Cap. XII - RIVOLUZIONE FRANCESE, BRIGANTAGGIO E TEMPI MODERNI
 

Esponenti dell’intelleghenzia oltremontana come il presidente De Brosses, in pellegrinaggio culturale per le terre d'Italia durante il Settecento, ci hanno lasciato un quadro lamentevole delle circostanze sociali e politiche nello Stato pontifìcio. Le loro osservazioni, che rispondevano ad esigenze retoriche e rivelavano la visuale di una classe dirigente pressoché fallita nonché rispondenti alle diverse matrici storico-sociali dalle quali provenivano, mettevano in rilievo una realtà sociale comune a tutta l'Europa di quel tempo che contrapponeva lo sfruttamento secolare della classe feudale alle crescenti aspettative sociali e politiche delle classi borghesi ed anche di quelle rurali; i tempi maturavano per quel salto qualitativo del processo storico che seguì alla feroce rivoluzione francese.

Nel Basso Lazio, anche se tali aspettative non scarseggiavano, andavano ad insabbiarsi nell’abulia e nei gretti interessi della classe dirigente locale e nel fatalismo che continuava a caratterizzare la classe villana presa nello sforzo della sopravvivenza giornaliera, e quando nel febbraio del 1798 i soldati di Napoleone occuparono Roma e si riversarono nelle terre di Campagna e Marittima fino al confine del Regno, quei signori che lo trovarono di loro comodo si fecero giacobini, mentre la massa contadina irretita ancora nella vecchia escatologia peccatis exigentibus, si adattò ai nuovi come agli invasori dei secoli passati, e nulla cambiò nella sostanza. Anagni, l'antica capitale pontifìcia di Campagna, divenne sede della sottoprefettura consolare repubblicana e, come negli altri paesi liberati del Basso Lazio, anche a S. Stefano venne piantato l'albero della libertà e nella pubblica piazza vennero bruciate le repliche in carta della tiara pontifìcia, della mitra episcopale e del blasone dei principi Colonna.

Ma questo tripudio novatore fu di breve durata, date le alterne vicende della Repubblica romana soffocata dalle truppe napoletane alla fine dello stesso anno, ricostituita, ma poi finalmente sciolta in seguito ad una nuova occupazione napoletana il 30 settembre 1799. Negli anni susseguenti, mentre Napoleone lavorava alla costruzione del suo impero, in Italia i francesi reclutavano e rastrellavano giovani leve necessarie a tenere in forza le grandi armate lanciate alla conquista dell'Europa, e razziavano opere d'arte per i musei e i palazzi della Francia imperiale. « Che tempo fa? » chiedeva Marforio;

« Tempo da ladri »; gli rispondeva Pasquino. Dopo l'imprigionamento di Pio VII, nel maggio 1809 lo Stato Pontificio venne annesso all'impero, dando il via al « nefasto quinquennio » di governo repubblicano.

A S. Stefano venne varata l'amministrazione precettoria rivoluzionaria alla testa della quale si susseguirono come maire, mèr o maìro come si diceva all'italiana, cioè sindaco, Francesco Passio nel 1811, Domenico Jorio nel 1812, e dal 1812 alla fuga di Napoleone dall'isola di Elba nel maggio 1814, Francesco Leo. Altre due personalità del paese che si misero dalla parte dei giacobini furono don Giuseppe Bonomo ed il nipote Matteo Bonomo; quest'ultimo fu precettore del comune, equivalente dell'odierno commissario politico. Caduto Napoleone e restaurato il vecchio regime, i giacobini santostefanesi tornarono alle loro case, tenuti però d'occhio dalla polizia pontifìcia come elementi sovversivi ed « inimici della buona causa ».

Sui primi di maggio 1815, ci fu un'azione di polizia contro « quei pochi individui che riducensi qui alle famiglie dell'ex-mèr (Francesco Leo)... e di don Giuseppe e Matteo Bonomo... Questi (il Leo) per esser stato ultimo maire, ha degli attaccamenti all'infame... governo francese, con praticare delle segrete conferenze con la casa e domestici delli già condannati don Giuseppe e Matteo Bonomo, ove è del tempo che ivi (in casa Bonomo) vi dimora un tal Michele Lauretti di Vallecorsa... Esso Leo (prosegue) la scandalosa pratica della maritata Catarina di Luigi Coacci già gravida di lui del secondo parto e la tiene tutt'ora costà in una casa » (1).

Questa relazione, stilata da Giacinto Popolla che si era tenuto dalla parte dei conservatori, ci rivela il clima di sospetto di quei giorni e la paura di un ritorno di Napoleone al potere, come poi avvenne per i Cento Giorni, e ci fa anche vedere in qual modo il libertinismo della filosofìa illuministica sia stato messo in pratica in un paese come S. Stefano. I balletti angelici, dei quali si è precedentemente parlato, fanno parte di questo spirito di liberazione e licenza che attrasse molti giovani di buone famiglie; spirito che filtrò anche nei ceti sociali più bassi, come nel caso riportato dalla polizia di « Domenico Lucarini alias Pucitto... Ateo perfettissimo... bestemmia da eretico » (2).

