompili, "villano ignorantissimo ed incapace" di fornire giornalmente al detenuto una razione e mezza di cibo per il grande indebolimento causatogli dalle ferite.

A metà luglio Botticelli fu trasferito nelle carceri di Ceccano e, poi, a Frosinone dove il 4 ottobre, con sentenza del Tribunale di Prima Istanza, fu condannato "a perdere la testa sul palco nella propria patria S. Stefano". Tale condanna fu confermata in appello e resa esecutiva dal Tribunale della Sagra Consulta il 24 febbraio 1835.

La data dell’esecuzione fu fissata a martedì 24 marzo e per il povero Priore di S. Stefano iniziò un periodo di attività frenetica onde far fronte alle numerose richieste del Governatore di Ceccano "si rende indispensabile che in detto Comune sia pronto un locale per collocare circa 80 Bersaglieri, una scuderia per porvici almeno 15 cavalli e degli alloggi per ufficiali civili e militari nonché per i confortatori… e siccome in S. Stefano non vi sono prigioni sarà indispensabile rendere atta una camera della caserma de’ Bersaglieri… procederà parimenti a provedere perché non manchi in quel giorno né pane, né carne, né vino e che una parte della Forza sarà in S. Stefano la sera di domenica 22 per rimanervi fino all’esecuzione della sentenza… raccoglierà la nota di tutti i parenti del condannato Lucarini e la rimetterà al più presto a questa delegazione giacchè s’è deciso di tradurre nelle carceri di codesto governo tutti i più prossimi parenti del condannato e farli rimanere fino alla mattina del 25 mese suddetto… si farà indicare e me lo significherà quale sia la migliore via che da questo capoluogo si va in S. Stefano e se la medesima è strada rotabile giacchè sarebbe un imbarazzo ben forte se si dovesse far trasportare a spalla la macchina letale da Giuliano a Villa… sentirà sulle vettovaglie che con facilità si rinvengano in quella terra onde provedere a qualche volontà che possa venire al condannato…"

Francesco Leo, nonostante lo scetticismo del Governatore "quel priore è ignorantissimo e sul segretario non può contarsi", riuscì a risolvere al meglio tutti i problemi connessi all’esecuzione e infatti il 20 marzo scrisse a Ceccano… "per il trasporto della "macchina letale" (ghigliottina) e del "Mastro di Giustizia" (Mastro Titta) i carri possono passare, per venire a S. Stefano, per i piani di Prossedi tenendo poi la strada delle Pigne, oppure quella del Colle che sarebbe anche buona; il calderaro G.B. Troccoli di Frosinone ne è espertissimo di detta strada perché conduce sempre le pietre di mola in questo territorio… la scuderia per 20 cavalli si trova ma non unita. Ho trovato il solo fieno, ma biada non vi è affatto né semola… per alloggiare i 80 Bersaglieri conviene che ne fo tenere due per famiglia delle più comode… l’alloggio per i confortatori, impiegati e persone di servizio, ufficiali e marescialli li farò somministrare dalle precedenti famiglie di quella terra… la Caserma di sotto servirà per il condannato e la Forza… la chiesa sarà pronta per la conforteria… la legna stà pronta come anche i lumi, le bettole saranno in ordine e le osterie e la pizzicheria… rapporto alla carne ho trovato persona che fornisce carne vaccina e castrato… il parmigiano lo farò venire per il solo condannato, come il butirro e le paste. Il rosolio e caffè vi sarà a S. Stefano come anche il pane".

Così lunedì 23, "nonostante la dirottissima pioggia dei dì antecedenti" gli 80 Bersaglieri, al comando del capitano Palombi, il Mastro di Giustizia e il condannato stesso giunsero a S. Stefano. Botticelli "dopo un breve sfogo sui motivi che lo avevano indotto ai replicati (ripetuti) suoi delitti si pose quindi con tutta rassegnazione fra le braccia dei confortatori. Dopo aver passato in orazione tutta la notte, previa una generale confessione si comunicò la mattina del dì 24, ed un’ora prima del mezzo giorno rassegnatamente subì la condanna, pronunziando il nome Santissimo della Gran Madre di Dio".

     FINIS

Mercoledì 25 marzo

Fu con intimo peccaminoso piacere che l’Arciprete Fiocco, dopo aver aperto il Liber Mortuorum alla pagina 65 retro vergò le seguenti parole:

"Francesco Lucarini fu Salvatore condannato dalla giustizia alla pena capitale lasciò questa vita nell’anno del Signore 1835 addì 24 marzo nell’hora sesta cum dimidia, ebbe la testa tagliata dal carnefice previa Confessione e Santissima Comunione. Ebbe assistenza prima della sua decapitazione da me infrascritto e dal Rev. Padre Sordini della Congregazione del Santissimo Redentore. Per gloria di Dio aggiungo che il detto Lucarini è morto con grandissima contrizione.

Il suo cadavere nello stesso giorno fu sepolto nella vecchia chiesa di San Pietro Apostolo, all’età di 53 anni 3 mesi e 24 giorni."

 

Quella di Botticelli fu la 303° esecuzione capitale eseguita da Mastro Titta, al secolo Giovambattista Bugatti, boia di Roma dal 1796 al 1864.

 

 

 

 

Esecuzione capitale del "boia di Roma"

 

Casacca e cappuccio di Mastro Titta

4.10.14

 
 

www.villasantostefano.com

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