Cap. X - DEMOGRAFIA E CASATI

Per secoli, i nefasti cavalieri apocalittici della guerra, della fame e della peste regolarono a modo loro il regime demografico nelle terre del Basso Lazio, unica difesa per le popolazioni afflitte, i santi protettori, in particolare i santi Sebastiano e Rocco che dalle loro chiesette presso gli accessi ai paesi cercavano di trattenerli. Nell'era romana, la popolazione della valle dell'Amaseno si mantenne abbastanza stabile, soggetta alle fluttuazioni dei raccolti e all'incidenza della malaria che i romani erano riusciti a contenere con bonifiche lungo il tracciato dell'Appia, ma che nel passato aveva fiaccato il dominio etrusco prima, e quello volsco dopo, nell'area pontina.

Una prima flessione demografica si avverò durante il passaggio di bande devastatrici barbariche con il rimpantanamento dell'agro pontino che fece di nuovo imperversare le febbri malariche; ma l'incastellamento delle popolazioni che seguì ridusse l'effetto decimatore di questa malattia, e le popolazioni annidate sui castra, ma dipendenti per il loro sostentamento dai campi a valle, si stabilizzarono su livelli demografici più bassi.

In base a documenti pervenutici, è possibile ricostruire con buona approssimazione lo stato demografico del castrum S. Stephani dal Cinquecento in poi (1).

Al principio del Cinquecento — e questo quadro riflette la situazione prevalente nel secolo precedente — la popolazione di S. Stefano si aggirava sulle 700 unità riducendosi a circa 500 verso la fine del secolo per ragioni che si diranno. Si ebbe una moderata crescita demografica durante il Seicento, toccando il livello di mille anime nel Settecento; durante l'Ottocento la popolazione progredì dai 1061 abitanti del 1824, ai 1100 del 1836, ai 1283 del 1844, ai 1300 nel 1846, con una flessione ai 1261 nel 1857, per arrivare a circa 1500 unità al tempo della caduta del potere temporale (2).

Al principio del Cinquecento, la maggior parte della popolazione risiedeva nell'area tra la chiesa parrocchiale e la Portella, dove abitavano alcune delle famiglie più notabili della comunità, ed era distribuita nelle seguenti contrade:

Portella 186 - 26,8%

Chiesa e Sotto la Chiesa 156 -22,5

Piazza e Sotto la Piazza 114 - 16,3

Guìzia 84 - 12,0

Campodoglio 78 - 11,2

S. Pietro 48 - 6,9

Ospedale 30 - 4,3

 

II totale si aggirava sulle 700 unità, esclusi gli individui e gruppi come gli ebrei, accattoni, vagabondi, ed altri che erano al di fuori della comunità civile. Verso la fine del secolo la popolazione si spostò verso la parte alta del paese intorno alla Piazza pubblica, e nacquero due nuove contrade: quella di Corte composta di un numero di eleganti palazzetti costruiti nella zona degli orti sotto il castello, lungo l'odierna via della Rocca, e quella di porta Cimino formata da caseggiati addossati all'arco della Rocca. Le ragioni di questo spostamento non sono chiare, ma pare siano state due, entrambe collegate al tramonto dell'egemonia ceccanense nella valle dell’Amaseno: il venir meno del potere politico dei conti di Ceccano, e prima ancora che si consolidasse quello dei Colonna, aumentò le responsabilità civili e amministrative del governo comunale, richiamando sempre più i cittadini ad una diretta partecipazione negli affari pubblici che venivano trattati nella curia situata sulla Piazza pubblica; altro risultato del tramonto dei signori di Ceccano fu la liquidazione dei loro beni nei vari feudi e, a S. Stefano, la lottizzazione degli orti sotto il castello. A fine secolo la popolazione era così ripartita:

Chiesa e sotto la Chiesa 125 - 26,6%

Piazza e sotto la Piazza 84 - 17,8

Corte 78 - 16,4

Guìzia 60 - 12,7

Portella 48 - 10,1

Ospedale 42 - 8,9

Porta Cimino 18 - 3,8

S. Pietro 12 - 2,5

Campodoglio 6 - 1,2

 

Come si vede, Portella, S. Pietro e Campodoglio che avevano formato il nucleo originario del paese persero gran parte dei loro abitanti.

