come eravamo

IN RICORDO DI MEMMO ZA' JUCCIA

Domenico Rossi

di Conte Mancinella

Non mi sono mai piaciuti i panegirici, i coccodrilli giornalistici e i fantasmagorici palloncini colorati che affollano le cosiddette "riviste paesane" nelle quali chi muore era una sorta di supereroe in odore di santità, chi vive viene additato a modello da ammirare ed imitare, chi amministra la cosa pubblica è descritto come un novello Giano bifronte, don Sturzo da una parte e De Gasperi dall'altra, e chi non ha fatto e non farà mai niente potrà pur sempre andar fiero per qualche foto d'annata, pubblicata sulla rivista, che lo ritrae, pensate, al fianco del sindaco alla commemorazione dei Caduti mentre canta "il Piave mormorò".

Domenico Rossi. Memmo za Juccia

Il mio ricordo, amaro e struggente, di Memmo za' Juccia, pertanto, non seguirà questi patetici e menzogneri cliché della stampa alla "viva il parroco", ma obbedirà ad un solo parametro di riferimento: ricordarlo così com'era, come se fosse ancora tra noi, con quella faccia da uomo buono che nascondeva una sottile vena di canagliesca ironia e che per anni ci ha fatto ammattire con le sue trovate, le sue invenzioni e le sue burle. Noi tutti eravamo a conoscenza di questa sua predilezione a prendersi gioco della nostra curiosità credulona e babbea, ma puntualmente venivamo gabbati dalla pigra nonchalance con la quale ci propinava le sue studiate polpette avvelenate. Un giorno -per raccontare alcune delle sue innumerevoli fregature - adocchiò quattro vecchietti che giocavano a carte. Si avvicinò con apatica indifferenza e, approfittando di una pausa del gioco, sibilò che "questo odiato Governo così bistrattato, qualcosa di buono di tanto in tanto fa. Avete saputo che per i pensionati è stato previsto un taglio di capelli e due barbe gratis al mese?". "Come sarebbe a dire?", ciancicò uno dei quattro. "Sarebbe a dire - chiarì Memmo - che presentando al barbiere il libretto di pensione, ognuno di voi potrà usufruire gratis di ciò che vi ho detto".

L'indomani, all'alba (a Villa le file hanno inizio ben prima del canto del gallo) una folta schiera di pensionati acciaccati e insonnoliti, con tanto di libretto di pensione in evidenza, si accalcò davanti al salone di Nino, il barbiere, che, in sciagurata combutta con Memmo, aprì i cuori alla speranza, confermando che "... sì, anch'io ho saputo di questa cosa, ma ancora non è esecutiva in quanto si attende da un momento all'altro l'emanazione della canonica ordinanza applicativa che dovrebbe arrivare al Comune, se non è già arrivata...". La processione si spostò all'istante negli androni del Comune dove un allibito impiegato, conosciute le circostanze della trappola escogitata, gelò i già infreddoliti pensionati con un sarcastico "vi siete fatti fregare da Memmo un'altra volta!". "Macché Memmo e Memmo - s'inferocì uno degli astanti - siete voi a nasconderci le carte governative, siete voi fannulloni che state qui a scaldare le poltrone e che per pagarvi lo stipendio hanno dovuto tagliare la Macchia!". L'assembramento si sciolse ingloriosamente e rabbiosamente con i soliti mugugni contro la solita burocrazia sorda e insensibile ai bisogni della gente...

