di Costantino Jadecola
Villa Santo Stefano (ma, allora, Santo Stefano). La sera del 10 dicembre 1866 una banda di briganti, con la scusa di voler "presentarsi in potere della giustizia" (1), ovvero di costituirsi, "penetrava" nella casa del "Priore Municipale" Cesare Perlini, alcuni rimanendo a guardia della porta di ingresso, altri portandosi in cucina dove c’erano la moglie del priore, Maria, i due piccoli figli e sua madre; ad avvertire Perlini, che era andato a casa del padre, fu la stessa moglie spinta a far ciò dai malviventi. Al priore non ci volle più di tanto per rendersi conto della situazione cosicché, "fattosi ad una finestra della casa in cui trovavasi", cominciò a gridare per "implorare soccorso." Il primo a rispondere all’appello fu l’ebanista Gaetano Moro il quale, giunto a casa del priore, nel sentire "lo sgrillettare" di un’arma da fuoco, inevitabilmente provò un non lieve spavento cui fece seguito un attimo di esitazione. Ripresosi, aveva appena posto il piede sul primo gradino della scala quando qualcuno lo afferrò per un braccio chiedendogli chi cercasse. Proprio mentre stava per rispondere a quella domanda, nel voltarsi, si rese conto che il suo interlocutore era armato e che, a non molta distanza, vi erano tre malviventi ancora, anch’essi armati. Con una spinta Gaetano fu letteralmente catapultato in casa dove un altro brigante, nascosto dietro una porta, "con un secondo urtone lo fè giungere in cucina": qui, con i familiari di Perlini e al di là di altri malviventi, c’era un cittadino di Santo Stefano, Andrea Poccioni, che avrebbe dovuto parlare con il priore ma che, date le circostanze, era stato ridotto anche lui nello stato di sequestrato. "Normalizzatasi" la situazione, uno dei briganti chiese a Gaetano Moro il perché di quella visita che l’ebanista prontamente giustificò con la necessità di dover acquistare un farmaco, essendo Perlini "anco Speziale." Intanto giungeva "la poca Forza de’ Gendarmi" di stanza a Santo Stefano al comando del vice brigadiere Domenico Emiliozzi cui il distributore postale, Francesco Olivieri, "spontaneo ed armato di coltello, si volle associare." E fu proprio Olivieri, come dire, ad "aprire le ostilità" vibrando un colpo di coltello al braccio di uno dei briganti che era in prossimità dell’accesso alla abitazione di Perlini; appena dopo, gridò: "Avanti, brigadiere che uno ne ho fatto io!." Il comandante Emiliozzi, però, piuttosto che dar seguito all’invito di Olivieri, "con parole pacifiche" preferì tentare di persuadere i malviventi ad arrendersi. Ma proprio mentre pronunciava "tale esortazione", uno di questi gli esplose contro due colpi d’arma da fuoco: quello dei due che lo colpì al petto gli fu fatale. E cadde a terra "rimanendo dopo brevi istanti cadavere." Analoga è la sorte di Francesco Olivieri, contro il quale i briganti sparano quattro colpi; è decisamente più fortunato, invece, il gendarme Francesco Sarago, che gli è vicino, il quale, dopo uno scambio di colpi, resta solo ferito anche se in più parti del corpo. A quel punto, quelli che restano "della Forza", ormai nettamente inferiore "pel numero e posizione di quei malandrini", decidono di ritirarsi. Ed analoga decisione prendono i briganti i quali, "protetti dalla oscurità", si allontanano. Ma hanno appena il tempo di giungere all’esterno dell’abitato di Santo Stefano che uno di loro, Giovanni Jorio, sfinito, dice ai compagni di non farcela più ad andare oltre per "avere riportate in quel combattimento due ferite, una per colpo di coltello in un braccio per opera dell’Olivieri, e l’altro di rivolta in un fianco per isbaglio di un suo compagno con il coltello": si decide, perciò, di sostare "in un punto" fra Santo Stefano e Giuliano (di Roma) in attesa dell’evolversi della situazione. Tre giorni dopo, però, Jorio è costretto a dividersi dai compagni impedito com’è dalle ferite "di più oltre camminare." Il 23 dicembre, il brigante Alessandro Foschi originario di San Lorenzo, già aderente alla banda di Luigi Cima, "alias Luigiotto", ed a quella di Augusto Panici, si costituisce alla giustizia dichiarando la propria disponibilità a collaborare. Come primo "contributo" favorisce proprio l’arresto di Giovanni Jorio che, intanto, si era spostato sulle montagne di Pisterzo "convalescente dalle riportate ferite." Tradotto nelle carceri di Ceccano Jorio, nel corso degli interrogatori cui viene sottoposto, dichiara che circa un mese prima, mentre era a guardia di alcune vacche di sua proprietà in contrada "l’Ombrella, circa mezzo miglio lontano da S. Stefano", fu "preso da otto o dieci" briganti che lo condussero nella non lontana montagna di Vallecorsa con lo scopo di estorcere denaro alla sua famiglia. Trasferito poi sulla montagna Acqaviva restò in consegna di tre, quattro briganti "mentre gli altri si allontanavano ignorando per quale direzione" . Il prigioniero poi racconta che almeno tre volte cercò di guadagnare la libertà senza, però, mai riuscirvi "giacché la prima