Lo spirito repubblicano francese si manifestò in una emancipazione, molto ristretta, da quella mentalità ecclesiastica che aveva dominato per secoli dando via al libero pensiero e ad un moderato anticlericalismo. Ma questa emancipazione dal vecchio ed il vagheggiare le idee nuove risultò in un atteggiamento ambivalente, come risulta dalle due scritte fatte imprimere dal maire Francesco Leo nella rifusa campana mezzana e già citate: nella prima, l'inclusione nel testo latino del francese maire punteggia l'ideale rivoluzionario francese essenzialmente ateo, mentre nella seconda si rispettavano le vecchie formule riaffermando la presenza del regno di Dio e la sconfìtta dei nemici nel segno della croce (3).

L'interesse personale rimaneva sempre al centro del calcolo ideologico. L'esperienza napoleonica risvegliò vecchi ed introdusse in Italia nuovi ideali di pensiero e di organizzazione politica e sociale, e soprattutto servì da scuola per l'addestramento civile di giovani leve che poi confluirono nel Risorgimento. Tra i risultati più importanti nelle terre pontifìcie fu l'abolizione, con motu proprio del 6 luglio 1816, di tutte le giurisdizioni, privilegi e diritti feudali che a S. Stefano pose fine alla baronia dei Colonna, ma non al loro potere economico nel paese.

Falliti gli sforzi del cardinale Consalvi per ammodernare l'amministrazione della Chiesa, si ritornò alle vecchie strutture, esposte però ai venti nuovi. Il più importante risultato della presenza francese nella valle dell'Amaseno e zone limitrofe dal 1798 al 1814 fu forse il rapido progresso del brigantaggio, per il darsi alla macchia di molti giovani che cercavano di sfuggire agli arruolamenti sempre più pressanti imposti dalle autorità francesi.

Il brigantaggio non era fenomeno nuovo nelle terre del Lazio; dal tempo quando i romani mandavano ad bestias nei circhi i latrones che infestavano la via Appia e le altre arterie stradali, a quello di Sisto V quando, nel 1585, in un anno si erano viste più teste mozze penzolare dagli spalti di Castel S. Angelo che meloni nei mercati rionali di Roma, era rimasto una male endemico che infieriva quando carestie e devastazioni gonfiavano i ranghi dei malfattori regolari; nella periferia di Roma, questi erano aggregati in bande sotto la protezione degli Orsini, Cenci, Savelli, Colonna ed altri grandi feudatari, i quali non di rado li facevano intervenire nella città stessa per le loro lotte di parte. La renitenza alle leve francesi tra fine Settecento e primo Ottocento aggravò il male sia nel Basso Lazio che nelle vicine terre del Regno, dove il governo borbonico in guerra con i francesi lo fomentava ed appoggiava.

Ma per i giovani, forzati a darsi alla macchia, questo non era un atto politico, ma un modo di scampare alle guerre lontane dalle quali pochi ritornavano; in un primo tempo essi sopravvivevano con l'aiuto dei famigliar! che dai paesi portavano loro i viveri. Ma la vita nell'illegalità, dura e solitària, le esigenze di procacciarsi il necessario e le armi per difendersi dai francesi che davano loro la caccia, e soprattutto l'inserirsi tra questi gruppi di sbandati dei tipi più aggressivi e violenti, trasformarono questi fuggiaschi in facinorosi che per vivere e sopravvivere si davano alle rapine, ai sequestri e omicidi; e quando la ragione che li aveva mandati alla macchia venne meno con la caduta dell'impero francese, incalliti nel loro nuovo modo di vivere, avevano già oltrepassato il limite oltre il quale non c'era via di ritorno. Per quasi tutti l'Ottocento, bande di briganti operarono sui monti Lepini, Ausoni e Aurunci, cacciati persistentemente dai gendarmi francesi prima, poi dai carabinieri pontifici ed infine da quelli sabaudi.

Queste bande, i cui membri oltre al braccaggio della polizia dovevano essere all'erta contro il tradimento di compagni attirati dalla taglia o dal prospetto del perdono, vivevano in continuo stato di combattimento, con una disciplina ferrea, spostandosi di montagna in montagna; aspiranti briganti, già macchiati d'omicidio, dovevano sottomettersi ad una trafila di prove prima d'essere inclusi nella banda e, se erano giovani di buona società attirati dal fascino della clandestinità e della malavita, venivano rigettati.

Due fattori contribuivano a rendere relativamente facile la vita alla macchia: la politica di « bonifica » del governo pontifìcio che cercava di indurre i briganti a costituirsi con offerte in denaro o promesse varie tra le quali un comodo confino insieme alla famiglia in terra di Romagna; ma più ancora la male organizzata e peggio addestrata forza di polizia pontifìcia della quale facevano spesso parte ex briganti che per salvar la pelle si consegnavano fornendo informazioni alle autorità sui compagni rimasti alla macchia; unica forza realmente effettiva era rappresentata dai graduati, che per la lunga consuetudine con criminali crudeli quali potevano essere i briganti e per poter comandare l'accozzaglia di facinorosi che formavano gli effettivi dei carabinieri e bersaglieri, spesso sorpassavano in crudeltà gli uni e gli altri.