Ma il fatto demograficamente più importante che emerge dal confronto di queste statistiche è il pesante calo della popolazione, circa un quarto, che si ebbe a S. Stefano tra l'inizio e la fine del Cinquecento, da 700 a 500 anime circa. Le ragioni vanno ritrovate nei penosi eventi che seguirono il sacco di Roma del maggio 1527 quando l'esercito imperiale di lanzichenecchi, spagnoli e gregari italiani lasciò Roma nel febbraio 1528 e si riversò nella Campagna diretto in Puglia devastando e saccheggiando. Frattanto, un altro esercito di 25.000 uomini, quello francese sotto il comando del generale Lautrec, aveva attraversato il Lazio per dar battaglia agli imperiali e aveva posto l'assedio a Napoli. E fu durante questo attrito di potenze straniere che si verifìcò uno di quegli eventi fatali che cambiano di botto il corso della storia; l'armata francese che assediava Napoli venne annientata dal mal di petecchie, il tifo, e ciò mise l'Italia in mano agli spagnoli.

Levato l'assedio a Napoli, le poche migliala di fanti e cavalieri francesi superstiti risalirono per Campagna e Marittima verso Roma, affamati e molti ancora malati, saccheggiando e appestando le popolazioni di queste terre. E come se tutto questo non fosse sufficiente, peccatis exigentibus, arrivò anche la gran fame che dalle terre del nord si riversò verso il sud spopolando le campagne e spingendo torme di affamati, uomini e donne, verso le città per accattare qualche rifiuto di cibo, e non mancò chi per disperazione si dette al brigantaggio.

Si ritornò ad un livello di vita più stabile ed una rinascita demografica agli inizi del Seicento, resa possibile dalla bonaccia politica che calò sull'Italia con l’affermarsi della preponderanza spagnola, e con l’introduzione di nuove colture agricole, in particolare quella del granturco, che portò un miglioramento nell'alimentazione per le classi contadine.

A S. Stefano questo periodo coincide con l’affermarsi del dominio di casa Colonna e la restaurazione del vecchio ordinamento feudale in base ai nuovi concetti politici ed economici stabiliti da Marcantonio Colonna i cui capisaldi erano lo sfruttamento economico dei feudi e l'alleanza con gli spagnoli di Napoli, che pose fine a quelle scorrerie di terra di confine che per secoli avevano afflitto il Basso Lazio.

Alla rinascita demografica nella comunità di S. Stefano durante il Seicento contribuì anche un sostenuto influsso di nuclei famigliari forestieri, amministratori feudali, funzionari di governo, ecclesiastici, mastri artigiani e manovali, con un orientamento economico più progredito che risultò nella espansione di colture, in particolare dell'ulivo, introdusse la bachicoltura con la piantagione di gelsi ed aprì alcuni spiragli nel commercio. Nell'arco di qualche secolo o più, le famiglie di questi nuovi arrivati tolsero poco a poco, spesso attraverso matrimoni, gran parte del potere economico e politico alle antiche genti dei Palombo, Lucarini, Poci, Tambucci, Cori, Valle ed altre scomparse; incominciarono così a primeggiare in paese quelle dei Bravo, Testa, Jorio, Passio, Galante, Gentili e, più tardi, dei Popolla, Marcila, Panfili e Perlini.

Le 700 circa anime che al principio del Cinquecento abitavano nel castrum S. Stephani, discendevano nella maggior parte del gruppo etnico della comunità a valle composto dal nucleo volsco latinizzato, al quale si erano integrate le componenti allogene ad essa aggregate. L'incastellamento aveva messo questa popolazione vicino ad un gruppo etnico formato dai cavalieri di origine germanica ed i loro armigeri che, nel castrum, rappresentavano l'autorità dei conti di Ceccano, che con il passare degli anni si imparentò con i benestanti di schiatta latina dando vita alla classe dei mìlites, o signori, che ressero il paese fino alla fine del Cinquecento; anche nella classe villana non mancavano imparentamenti con genti dei paesi vicini, conosciute nelle fiere o nelle zone di confine territoriale, ma questa rimase etnicamente più vicina alla sua origine volsco-Iatina. Il panorama onomastico di S. Stefano, documenta la fluttuazione demografica del contenuto etnico della popolazione, e sfata il concetto di un paese geograficamente e culturalmente isolato, e rivela anche la tendenza del gruppo etnico locale ad assimilare i nuovi venuti.

