IL PALAZZO DEL PRINCIPE

di Vincenzo Tranelli

Tra i vari privilegi che i principi Colonna vantavano su S. Stefano, per 4 secoli uno dei loro 27 feudi nello Stato Pontificio, c'era il monopolio della lavorazione delle olive.

Il breve di investitura baronale di Pio V del 1605 lo prevedeva espressamente e confermava le concessione fatte dai suoi antecessori. E non era cosa da poco considerata la vocazione olivicola che S. Stefano condivide da molti secoli con altri paesi limitrofi.

Il Principe oltre ad ampie estensione di oliveti che venivano concesse in enfiteusi possedeva nella piazza fuori porta un frantoio, l'unico del paese: ad esso tutti i santostefanesi erano tenuti a recarsi per macinare le olive. La situazione è ben esemplificata dal caso di Michele Tranelli, che nel 1795 ottiene dal principe Colonna una quarta di terreno montagnoso in contrada Lavina, in enfiteusi con l'obbligo del miglioramento: " sebbene in q.a terra eTerr.rio vi sia l'immemorabile obbligo e privativa di portare le olive a macinarsi nei montani dell'Ecc.ma Casa..... così anche detto Enfìteota, e suoi espressamente s'obbliga d'osservare e praticare.....".

Il palazzo durante i lavori di rifacimento della facciata

La crescita demografica e sociale che si verificò in S. Stefano soprattutto nella II metà del XVIII secolo, e il parallelo aumento delle necessità della popolazione e del territorio messo a coltura, fecero si che il vecchio e il piccolo frantoio, composto da una stanza, che a metà '700 utilizzava anche un vano di proprietà dei Passio, divenisse insufficiente a sopperire al bisogno dei cittadini e dei forestieri, per cui il principe, cedendo alle richieste ed alle passioni del popolo e del clero, il quale ultimo deteneva una grossa parte dei fondi coltivati, decise di edificare un nuovo frantoio. L'edificio fu costruito nella piazza davanti alla Porta, negli anni 80 del '700, su un terreno che Don Filippo ebbe in permuta da Don Stefano De Luca da S. Lorenzo, quasi addossato alla chiesa di S. Antonio da Padova, non più esistente, per cui non mancarono in seguito screzi con la Curia Vescovile.

Non conosciamo il costo della fabbrica, ma dovette essere notevole per l'epoca se nel 1802 si parlò di "grandissima spesa in una maniera ben degna della sua magnificenza". E la necessità del nuovo frantoio doveva essere davvero impellente se il 4 dicembre 1789 esso fu consegnato dal soprintendente Domenico Nicola Gizzi all'affittuario generale Giacinto Marchioni, quando al piano superiore "le stanze non addette al montano" non erano ancora ultimate. Al frantoio si accedevano dalla porta di sinistra, era costituito da sei stanze : "vi è la selciata in calce, e li muri son ben stabiliti ed imbiancati". Nella prima stanza avveniva lo smaltimento dell' "acqua lorda" in una chiavica "che va sotterranea per quasi tutto il tratto dell'anzi-detta piazza, e sbocca ad un fosso"; nella seconda vi era il torchio ed il pozzo; nella terza e nella quarta le due macine. Alla cisterna si accedeva nella quinta stanza, a cui faceva seguito una ben Attrezzata stalla; completava la dotazione il sottoscala ad uso dispensa e un orto.

Passarono alcuni anni e nel frattempo veniva completato l'appartamento superiore, destinato ad abitazione dei Governatori del paese, e dopo il 1816, anno dell'abolizione delle giurisdizioni feudali nello Stato Pontificio, degli affìttuari e fattori del principe. L'avvento nel febbraio del 1798 della giacobina repubblica romana, portò notevoli cambiamenti nella vita politica ed amministrativa dello Stato; in parte per motivi ideologici, ma forse molto più economici, venne abolito tutto ciò che restava del sistema feudale: il 19 aprile toccava, per mano del Saint-Cyr, ai diritti quali "le privative de' molini". Di questo approfittò Don Giuseppe Bonomo, sacerdote impegnato nella vita pubblica del paese, e dalla figura per alcuni versi ambigua, e intrigante, che costruì un proprio frantoio nella parte alta di via della Rocca. Ma la repubblica romana ebbe vita effimera, e con la restaurazione del governo pontificio furono ripristinati tutti i diritti baronali, ed il principe rivendicò il diritto di privativa. Iniziò una serie di cause davanti ai tribunali ecclesiastici. Il nodo centrale della questione riguardava soprattutto la natura del diritto di privativa: di origine feudale secondo il Bonomo, diritto di proprietà per antica convenzione col Comune di Villa S. Stefano secondo il Colonna.

Con i buoni uffici del Vescovo di Ferentino si addivenne ad una transazione e il frantoio di Don Giuseppe rimase in funzione previo il pagamento di un canone al principe. Con il ritorno dei francesi di Napoleone nel 1809, di nuovo vengono abolite le privative: questa volta a cogliere l'occasione è un altro prete Don Luigi Lucarini che impianta un frantoio in Via dell'ospedale, oggi Via Lata, in modo che nel 1810 i frantoi in funzione risultano essere tre; nel 1814 con la seconda restaurazione il copione si ripete con nuove cause, contro il Lucarini, e contro il Bonomo, che nel frattempo aveva ricusato il pagamento del canone.

Alla morte di Filippo Colonna l'eredità di questi per un breve periodo venne amministrata dal Cardinale Rivarola; il successore, Don Aspreno, concederà nel 1828 in enfiteusi a Giovan Lorenzo Popolla il montano di S. Lorenzo (Amaseno), e S. Stefano.

Nel 1837, nel corso della pandemia colerica, si temè seriamente un interessamento diretto del paese, al punto che la locale Deputazione sanitaria decise di utilizzare il palazzo come lazzaretto, per la sua capienza e la posizione isolata, allontanandone il fattore Domenico Antonio Marcila cognato di Giovan Lorenzo Popolla . Ma il contagio colerico per fortuna non ci fu.

La festa per il 4 novembre

 
 

Passarono gli anni e si riduceva l'importanza del frantoio, nonostante che nell'800 la produzione di olio a (Villa) S. Stefano superava i 600 ettolitri, tanto che nel 1910 l'intero stabile veniva venduto alla famiglia De Luca di Amaseno. Nei primi decenni del '900 venne utilizzato per brevi periodi come sede municipale ed anche come scuola elementare, fino a che nel 1931 quando erano ancora presenti i macchinar! del frantoio, i De Luca lo rivendevano, assieme ad un orto attiguo, ove un tempo sorgeva la ricordata chiesa di S. Antonio da Padova, all'allora Monsignor Domenico Jorio, prelato della curia Romana nato a (Villa) S. Stefano che vi fondò un asilo per l'educazione dell'infanzia del suo paese, dotandolo a sue spese, ed affidato alle Suore del Preziosissimo Sangue che vi presero stabile dimora, è rimasto attivo per circa mezzo secolo.

Durante l'ultimo conflitto mondiale il palazzo venne occupato dalle truppe operanti nel comune, che danneggiarono seriamente l'arredo scolastico.

Oggi ad oltre due secoli dalla sua costruzione, troneggia ancora sulla piazza principale, non dimostra affatto la sua età, anzi sembra aspettare nuove destinazione future.

(Fonti e bibliografia presso l'autore)

da: "La Voce di Villa" - Notiziario a cura dell'Amministrazione Comunale di Villa Santo Stefano

2002

 

www.villasantostefano.com

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