Nell'incapacità di controllare i movimenti dei briganti e cercando di forzarli allo scoperto il più possibile, già dal secolo XVI si era messa in atto la malaugurata politica del taglio dei boschi continuata poi fino all'Ottocento, con gran danno alle condizioni ambientali di queste terre. La durezza della vita alla macchia ci viene così descritta da uno di loro:

Un brigante non può mai spogliarsi, ne d'estate ne d'inverno, nè di giorno nè di notte. Il suo giaciglio è la nuda terra, spesso umida, spesso ricoperta di neve e di gelo... (non può mai) accendere un po' di fuoco... si veglia e si dorme (negli stessi panni) con il risultato di farsi divorare dai pidocchi. La sete è una delle maggiori sofferenze: molte volte ci si trova vicino ad una fonte eppure, per timore di essere scorti, ci si accontenta d'inghiottire la saliva. Così avviene alle volte che si prenda tutto un acquazzone per non avvicinarsi ad una capanna dove potrebbe essere annidato il pericolo... Buttarsi alla macchia è facile; difficile è rimanerci... Generalmente i briganti non camminano mai di giorno... trascorso in mezzo ai boschi... Per poter sopravvivere avevano bisogno di una gran quantità di denaro che andava a finire nelle tasche di coloro che si adoperavano in loro favore... (Vestivano) un cappello stretto di falde, alto e appuntito, con una gala di fettucce di diverso colore... giacca, gilet e calzoni tutti di colore turchino... (che) arrivavano fino alla caviglia... la pettinatura ricordava un po' quella dei bravi seicenteschi... con la differenza che al posto del ciuffo... si lasciavano crescere una treccia che chiamavano coda... I capelli venivano divisi in due bande e fatti ricadere da una parte e l'altra del volto, tutti abboccolati... (da sembrare) donne travestite... Moda diffusa fra tutti era quella degli orecchini, che venivano ordinati dagli orefici... le ciocie era l'unica calzatura; (portavano) fucile di canna corta... pugnale lungo e pesante... le cartucce per il fucile trovavano posto nella patroncina di cuoio... che girava tutt'intorno alla vita... molto pesante per via dei proiettili di piombo e per due sacchette di cuoio che si portavano appese ai fianchi contenenti altre palle pure di piombo, l'acciarino per la pietra focaia e le monete d'argento. In più vi si appendeva il pugnale (4).

Al servizio dei briganti era tutta una rete di manutengoli: pastori che informavano sugli spostamenti della polizia o facevano da messaggeri, servi che rivelavano i movimenti dei loro padroni per l'appostamento, bottegai e commercianti che fornivano vitto, vestiario, armi e quant'altro occorreva e ricettavano la refurtiva, ed anche ricchi proprietari che con favori e versamenti si comperavano la loro protezione.

Per sopravvivere, i briganti dovevano continuamente progettare e poi eseguire estorsioni, sequestri con ricatto ed appostamenti sulle strade pubbliche, oltre a tenersi lontano dalla forza pubblica; era un lavoro a tempo pieno per questi paladini dai cappelli pizzuti. Ma dal capobanda nella sua giacca bordata d'argento, le armi finemente cesellate, il pugnale dal manico d'argento o d'oro come quello di Gasbaroni, all'ultimo gregario, il brigante era uomo terribilmente solo che doveva vivere all'erta anche quando dormiva, e questo suo stato di bestia braccata ne faceva un animale feroce, una belva.

Tra i mèmbri di una stessa banda mancava qualsiasi rapporto di solidarietà umana, e se tra loro c'era un denominatore comune era quello della mutua diffidenza;

non era raro il caso che per ottenere amnistia e intascare la taglia che era sulla testa di tutti, un brigante mozzasse il capo al compagno che gli dormiva accanto e lo portasse, sanguinante ancora, alle autorita.

Durante l'Ottocento, la valle dell'Amaseno fu terra d'attraversamento per i briganti che si muovevano tra Regno e Stato della Chiesa, dalle selve del Circeo attraverso gli Ausoni ed i Lepini alle montagne d'Abruzzo. Lo stesso monte Siserno fu varie volte campo di scontri tra briganti e forza pubblica, ed anche S. Stefano ebbe la sua porzione di fuorfilegge, pur se non potè vantare capibanda della notorietà di Pasquale Tambucci di Vallecorsa, Antonio Gasbaroni di Sonnino o di Luigi Masocco di Giuliano.

Una notifica governativa del 12 dicembre 1812 ai sottoprefetti di Velletri e Frosinone — siamo ancora in pieno regime francese — elencava 40 briganti dei quali il numero maggiore, nove, erano di S. Stefano; seguivano Giuliano, Vallecorsa ed altri paesi; eccone le identità: Domenico Rossi detto il Cotto, Luigi Rossi, Domenico Tranelli, Pietro Filippi, Michele Filippi, Girolamo Lucarini, Vincenzo Lucarini, Domenico Faggiolo ed Antonio Jorio; da notare che nell'elenco rientrano anche quattro calabresi (5).