I casati più antichi avevano già al principio del secolo XVI un nome comune che si applicava a tutta una gente legata anche lontanamente nella consanguineità;

questi nomi di famiglia diventarono poi cognomi, Bonomo, Tambucci, Palombo, Petrilli, Gori, Lucarini, Leo, Croce, Grande, Paggiossi, Poci, Prosperi. Ma non tutti i gruppi famigliari avevano acquisito un cognome stabile, e nella convivenza giornaliera i patronimici erano di comune uso: Luca di Antonio, Giovanni di Antonio Giovanni, Antonio di mastro Antonio, Marco di mastro Janni, Fabrizio di mastro Anton Paolo, Sebastiano di mastro Pietro.

Anche nella classe notarile che incominciò ad occupare una posizione sociale sempre più importante nella società cinquecentesca si fece largo uso dei patronimici: Antonio di Filippo, Pietro di Giulio, Nicola e Ascanio di Marcantonio. Durante il medioevo non si usava tener registri di nascite o battesimi, ma alcuni parroci già dal Trecento avevano preso a trascrivere nei libri di chiesa gli atti battesimali per poter prevenire più facilmente matrimoni tra consanguinei; fu solo dopo il Concilio di Trento che la registrazione dei battesimi nelle parrocchie divenne obbligatoria e ciò rese necessaria la sistemazione dei cognomi; e quando questi mancavano, se ne improvvisa uno utilizzando patronimici, patria di origine nel caso di forestieri, soprannomi e nomignoli derivati da caratteristiche fìsiche, morali e di nascita e anche qualifiche di mestiere: Pietro di Gian Battista, Giovanni di Nicola di mastro Pietro Palombo, Giacomo di Antonio Giacobbe, Cesario De Filippi, Biagio Carlone, Berardino Camusio, Giovanni Rosso, Giulio del Nero, Giovanni di Nicola Bonono, Antonio Volpe, Antonio Toppetta, Antonio Diodato; Andrea Macellaro, Antonio Muratore; e tra gli oriundi forestieri: Fabio Alvitano, Federico Bolognese, Angelo Reatino.

D'interesse dal punto di vista della storia sociale è la formazione dei cognomi delle famiglie ebraiche di antica conversione al cattolicesimo. La più importante di queste fu quella dei Leo, cognome che è diretta traduzione dell'ebraico Giuda cioè Leone; in questa gente si ripete, dai tempi più antichi fino ai nostri giorni, l'uso di nomi romani: Venanzio, Fulvio, Valente, Massimiano, Costantino, Ottaviano, Pompeo, Lucrezia, Flavia, il che fa pensare che lo stipite sia stato un liberto romano trasferitesi durante l'impero nella valle dell'Amaseno.

Altri cognomi di netta estrazione giudaica a S. Stefano nel Cinquecento furono quelli delle famiglie di mastro Giovanni Rabini, di Sebastiano Salemme e Gaetuno Saulo; ma non mancavano cognomi derivati da nomignoli spesso dispregiativi dati, secondo l'usanza dei tempi, ad ebrei, e che a S. Stefano si riscontrano nelle famiglie Rapinci, Sarrapicia, Volpe e soprattutto nel casato dei Poce, uno dei più antichi e rispettati del paese, trascritto variamente come Poce, Pocio, Poccia, Pulice. Questa famiglia ebbe case nella Guìzia.

Nella scelta di nomi di battesimo c'era con i maschi una netta preferenza per quelli tradizionalmente romano-cristiani: Giovanni, Antonio, Pietro, Giacomo, Sempronio. Prospero, Fabio, Libero, Onorato; ma non mancavano quelli germanici, come Aloisio, Roberto e soprattutto Berardo e Berardino diventato comune al tempo di Berardo, secondogenito del conte Giovanni di Ceccano e discendente per parte di madre dai conti Berardi d'Albe della Marsica.

Nei nomi femminili c'era anche la componente romano-cristiana, non senza però una tendenza agli esotici:

Morgana, Nanna, Berardina, Sindrella, Alteria, Lucrezia, Francesca, Beatrice, Violante, Vittoria, Angiolella.