I suoi polli Memmo se li sceglieva con cura. Alfredo era uno dei suoi bersagli preferiti. Eravamo seduti al bar (cos'altro si può fare a Villa?) a straparlare di sport, politica e gossip, quando Memmo se ne uscì con una strabiliante rivelazione: era stata programmata una gita eno-gastronomica, sotto mentite spoglie di incontro culturale, in Jugoslavia. Il prezzo era stato fissato in 150.000 lire, di cui 5.000 a carico del viandante e il resto sarebbe stato corrisposto da una non meglio precisata AIAT (Associazione Italiana Amici di Tito). Partenza il 17 agosto da Ancona e arrivo a Spalato a bordo di un traghetto della compagnia jugoslava. Già il notevole scarto tra la quota del gitante e l'integrazione a carico dell'Associazione avrebbe dovuto insospettire anche il meno accorto tra di noi, ma non Alfredo che, dopo aver drizzato le orecchie, sospirò: "Che occasione irripetibile, pensate che in Jugoslavia le giacche di renna te le buttano appresso! Ma sicuramente mia moglie non mi ci manderà...". Il perfido Memmo rincarò all'istante la dose: "c'è rimasto solo un posto, non so fino a quando potrò aspettare una tua conferma, ma dopo il 15 agosto sarò costretto a favorire uno dei numerosi richiedenti".

Arrivò il giorno fatidico. Villa era in festa, la processione con la Madonna dell'Assunta era appena iniziata ed io mi trovavo proprio a casa di Memmo, invitato a pranzo per le tradizionali fettuccine al sugo di capra. Suona il campanello - chi sarà? - apro la porta, e un trafelatissimo Alfredo, evitando i convenevoli di rito, urlò "mi ci manda, Memmo, mia moglie mi ci manda!". Quella volta Memmo traballò, impallidì, tergiversò, ma alla fine dovette rivelare all'esterrefatto promesso-gitante a caccia di giacche e giubbotti di renna, che era tutto uno scherzo. Alfredo non la bevve (e come avrebbe potuto dopo aver promesso mari e monti alla moglie per avere il suo agognato "via libera" alla gita?), e, con una mestizia pari alla sua stizza, farfugliò: "Dì, piuttosto, che non mi ci vuoi portare e che ti sei rivenduto il biglietto!" Seguirono attimi di imbarazzati silenzi e di ultimi, disperati tentativi di Alfredo di strappare a Memmo l'agognato biglietto Ancona-Spalato, andata e ritorno, per cinquemila misere lirette. Invano.

L'apoteosi di Memmo, ad ogni buon conto, si consumò sulla spiaggia di Sabaudia, dove eravamo soliti andare per evitare la famigerata "fettuccia" di Terracina, un chiacchieratissimo, mortifero rettilineo che popolava di incubi le nostre notti. Eravamo partiti di buon mattino - la solita ciurma di amici squattrinati e derelitti - e ci eravamo accampati sulla sabbia rovente, senza uno straccio di ombrellone o di sedia a sdraio. I soliti preliminari, le solite corsette sul bagnasciuga, le solite partite a tamburello, la solita noia. Ad un certo punto arrivò una famigliola, padre, madre e due baldi giovincelli che con fatica immane trasportavano un enorme cocomero (mai visto in vita mia un cocomero così grande). Scavarono una grande buca, vi depositarono il cocomero ricoprendolo di sabbia per mantenerlo al fresco. La mattinata trascorse alla svelta senza grandi novità; soltanto il passaggio di due brutti ceffi, due metallari-coatti, con tanto di catene e croci sul petto, aveva attirato la nostra pigra attenzione.

La tragicommedia, invece, ebbe inizio all'ora di pranzo. Mentre mangiavamo i nostri scricchiolanti panini, per via della sabbia che li aveva ricoperti a mo' di parmigiano, notammo un frenetico affannarsi dei componenti della famigliola di cui sopra alla ricerca del cocomero gigante. Sotto l'ombrellone non c'era - "eppure lo avevamo sotterrato qui"- in prossimità dello stesso nemmeno. In breve, un notevole tratto di spiaggia venne arato, scavato, dissodato: niente. Del cocomero si erano perse le tracce. Ma come era possibile? Un cocomero di quella portata... Iniziarono a far capolino i primi sospetti, le prime occhiatacce nei nostri confronti, le prime insinuazioni verbali, i primi curiosi che iniziarono a radunarsi intorno alla famigliola inviperita che non faceva ormai mistero sugli indiziati del furto: noi. Quando la schiera di curiosi aveva assunto le dimensioni di folla, Memmo decise che era giunto il momento di prendere il toro per le corna. Si avvicinò all'assembramento, seguito dalla nostra curiosità, iniziando con fiero cipiglio una epocale arringa difensiva. "Non c'è bisogno certamente della zingara - esordì nell'improvviso silenzio sceso nella calca - per indovinare che i sospettati del furto siamo noi, ma vi sbagliate. Noi siamo persone perbene, forse un po' caciaroni, ma ladri no. Respingiamo con sdegno, pertanto, le vostre non troppo velate accuse".