Questo dubbio primato santostefanese non durò a lungo; infatti, con il rientro delle legittime autorità pontifìcie nel governo di Roma ed in seguito all'amnistia da esso concessa, nel luglio del 1814 un numero di briganti si costituì alle autorità, e cioè: Domenico Faggiolo, Domenico Magnafìchi, Michele Di Filippo o Filippi, Domenico Tranelli, Domenico Falovo, Alessandro e Luigi Rossi del fu Pasquale e Antonio Jorio (6). Due di questi, ridatisi alla macchia, ebbero morte cruenta neli anni seguenti: Domenico Faggiolo, arrestato nel 1815, venne condannato per ordine d'i mons. Giuseppe Ugolini Delegato apostolico di Frosinone ad essere fucilato nel suo paese d'origine e, per ammonimento agli altri, ad avere il suo cadavere squartato ed appeso in pubblico; il Mangiafìchi, sfuggito ad una retata della polizia insieme al compaesano Domenico Tranelli nel 1815, venne ucciso con una palla al petto durante l'assalto alla casa di un ricco signore in Amara nel 1819 ed il suo corpo caricato sopra un asino venne sepolto dai compagni in fuga su Campo Lupino (7).

Un grave fatto di sangue accadde a S. Stefano dopo la restaurazione del governo pontificio. Un certo brigadiere Cappucci, « attivissimo nella lotta contro il brigantaggio », aveva arrestato e messi in carcere a S. Stefano quattro fratelli di un brigante del paese; la stessa notte, entrò nella cella dov'erano i detenuti e « li scannò tutti e quattro », giustificandosi poi col dire che li aveva colti mentre cercavano di fuggire. Tempo dopo, questo brigadiere « mise le mani addosso alla moglie di un altro bandito », Domenico Rossi il Cotto, mentre costei si recava a Frosinone e la uccise.

Il Rossi decise di far fuori il brigadiere con l'aiuto del fratello deli quattro prigionieri scannati; ma il piano non piacque al loro capobanda che allora era Pasquale Tambucci. Durante un'operazione che portò al sequestro del sottoprefetto di Frosinone, il Tambucci gli chiese il perché dell'eccidio di S. Stefano, ed il funzionario gli rispose che il sindaco del paese lo aveva informato per lettera giustificando l'accaduto come reazione al tentativo di fuga da parte degli imprigionati. Più tardi, discutendo l'affare con Rossi ed il fratello dei quattro uccisi, il Tambucci ripetè loro quanto gli era stato detto dal sottoprefetto, ma poi aggiunse che da quando gli era sembrato capire dalla conversazione, il Cappucci aveva « ucciso quei vostri parenti non per capriccio suo, ma dietro indicazione del sindaco di S. Stefano che voi conoscete. Se ben mi ricordo, disse il Tambucci, quel tale si è voluto vendicare di certi vostri trascorsi al tempo in cui egli la faceva da giacobino... Ora è con lui che dovete rifar vela, e non con gl'innocenti ».

Il Cotto, saputo che il sindaco doveva recarsi a Frosinone, « si appostò all'uscita del paese... Quando lo vide arrivare circondato da una ventina d'uomini, lo prese sotto la mira del suo fucile e lo freddò facendolo stramazzare a terra dall'alto del cavallo. Gli altri, vedendolo cadere, credettero che la banda fosse appostata al gran completo e diedero di sprone alle loro bestie senza neanche voltarsi a guardare... ma vai a vedere come saranno andate effettivamente le cose e quanto ci fosse in quella faccenda di intrigo da parte del sindaco e quanto d'iniziativa da parte del brigadiere » (8).

Il ruolo del Tambucci in questa fosca vicenda paesana è a dir poco equivoco; non è da scartare l'ipotesi che egli volesse fare un favore al Cappucci, scansandolo dalla vendetta del Rossi, come anticipo per futuro ripagamento da parte del brigadiere; maestro del tenersi a galla, il Tambucci si era costituito in seguito all'amnistia del 1814 e venne arruolato nella lotta contro i briganti « con uno stipendio mensile di sette scudi e mezzo... (e) sfoggiava una bella divisa da bersagliere »; ma continuò, come altri, a fare il doppio-gioco, bersagliere di giorno e brigante di notte, finché mons. Ugolini, che aveva un conto personale da regolare col Tambucci che gli aveva mozzato un dito per impossessarsi dell'anello che ci teneva, lo fece arrestare nel suo paese, facendolo fucilare e squartare come s'era fatto con il Faggiolo (9).