Le famiglie più notabili del paese durante il Cinquecento furono quelle dei Bonomo, Croce, Filippi, Giacobbe, Gori, Leo, Lucarini, Marcantonio, Palombo, Foci, Petrilli, Pulici, Sfarra, Tambucci e Valle; i personaggi più importanti: don Libero Lucarini e don Filippo Croce ecclesiastici; Libero Palombo, Antonio di Filippo, Niccolò di Ascanio, Marco di Antonio, Ascanio di Marcantonio e Pietro Gori notai; Pietro Bonomo e Giovanni Cori pubblici ufficiali, Antonio Poccia esattore; altre persone importanti per censo e posizione pubblica furono:

Roberto Croce, Govanni Leo, Mario Palombo, Antonio Rossi, Luigi Petrilli, Bernardino Sfarra, Antonio e Stefano Valle e Andrea Viella; tra i mastri artigiani primeggiano: Andrea Poci, Angelo Reatini, Giovanni Rabini, Giacomo Tambucci e Benedetto Leo; e tra i più facoltosi: Giacomo di Antonio Giacobbe, Giovanni Gori, Aloisio Palombo, Niccolo Viola, Prospero Polici, Giovanni di Francesco Foci, don Federico Croce, Prospero Lucarini e Antonio Petrilli.

La popolazione era così distribuita per contrade: alla Portella abitavano Giovanni, Paolo e Luca-Antonio Gori, Girolamo Valle, Tommaso Mariani, Giovanni di Antonio Giovanni, Antonio Coletti, Roberto e Antonio Croce, Giorgio e Pietro Bonomo, Giovanni di Antonio Stefani, Giacomo di Antonio, mastro Giacomo, Giovanni, Biagio, Luciano e Marco Tambucci, Antonio Zimechi, Ambrogio Granozio, Biagio Marini, Biagio Poci, mastro Pietro Martini, Giovanni di mastro Pietro, Berardo Cioffi, Fabio Cajani ed altri; alla Chiesa e Sotto: Antonio Giacobbe, rev. Federico Croce, Nicola Viola, Antonio Volpe, Antonio di Berardino, Sebastiano Minna, Antonio e Pietro Petrilli, Giacomo Valle, Aloisio Palombo, Benedetto, Adornato, mastro Benedetto e Pompeo Leo, mastro Antonio Diodato, Bartolomeo e mastro Antonio Giusti, Andrea Macellaro, Nicola Bonomo, rev. Libero di Lucio, Lattanzio Masi, Berardo, Paolo e Prospero Lucarini. Benedetto Palombo, Giulio e Giovanni Tambucci, Bartolomeo Cioffi ed altri; alla Piazza e Sotto: mastro Giovanni Rabini, Angelo Lucarini, Pietro e Giuseppe Tambucci, Berardino Camusio, i signori Antonio e Pietro, il notaio Libero e Sempronio Palombo, Giacomo Gentile, Antonio di mastro Antonio, Andrea, Felice e Giulio Cianfrilli, Antonio Panici, Pietro Lombardi o Longobardi, Pietro e Giovanni Bonomo, mastro Angelo Reatini, Paolo Leo, Bartolomeo Arduini ed altri; all'Ospedale: Girolamo e Niccolo Sfarra, Giacomo di Marocia, Nanna Gori-Rabini, Giovanni Palombo, Prospero e Niccolo Petrilli, Andrea e Giovanni Sebastiani; alla Guìzia: Libero, Bernardo, Giovanni, Antonio e Giacomo Lucarini, Giovanni di Prospero, Antonio Giacomo e Marco Palombo, Prospero Pulici, Berardino Masi, notaio Pietro di Giulio, mastro Giovanni di Pietro, Giulio di Catarina ed altri; a S. Pietro: Marco Sfarra, Antonio Moroni, Onorato e Francesco Caimi, Fabrizio Paoli, Pietro di Andrea, Nicola di mastro Nicola, Nicola Prosperi; al Campodoglio: Giacomo Parelli, Prospero e Lucrezia Leo, Nicola di Meo, Marco Martini, Giovanni Cianfrilli, Nicola di mastro Antonio, Berardino Viella, Antonio Cardaso, Giovanni di Benedetto, Antonio Rapinci, Giovanni e Pietro Bono di Sonnino; a Porta Cimino: Fabio Alvitano, Giacomo di Nicola di Prospero, Libero Palombo; a Corte: il notaio Ascanio, Andrea Macellaro, Prospero di Gregorio, Fabio Palombo, Berardino, Giacomo, Nicola di Ottaviano e Valente Leo, Giovanni di Giovanni, Antonio di Catarina, Giacomo Martelli e Rosato Ricci (3).