volta, stando sulla montagna di S. Lorenzo, presso Monte Tafuto, gli fu da essi [briganti] esploso un colpo di fucile da cui restò ferito nella coscia destra dove la palla s’internò; la seconda, nello stesso luogo, gli fu esploso appresso un colpo di revolver da cui fu ferito nel fianco sinistro e la terza sulla montagna di Pisterzo gli fu irrogata una ferita di pugnale nel braccio sinistro. Che così malconcio fosse costretto rimanersi con loro senza potersi più muovere da quel punto dove fu lasciato solo, pensando due di quei briganti a portargli da mangiare." Sostenne, poi, di non aver riconosciuto alcuno dei briganti né, tanto meno, di sapere chi fosse il loro capo; e, ancora, di mancare da tempo da Santo Stefano e di ignorare addirittura l’esistenza del capobanda Pietro Mazza; aveva saputo, ma in carcere, dell’uccisione di Francesco Olivieri: infatti, il giorno che l’avevano ucciso, lui era dalle parti di San Lorenzo a curarsi le ferite. Jorio sembrò quasi convincente in quella sua confessione. Ma ebbe la sfortuna di incontrare sulla sua strada un paio di briganti pentiti, Vincenzo Masi e Flaviano Toppetta, entrambi suoi compaesani nonché suoi compagni "di battaglia" nella banda Mazza, i quali rivelarono che quelle ferite Jorio se le era procurate nello scontro con la "forza" avvenuta presso l’abitazione del priore Perlini, circostanza nella quale aveva il compito di stare di guardia alla porta d’ingresso: quella da arma da fuoco era stata provocata "per isbaglio" da uno loro compagno "Pofano di nome Carlo"; l’altra, quella da "arma incidente e perforante", dal coltello dell’Olivieri. E come se tutto ciò non bastasse, ci si mise anche la vedova di questi, Angelica Palombi, la quale, nel raccontare i fatti avvenuti a Santo Stefano la sera del 10 dicembre dichiarò di aver saputo "da un Sergente de’ Carabinieri esteri trovatosi all’arresto dello Jorio, che questi avesse confessato d’essere stato l’uccisore del suo consorte." Ma chi era Giovanni Jorio? "Giovine possidente" di Santo Stefano, ovvero pastore, figlio "del fu Luigi", 22 anni, celibe, era stato sempre ritenuto persona la "cui condotta morale non aveva dato in alcun tempo motivo a reclamo di sorte." Poi, all’improvviso, "postergando ogni sentimento di umanità e di onore, abbandonasse la sua vecchia genitrice, e si gittasse fra le schiere dei malfattori che, peste sociale di questa infelice Provincia, vi hanno apportato la desolazione, ed il terrore." Tutto ciò era accaduto verso la fine del 1866 quando Giovanni, che era "soprannominato Torlonia", aveva "aderito" alla banda di Pietro Mazza e per mettersi in luce non aveva perso tempo: infatti, lo si riteneva "correo o complice" di un paio di omicidi e di un "ricatto" compiuti dalla banda Mazza in territorio di Ripi, "i primi dei coniugi Giuseppe ed Antonio Zeppieri e di Giuseppe Salati detto Santoni, ed i secondi di Vincenzo Cefaloni, Sebastiano Mancini e Giuseppe Nocetta, avvenuti nell’Ottobre dell’anno suddetto." Poi, il 22 novembre aveva di sicuro partecipato in contrada Campo Lupino al "fatto d’armi" di "resistenza alla Forza" ad iniziativa "di più Bande Brigantesche" e, quindi, "verso la mezz’ora di notte del 10 Decembre suddetto" all’assalto di casa Perlini. C’erano con lui, quella notte, i "suoi conterranei" Flaviano Toppetta, Luigi Capua, Vincenzo Masi, Giovanni Paggiossi e Antonio Sebastiani e due "pofani, uno di nome Carlo, e l’altro detto Ganassa di Lupo", tutti armati "di schioppi, pistole e coltelli." Insomma, negli atti processuali redatti dal "Giudice Processante" dott. Cesare Chiesa ce n’è a sufficienza per inchiodare Giovanni Jorio alle proprie responsabilità. Ritenuto inoltre responsabile dell’uccisione del vice brigadiere Domenico Emiliozzi e del "distributore postale" Francesco Olivieri, lunedì 6 maggio 1867 il tribunale criminale di Frosinone per le cause di brigantaggio (2) lo condanna a morte mediante "fucilazione alle spalle" così come previsto dall’articolo 4 dell’"editto Pericoli" (7 dicembre 1865) che considera "conventicola" la riunione anche di solo tre briganti e commina appunto quella pena ai responsabili. Il 12 maggio successivo, il "Fiscale Militare", l’avvocato Agapito Rossetti, ordina che la sentenza venga "mandata ad esecuzione nella sua forma e tenore alle ore sei antimeridiane del giorno di Giovedì sedici corrente Maggio nel Piazzale di S. Stefano, ove esso Jorio verrà tradotto dalla Forza armata." E così è, come avrà cura di certificare il "Cursore" Gaetano Gizzi.
(1) Archivio di Stato di Frosinone, Delegazione Apostolica - Affari generali, militari, polizia. B. 72. (2) E’ composto da "Raffaele Avv. Parisi Presidente, Onorato Avv. Scifelli Giudice, Pancrazio Avv. Lazzarini Giudice, Giacomo Avv. Belli Giudice, Massimo Cav. Pocobelli Capitano Giudice, Gio. Battista cav. Mazzoli Capitano Giudice, Agapito Avv. Rossetti Fiscale Militare, Filippo Dott. Dori Difensore Particolare."
up. 08.02.13 |
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