Per cercar di contenere il brigantaggio, per poterlo poi assoggettare ad un più drastico controllo delle forze dell'ordine, la Delegazione emise varie ordinanze, tra le quali quella della ristretta, cioè il blocco dei viveri onde costringere i briganti ad arrendersi per la fame: era proibito portar viveri fuori del paese, e perciò i contadini dovevano mangiare prima di recarsi in campagna; il bestiame grosso doveva andare al pascolo sotto scorta armata giorno e notte, mentre quello minuto doveva essere ritirato a sera nelle vicinanze del paese e tenuto sorvegliato. Queste ed altre misure restrittive, una più coordinata azione da parte della polizia pontificia e napoletana contro le bande vallecorsane e sonninesi che operavano al confine dei due stati ed il ritorno alla normalità politica e sociale, e con quasi tutti i famosi capibanda internati nelle carceri di Civitavecchia o ammansiti con pensioni statali nelle terre di confino, il fenomeno brigantesco si acquietò dopo il 1825. Ma con il conturbarsi della situazione politica verso la metà del secolo, si ebbe un nuovo ritorno alla macchia di giovani che alla dura vita dei campi preferivano quella avventurosa di rapinatori alla larga; e non mancò una certa sobillazione da parte del governo borbonico di Napoli che si vedeva sempre più minacciato dal crescente moto per l'unità d'Italia. Anche questa volta, se ebbe qualche movente politico, fu quello di opposizione e lotta contro qualsiasi governo costituito; ma rimaneva precipuamente un'associazione di delinquenti, alla quale non mancava una larga adesione popolare di parenti, mogli, amanti ed amici, in particolare tra il 1860 e il 1869, che aiutavano e sostenevano gli uomini alla macchia. Si è già scritto come per arginare i contatti fra i fautori all'interno del paese con i briganti, a S. Stefano venne fatta murare la Portella nel maggio del 1867, ma con scarsi risultati, dato che attraverso postierle, (aditi scavati in basso alle mura, finestre basse ed anche alte dalle quali ci si poteva calare facilmente con la fune senz'essere osservati, specialmente dalla parte di Vallaréa), donne come Maria Paggiossi « nota incitatrice di briganti », poi ravvedutasi, portavano il mangiare ed anche l'amore ai loro uomini (10).

II ritorno degli uomini dai cappelli pizzuti rimise S. Stefano in stato di agitazione. Oltre alle guardie civiche che, il comune dovette sovvenzionare l'acquartieramento della brigata delle forze d'ordine che, con quelle di Priverno e di Sonnino, dipendeva dalla Tenenza di Ceccano. Si cercava ancora, come nella prima fase del brigantaggio, di adescare i briganti con promesse di condono e di un premio monetario; don Baldassarre Perlini, vicario foraneo, era la persona incaricata a far da tramite in questo sforzo di redenzione sociale e morale, ed era lui che effettuava per conto della Delegazione di Frosinone i pagamenti ai briganti che si costituivano (11).

Il numero di briganti che operavano nel territorio di S. Stefano era relativamente alto, e gli anni 1867-1868 furono particolarmente movimentati: nel maggio 1867 ci fu un « rinvenimento di quattro cadaveri barbaramente uccisi dai briganti » in un pozzo sotto la cima della montagna Lenza, nell'area di Campo Lupino; a fine giugno la polizia mise le mani su un numero di briganti, indigeni e forestieri, dei quali 13 si erano costituiti, quattro catturati, uno ucciso in combattimento, mentre un altro era stato fucilato alle spalle; a luglio i gendarmi arrestarono altri tre briganti e recuperarono anche armi « lasciate dai briganti... Luigi Toppetta detto Fiaccarelle, Domenico Orlandini detto Gioia, Luigi Fiocco, Salvatore Jorio e Giovanni Paggiossi in mano di incogniti manutengoli »;

nello stesso anno vennero arrestati altri tre santostefanesi (12).

Frattanto il Toppetta ed altri briganti si erano venuti a costituire, e fu probabilmente in seguito alle loro delazioni che nel 1868 venne arrestato Gioia, un ragazzo di 19 anni, il quale processato e condannato a morte venne fucilato all'angolo del palazzo Colonna all'imbocco della via S. Antonio il 16 dicembre 1868. Non sono note le accuse contro Gioia, ma è probabile che i suoi colleghi più anziani e più scaltri per salvare la loro pelle riversarono accuse sul giovane che poi le autorità per dare un esempio giustiziarono. L'esecuzione ebbe luogo alle ore sette antimeridiane, dopo che il ragazzo si era confessato e comunicato; il suo corpo venne tumulato nel sepolcro per gli uccisi presso l'incompiuta fabbrica della chiesa di S. Pietro. La confraternita del Purgatorio provvedette alle « spese occorse della fucilazione di Gioia » (13).

In questo stesso cimitero, alcuni anni dopo forse tra il 1872-1873, vennero tumulati i cadaveri dei briganti uccisi in quello che fu lo scontro finale tra i carabinieri del nuovo governo italiano e le bande brigantesche della zona su Campo Lupino.

Una mattina di prim'autunno d'uno di questi anni, un gruppo di giovanotte del paese tra i 16 e 18 anni era andato a far frasche alla Valle, sotto la Lavina, quando all'improvviso dall'alto s'udì una fragorosa sparatoria e le ragazze, prese dalla paura, se la dettero alle gambe in dirczione del paese lasciando le fascine già affastellate. In paese correvano voci di briganti, di carabinieri e di battaglia, ma nessuno sapeva alcunché di sicuro, fino a qualche giorno dopo quando dalla Lavina e dalla Valle incominciarono a scendere asini carichi di uno e due cadaveri di briganti che dalla Porta si dirigevano verso il Sottoportico bolognese a scaricare i loro miseri fardelli umani a S. Pietro nella tomba degli uccisi (14).