Il Seicento, secolo d'incubazione sociale e d'introspezione religiosa, vide a S. Stefano un rassodamento della situazione demografica rivitalizzata, verso la metà del secolo, da un influsso di famiglie forestiere; compaiono per la prima volta nell’anagrafe del paese i casati Bravo, Jorio, Testa, Carlone, Tranelli ed altri che ebbero un ruolo importante nella levitazione sociale ed economica che rese possibile quella esplosione di vitalità nel Settecento anche a S. Stefano, dove il secolo si aprì con l'apparizione della Madonna dello Spirito Santo e si chiuse al canto della Marsigliese.

Al culto severo della morte subentrò uno spirito di kermesse con feste, processioni e pellegrinaggi che rimescolò anche la dinamica sociale; s'è già parlato della rinascita economica in seguito all'introduzione di nuove colture agricole e del febbrile ritmo di costruzioni che portò al ripopolamento delle contrade di Campodoglio, S. Pietro e Ospedale, all'apertura del complesso edilizio del Borgonuovo, all'erezione del santuario della Madonna dello Spirito Santo e della nuova chiesa parrocchiale in stile barocco.

L'afflusso di stranieri continuò durante questo secolo con l'arrivo della famiglie Bolognese, Fiocco, Passio, Martucci, Palladini, Ferrari, Ruggieri ed altre, che insieme a quelle Jorio e Bravo venute nel secolo precedente, contrastarono alle vecchie famiglie il controllo sulla vita politica ed economica del paese. I Bravo sembra siano venuti dalla Marsica, e a S. Stefano li troviamo molto attivi nella vita ecclesiastica con vari sacerdoti, tra i quali l'arciprete don Stefano Bravo morto il 1815, e come maestri di scuola ed ufficiali comunali; la loro dimora fu, e rimane ancora, in contrada Campidoglio in fondo all'odierno vicolo Bellavista, ma ebbero casa anche alla Urizzia.

Nulla di certo si conosce sulla provenienza della gente Jorio; è probabile che sia originaria del casertano e che lo stipite sia venuto con mansioni amministrative per conto di casa Colonna (4).

Verso la fine del Seicento e gl'inizi del Settecento, il gruppo famigliare Jorio era composto di cinque fratelli che abitavano in un palazzetto all'alto di via della Rocca sotto il castello e nelle adiacenze di piazza dell'Olmo, personaggi tutti benestanti ed in posizioni di comando negli affari della comunità: Pietro, Filippo e Domenico si susseguirono nella carica di sindaco nel decennio 1670-1680, Giovanni Antonio fu notaio, mentre Biagio sembra essersi dedicato all'agricoltura e commercio. Durante il Settecento questo casato crebbe in numero ed importanza, e nella prima parte del secolo primeggiarono nella vita cittadina: il « dominus Andreas Jorius » notaio ed ufficiale del governo comunale che nel 1719 abbiamo visto intervenire nelle discussioni del Consiglio sul debito pubblico; Virgilio Jorio, anch'egli ufficiale pubblico e personaggio tra i più illuminati del paese; « Dominicus Jorius quondam Blasij Terre S. Stephani publicus depositarius cancellarius » tra il 1732-1734; un altro notaio, Giovanni Antonio il quale viveva ancora nel 1753, la cui figlia Camilla aveva sposato Francesco Carlone; ed infine il « dominus Marcantonius Jorius » che fu una delle personalità più notabili del paese (5).

L'improvvisa comparsa, a metà Settecento, di Marcantonio Jorio come uno dei più facoltosi cittadini fa pensare ad un matrimonio tra quella che doveva essere la figlia unica del notaio Ascanio di Marcantonio e di sua moglie Angelella, con uno dei fratelli Jorio, probabilmente Domenico, che portò al consolidamento dell'importante casato dei Marcantonio con quello degli Jorio.