E mentre ripercorreva i momenti topici di quella giornata, gli si accese all'improvviso una lampadina investigativa, in grado di dissipare ogni dubbio residuo: "Un momento! - s'infervorò Memmo - ad un certo punto sono passati due brutti ceffi, due avanzi di galera, uno con una grossa collana di ferro al collo, l'altro con una croce come quella di monte Cacume. Si sono fermati, hanno dato un'occhiata molto interessata sotto l'ombrellone, poi li abbiamo persi di vista. Secondo me...". Memmo non riuscì a portare a termine il suo rischiosissimo j'accuse poiché il circostanziato identikit era l'immagine sputata di quei due metallari-coatti che, numi d'Olimpo, si erano nel frattempo mischiati alla folla, proprio alle spalle di Memmo, pronti a sbranare il nostro incauto capo-ciurma. Dai nostri ammiccamenti e dai nostri grugniti Memmo dedusse che qualcosa non quadrava. Si interruppe, si voltò, sbiancò, incrociò lo sguardo assassino di quei due tizzoni d'inferno, ma non perse la sua freddezza." Vi stavo parlando di quei due. Bene, poi sono passati altri due....". Una generale risata omerica pose fine all'arringa memmiana, che si concluse senza vinti né vincitori. Ma la vexata quaestio non finì lì, perché la famigliola, arciconvinta della nostra colpevolezza, temeva che noi aspettassimo la loro partenza per gozzovigliare con il cocomero da noi nascosto da qualche parte. Ebbe inizio, pertanto, un sottile gioco psicologico di attesa che si concluse alle prime luci della sera con la nostra decisione di abbandonare il campo di battaglia, incalzati dalle ultime contumelie della famigliola derubata, ancora intenta a scavare nella sabbia.

Per la Storia, va detto che la scomparsa del cocomero gigante resta ancor oggi un mistero, uno dei tanti misteri dell'Italia repubblicana. Ma che fine avrà fatto? (Si attendono e si sollecitano pareri e plausibili indicazioni scientifiche al riguardo).

Memmo era questo, ma non solo. Gli volevamo bene perché, come ho detto, era un uomo buono e per me - dopo la grande tragedia che aveva colpito la mia famiglia - era diventato il mio fratellone maggiore, sempre insieme come quella volta che dichiarammo guerra ad altri due amici in una partita a briscola ("prima, seconda e bella se ci uò"). Poiché a Villa il gioco delle carte non è e non è mai stato uno svago,ma un vero e proprio scontro all'O.K. Corral, affilammo le armi e, con l'aiuto della dea bendata, vincemmo senza ricorrere alla "bella". La successiva "passatella" (in palio la solita bottiglia di coca cola) completò il nostro trionfo perché la "primiera" maggiore l'ebbi proprio io. "Mazzate e corna", sentenziò con perfida ironia Memmo, pregustando una bella bevuta ai danni degli altri due contendenti. Fu allora che mi balenò l'insana idea di vendicarmi degli innumerevoli scherzi che mi aveva propinato nel corso degli anni. Bevemmo la coca cola in tre, lasciando Memmo all'asciutto, "olmo". Per 15 lunghissimi giorni non mi rivolse la parola e successivamente non mi ha mai perdonato quell'inaspettato e crudele tradimento.

Chissà se oggi mi avrà perdonato da lassù, dove non è difficile immaginarlo - tra arcangeli, serafini e cherubini - alle prese con celestiali scherzetti ai danni di santi, beati ed affini. Memmo ci ha lasciato, ma il suo ricordo no, non ci lascerà mai.

 

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27.3.2012

 

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