Quando i nonni, che ci avevano vissuta la giovinezza, ci narravano a sera dei briganti, c'era nel loro racconto un misto di terrore, di raccapriccio, di pietà, ma anche una certa meraviglia per questi uomini che avevano il coraggio di sfidare tutta la struttura autoritaria della società.

* * *

A S. Stefano i tempi moderni non arrivarono neanche con l'unificazione nazionale; il medioevo politico, sociale, economico e religioso continuò ancora, e solo dopo la seconda guerra mondiale si sono messe in forte movimento quelle forze che hanno cambiato sostanzialmente la vecchia matrice entro la quale si era svolta per un millennio la vita della comunità; questa rivoluzione sociale ed economica più che politica ha infranto i vecchi schemi ed entro il periodo di un decennio o poco più ha portato il paese dal margine del medioevo attraverso la rivoluzione industriale a sfociare nell'era moderna delle eguaglianze politiche, civili e sociali e soprattutto a quella liberazione delle forze economiche che ha messo in atto l'avvicendamento delle classi descritto da Parete e che ha dato alla vecchia classe villana il predominio economico e politico nella comunità.

L'integrazione del Basso Lazio nello stato sabaudo con l'accentramento amministrativo, il servizio di leva e la costruzione di strade ferrate forzò un certo movimento nei comuni più remoti del nuovo stato nazionale; ma tutto sommato, la vita nella ribattezzata comunità di Villa S. Stefano non fu granché diversa in sostanza da quella che era stata durante l'amministrazione del Buon governo: i signori rimasero indolenti come sempre, le reclute tornate dal servizio militare si riadattavano subito al vecchio sistema di vita come se non fossero mai uscite, i maestri e maestre che venivano di ruolo nel paese vi ci si accasavano e diventavano parte del vigente sistema di vita, qualcuno ancora mandava i figli al seminario e, più raramente, all'università; anche l'economia era rimasta quella di prima, il fìsco diventava più esigente, mentre il tenore di vita continuava al margine della sussistenza. Verso la fine del secolo scorso due spiragli economici si aprirono per la popolazione contadina ed artigiana: il lavoro nelle paludi pontine e l'emigrazione alle Americhe.

Nell'Ottocento, l'agro pontino conservava quel fascino di terra selvaggia che colpiva la fantasia di stranieri come il francese Edmond About, che lo decantavano come uno dei più belli angoli d'Europa: terrazze di ulivi ed aranci alle pendici dei Lepini, una piana di feracità indescrivibile con foreste d'alto fusto, liane gigantesche, macchie di viti ed arbusti selvatici con fioriture di rose canine; campi coltivati a grano e granturco dove lavoravano fino a cento paia di buoi; fieno, meloni enormi, carciofi, praterie paragonabili a quelle delle Americhe e dell'Ucraina con grandi greggi, branchi di vacche e bufali e frotte di cavalli galoppanti allo stato brado sorvegliati dai butteri inchiodati in sella alle loro cavalcature, fucili ad armacollo, chiusi in vestiti di velluto forte con stivali di cuoio, e sul petto la piastra dello stemma nobiliare del padrone. Era un paesaggio omerico, l'entroterra della maga Circe, che vi dominava con le sue malìe ed i suoi malefici; chi scendeva dai borghi delle montagne circostanti a falciare, mietere a far raccolti per sfamare la famiglia, vi veniva sotto pena di morte per malaria.

Queste vaste distese di terre in gran parte ancora vergini erano di proprietà ecclesiastica o delle grandi famiglie romane. Massimi, Caetani, Borghese, Boncompagni ed altre, che le davano in enfiteusi o in affìtto ai loro fattori, tenendo ampie riserve per battute di caccia. Nelle vicinanze di Priverno si facevano perlopiù colture di granturco, ed era a questa palude che si recavano al lavoro stagionale i contadini di S. Stefano. Questi uomini tozzi nell'imbottitura delle camicie di fustagno, vestiti di velluto grosso, le gambe fasciate dalle pezze strette dai legacci delle cioce, i cappelli con larghe falde calate sui visi ingialliti dalla malaria e dal chinino, qualche pezzo di pane, formaggio e cipolla nei tascapane ombrelloni rigati ad armacollo, si davano appuntamento di buon'ora sotto la Loggia da dove prendevano la strada per Priverno con sette ore di cammino, seguiti dalle donne che anch'esse andavano a faticare. Questi ulissidi della fame erano attirati a foraggiare nelle terre della maga Circe dal miraggio dei cocomeri grossi più della luna piena nelle notti afose, dai cedri turgidi come i seni di giovani donne, dai melograni, i cetrangoli e melarance luccicanti al sole calante, ma soprattutto dal granturco con gli steli più alti di un uomo che alzavano al cielo gli orifiamma delle pannocchie con i tutoli cesellati, non di chicchi d'oro, ma del pane della vita. A Piperno, come era ancora chiamata l'antica città volsca, risiedevano i capoccia dei fattori ai quali bisognava rivolgersi per aver lavoro nelle paludi.