Marcantonio Jorio aveva casa sulla Piazza adiacente alla curia comunale nel complesso edilizio della Porta, con ingresso a sinistra dell'imbocco della Loggia, condiviso con un altro e più eminente cittadino, il luogotenente baronale Giovan Andrea Passio la cui casa era all'altro lato dell'ingresso della Loggia. Marcantonio vi abitava con la moglie Lucia ed i figli Giacomo, che poi acquistò e rimodernò il castello ceccanese, e don Domenico il cui nome è ancora visibile inciso sopra la finestra sull'arca della Loggia; parte di questa proprietà è ancora nelle mani dei discendenti di Marcantonio, nome che si è ripetuto fino ad oggi nella discendenza. La famiglia Jorio fu estremamente prolifica creando vari casati nei quali i nomi di Domenico, Andrea, Antonio, Filippo, Virgilio e Biagio ricompaiono di generazione in generazione, secondo l’uso.

Nell'Ottocento troviamo rappresentanti di questo casato nella vita sociale e politica di S. Stefano: Antonio, brigante che si costituì nel 1814; Giovan Battista figlio del notaio Giovanni, sindaco varie volte; Pasquale, ufficiale comunale; Domenico, maire cioè sindaco repubblicano; Virgilio, esattore comunale nel 1818; Gaspare, ufficiale comunale; Filippo Jorio Carlone, padre del cardinale Domenico ed altri.

La prima famiglia di S. Stefano durante il Settecento fu quella dei Passio; neanche di essa si conosce la provenienza e la data d'arrivo, ma Romualdo Passio era già nel paese nel 1719. I suoi figli occuparono i primi posti nella comunità: Giovanni Andrea fu amministratore dei beni di casa Colonna e luogotenente feudale, ed il fratello don Giuseppe, come vicario foraneo, rappresentò l'autorità ecclesiastica. Abitarono nella Piazza, nel palazzetto a destra dell'imbocco della Loggia, con il lungo profferlo che ancor oggi affianca l'inizio di via Gentile.

Giovanni Andrea fu l'uomo più influente e facoltoso del paese, come amministratore e rappresentante dei Colonna ebbe ampia possibilità di formarsi un grande patrimonio; i Passio scomparvero rapidamente, ricordati solo per il nome « terre di Passio » dato ancora a certe proprietà a valle e per la leggenda della « contessa pazza » che i vecchi raccontavano fino ad alcuni anni addietro. Al principio dell'Ottocento, rimaneva solo un rampollo di questa famiglia a S. Stefano, forse un nipote, Francesco Passio, sindaco repubblicano, maire, nel 1812, dopo di che il nome scompare dagli annali. Giovanni Andrea Passio fu il vero padrone di S. Stefano per buona parte del Settecento, finché una fosca tragedia della quale fu protagonista forzò l'autorità feudale-ecclesiastica a relegarlo al confino. Uomo che ci teneva alla sua posizione sociale e che, non scevro di suscettibilità nobiliari, amava a volte firmarsi de Passi o de Passijs, aveva sposato Maria Bernardi, forestiera anche lei, donna senz'altro avvenente, forse più giovane di lui e di carattere vivace e godereccio. Mancano carte d'archivio per documentare la tragedia della « contessa pazza », e bisogna perciò riferirla nella narrazione popolare tenendo conto della tendenziosità, malizia e malevolezza che colorano questi racconti.

La contessa Maria Bernardi amava le riunioni conviviali e l'allegria e non disdegnava nemmeno le attenzioni degli uomini; il marito Giovanni Andrea, di tutt’altro stampo, ingelosito e sospettoso, un giorno la seguì che era andata a cogliere frutta in un loro orto fuori Porta e trovatala con un altro uomo, freddò costui con una schioppettata. Nonostante la sua posizione ed influenza, il Passio fu costretto ad andare in confino a Castro. Il fatto di sangue impressionò profondamente la donna, la quale perse tutta la sua vivacità e precipitò in uno stato di abbattimento che ne fece una reclusa nelle sue camere e la sconvolse mentalmente.

Ad approfittare dello sbandamento mentale della signora Passio, si fecero avanti due avventurieri locali di buona famiglia, zio ecclesiastico e nipote ambizioso, che spregiudicatamente raggirarono la povera donna rimasta sola — il cognato don Giuseppe doveva essere già morto.