A ciascun lavoratore venivano assegnati due o tre solchi lunghissimi secondo l'esperienza e l'età, ed egli doveva coltivarli per l'intero ciclo dalla zappatura al raccolto, del quale gli sarebbe spettato la metà. Il primo viaggio a Priverno decideva l'assegnazione dei solchi a ciascun lavoratore, dopo di che se ne tornavano in paese. Quando era tempo di dar mano ai lavori, i massari da Priverno «mandavano voce» ai paesi, e così per ciascuna fase dei lavori: vangatura a marzo, semina a maggio, due o tré turni di zappatura durante l'estate e almeno due rincalzature quando i fusti raggiungevano l'altezza di un metro circa, poi la cimatura e la raccolta a ottobre-novembre.

Ciascuna di queste operazioni comportava un viaggio da S. Stefano con tutti gli attrezzi ed il necessario vettovagliamento per la permanenza, durante la quale i lavoratori alloggiavano in capanni fatti con fusti secchi di gran turco detti staja; in essi si ritiravano uomini e donne dopo la giornata di lavoro che durava dall'alba al tramonto per la più che frugale cena; nelle sere dei dì di festa si baiila va sulle lestre a suono d'organetto. Nelle staja si dormiva sulla terra battuta, e quando era caldo c'era chi dormiva sotto i gelsi che tenevano lontane le zanzare, o almeno così si credeva. Il lavoro era duro, a volte c'era da lavorare con l'acqua alle natiche, e le mignatte erano un flagello; ma la grande maledizione delle palude erano le zanzare che dall'imbrunire all'alba dominavano la notte, e si calmavano solo al cadere della rugiada: e peggio ancora la malaria che esse portavano. Per questi lavoratori rimaneva attuale la descrizione che ne aveva data Varrone due millenni prima di questi insetti così minuti da non poterli scorgere ad occhio nudo e che penetrando nel corpo per gli occhi e la bocca, causavano perniciosi malanni. I fattori provvedevano il chinino in scatolette, che i capoccia gettavano dal loro carro ai lavoratori che si allineavano lungo la strada a raccoglierle.

In tempo di raccolta, si facevano venire ad aiutare donne di famiglia o femmine prese alla giornata che, canestri sul capo, seguivano i tagliatori i quali vi buttavano dentro le pannocchie recise; la parte toccata al lavoratore veniva caricata nei barrocci per il trasporto in paese (15).

Ma ci furono quelli che, nella ricerca del pane quotidiano, si avventurarono oltre i solchi e le lestre delle paludi sulla scia del sole calante, verso le Americhe: Argentina, Brasile, Stati Uniti, su navi che avevano poco da invidiare alle galee medievali, in viaggi che non sembravano mai finire. Qualcuno non arrivava a destinazione, come il trentaduenne Gesualdo Petrilli morto sulla nave Equiti in rotta verso Gli Stati Uniti nel 1906 e sepolto in mare; e quelli che ce la facevano, si trovavano in un mondo ostico, facile preda per parassiti e sfruttatori, spesso italiani ed anche paesani, che dai porti d'arrivo li incanalavano verso l'interno di questi immensi paesi dovunque si richiedeva manodopera a buon mercato. Mentre molti di coloro che emigravano nell'Argentina ed in Brasile trovavano lavoro nelle masserie o in altre attività di una società ancora economicamente allo stato agricolo ed in un ambiente prevalentemente cattolico, quelli che sbarcavano negli Stati Uniti passavano dal pacato anche se duro lavoro dei campi o della bottega del paese al ritmo concitato di una società in piena fase industriale, impersonale, sfruttatrice e discriminatoria. A volte le ondate emigratorie erano così forti da risentirne gli effetti in tutti gli aspetti della vita paesana; «la estesa emigrazione nelle Americhe non permette di raccogliere più quella quantità di oblazioni... », scriveva il segretario della confraternita della Buona Morte nel 1912 (16).

Gli effetti economici e sociali dell'emigrazione sulla società paesana furono notevoli; le rimesse di valuta estera permisero ai familiari rimasti nel paese un tenore di vita molto più elevato, ma allo stesso tempo venne a crearsi tutta una classe delle cosiddette « vedove bianche », di famiglie nelle quali la donna era diventato il capo effettivo. Alcuni emigranti tornarono in paese disillusi, o dopo aver messo insieme un esiguo capitale; quelli che restavano, se ammogliati, o tornavano periodicamente, o richiamavano mogli e figli, mentre qualcuno tagliò la corda e si fece una nuova famiglia. Ma per la maggioranza i legami con il paese e la patria italiana rimasero forti; e quando l'Italia entrò in guerra nel 1914, non furono pochi, e tra questi alcuni santostefanesi, che tornarono in patria ad arruolarsi per difenderla.

Il periodo che va dalla prima alla seconda guerra mondiale non portò grandi cambiamenti nel modo di vivere e di sentire le cose dalla parte della gente di Villa S. Stefano. La prima guerra venne vissuta a distanza tra lo sventolar di bandiere e l'arrivo di telegrammi di figli, mariti, padri morti in battaglia o dispersi; l'era fascista che seguì gonfiò le teste con le grandezze della patria allo stesso tempo tirando sempre più la cinta, e svaniti i sogni di gloria e d'impero, i giovani santostefanesi si trovarono sparsi dalla Russia al Sudafrica, dalla Gran Bretagna all'India, all'Australia, agli Stati Uniti in campi di battaglia e campi di prigionia, mentre le terre del Basso Lazio, quasi tornando indietro di secoli al medioevo, venivano sottomesse a saccheggi, violenze e stupri da parte dei marocchini, neo-saraceni, delle forze liberatrici alleate. Ma la storia ha una sua logica inscrutabile; e c'era senz'altro il bisogno di uno scossone per scuotere di dosso alla nazione il torpore di tanti secoli e mettere in moto forze ed energie nuove.

A Villa S. Stefano è caduta l'egemonia politica ed economica della vecchia classe terriera, e dalla classe contadina più che da quella artigiana o professionista si sono sprigionate quelle energie che ne hanno fatto il gruppo economicamente dominante nel paese come imprenditori, commercianti, bottegai ed operai nei complessi industriali sorti nella valle del Sacco e nell'agro pontino;

socialmente ascendente e politicamente non avversa ad idee progressive, essa manda i figli all'università. Il vecchio paese, con tutta la storia che abbiamo descritta, si spopola e la gente torna a ripopolare i colli e le valli con case comode alle quali danno agio tutte le comodità della vita moderna, e facile accesso le strade carrozzabili; si completa così il ciclo storico che dall'incastellamento aveva portato a secoli di una società chiusa ambientalmente e culturalmente, e se ne inizia uno nuovo con aperture a tutta la rosa dei venti, che a lungo andare rielaborerà il tessuto di una nuova società.

Siamo in una fase intermedia di assestamenti, con il nuovo che s'intreccia ancora al vecchio, fase di trasformazioni spesso psicologicamente penose ma inevitabili. Non c'è occasione più propizia per osservare questi mutamenti nella loro prospettiva storica che il trovarsi a Villa S. Stefano durante la sagra di Ferragosto nella quale sono combinate le festività religiose e tradizionali dell'Assunta e S. Rocco in un'esplosione di vitalità profana, per non dire pagana, tra il fragore degli altoparlanti, i risvolti fescennini di intrattenimenti e danze ciociare, la spavalderia dei giovani che si pavoneggiano nella piazza affollata ed il civettare delle ragazze nelle ultime mode anche le più bizzarre, che ridestano nella coscienza storica echi di celebrazioni bacchiche. Ma forse l'aspetto umanamente più emozionante è il vedere, durante questi giorni, il vecchio paese ripopolato quasi come una volta da quelli che 'lo hanno lasciato per varie ragioni, tornati non solo da altre parti dell'Italia, ma anche dalle terre del nord Europa, dalle Americhe e dagli antipodi dell'Australia, con mogli e figli che spesso parlano lingue straniere, e veder anche queste donne e ragazze inquadrarsi con quelle del paese, con i ceri accesi in mano, nelle processioni, quasi a testimoniare che se le forme cambiano, lo spirito umano rimane immutato.

 

 

 

(1)ASF. B/1132, B/1134, B/1141 F/2946.

(2)Ibid.

(3)V. capit. XI nota 30

(4)Pietro Masi, Antonio Gasbarroni: la mia vita da brigante. Roma, Atlante, 1952; pagg. 24-38.

(5)Ibid., 55-56.

(6)Michele Colagiovanni, Meo Varorne, Alessandro Massaroni e il brigantaggio in Ciociaria, Roma, 1977; pag. 44, nota 47

(7)Masi, op. cit., 82, 151-162.

(8)Ibid., 47-49.

(9)Ibid., 49, 81-82, Il racconto del Masi non è molto chiaro, mancano nomi e date, e probabilmente confonde due o più fatti. Non abbiamo i nomi di sindaci nell'immediato periodo post-napoleonico, ad eccezione di Giovan Battista Jorio sindaco nel 1814: ASF. B/1132.

(10)ASF. Direzione di Polizia. B/297 e B/303.

(11)Ibid., B/300.

(12)Ibid., B/296, 298, 303.

(13)APVSS/Confrat. Purgatorio e APVSS/Liber mortuorum.

(14)Dai ricordi di Giulia Buzzolini, nonna patema dell'autore.

(15)I particolari sul lavoro nelle paludi provengono dal racconto di Mariangela Paggiossi la quale ci lavorò per varie stagioni da giovanotta.

(16)APVSS/Confrat. Buona Morte.

 

 
 

www.villasantostefano.com

PrimaPagina  |  ArchivioFoto | DizionarioDialettale | VillaNews