I Passio avevano un giovane figlio studente al seminario diocesano; durante una sua vacanza in paese, il giovanotto era andato a passeggio con i due avventurieri verso le Fontanelle, quando dalle fratte sbucarono dei briganti facendo fuoco sui tre che si erano dati alla fuga, e nella sparatoria rimase ucciso il giovane Passio. Non mancarono voci in paese che accusavano i due avventurieri di aver organizzato l'agguato. Colpita da questa nuova tragedia, la signora Passio si ritirò nelle camere del piano superiore della sua casa segregandosi completamente da tutti, e nello stato di plagio nel quale si trovava, affidò l'amministrazione dei suoi beni ai due avventurieri. Questi, avvantaggiandosi dell'atmosfera libertina di quegli anni che avevano portata la rivoluzione francese fino a S. Stefano, aprirono le sale di casa Passio a feste e balli frequentati da giovanotti che con la scusa del beretto frigio si davano alla pazza gioia, organizzando perfino quei balletti angelici, come vennero definiti dalla gente del paese, ai quali partecipavano uomini e donne ignude.

Secondo il racconto, durante una di queste orge, qualcuno forse ubriaco salì nel piano superiore e forzò la signora Passio a scendere per farla partecipare al festino; l'effetto della scena orgiastica che le si presentò ed il pesante rimorso per tutto quanto era risultato dalla sua leggerezza, fecero ancor più retrocedere la donna nel buio che si era creato nella sua mente; si ritirò a vivere nell'Ospedale nuovo, dopo aver sborsato ai due avventurieri «la somma di scudi 500 provenienti da residuale della sua dote, con obbligarsi essi... (a) pagare alla detta Passio mensilmente ed anticipatamente la somma di scudi 4,16 unica rendita tenue rimastali per poter la medesima sussistere mentre vive ». Nel 1823 la troviamo che ricorreva alle autorità perché i suddetti signori erano «morosi al pagamento... mensile» (6). I beni dei Passio vennero venduti o per riversione tornarono ai Colonna.

Tra gli ultimi casati di una certa importanza a trasferirsi a S. Stefano nel Settecento fu quello dei Popolla, che dominò la vita politica di S. Stefano fino a metà Ottocento, e che come quello dei Passio si disperse a seguito di una tragedia. Giacinto Popolla « nato in S. Lorenzo da giovane si portò a S. Stefano nella casa dello zio materno ove a conto di esso esercitò l'ufficio di procancelliere baronale per alcuni anni », diventando quindi luogotenente ed affittuario dei Colonna (7). Chi sia stato questo « zio materno » del Popolla non è chiaro, forse il Passio, o Giacomo Jorio; la famiglia Popolla ebbe in proprietà il «palazzo del marchese». A lui succedette il figlio Gian Lorenzo, enfìteuta di casa Colonna a S. Stefano e, caduto il regime feudale, vice governatore del paese per vari anni, trasferendosi quindi a Roma.

La famiglia, che come al solito aveva accumulato notevoli beni patrimoniali, rimase domiciliata a S. Stefano e nel 1857 troviamo il figlio di Gian Lorenzo, Filippo, eletto esattore con garanzia offerta dal padre. La famiglia Popolla era ancora tra le prime per censo nel paese al principio del Novecento, quando fu colta da una inaspettata tragedia. Un pomeriggio, sor Gigi Popolla si trovava in una cantina di proprietà dei Bravo alla Portella quando entrò l'usciere comunale, armato come il solito di doppietta; sor Gigi, uomo allegro e burlone per natura, prese a far chiacchiere e parlando scherzosamente chiamò l'usciere spiccapatelle per il fatto che l'usciere giudiziario aveva la responsabilità di pignorare utensili e attrezzi per arretrati di tasse, imposte ecc.; l'usciere, uomo permaloso, imbracciò lo schioppo e lo ammazzò. La moglie e le fìglie vendettero tutto ed emigrarono negli Stati Uniti.

Gli ultimi arrivati del Settecento furono due settentrionali: un torinese di nome Mattia Castellano che vi rimase solo per breve tempo; l'altro, Giuseppe Buzzolini, milanese di Como, vi prese moglie e prese a lavorare da muratore, mestiere nel quale lo seguirono i figli. L'afflusso di famiglie forestiere durante questo secolo aveva ridotto il primato economico e sociale dei vecchi casati, ma essi continuavano ad occupare posizioni di rilevanza nella struttura comunale: don Giuseppe e don Antonio Bonomo o Bonomi furono canonici beneficiati, Pietro e Matteo ufficiali comunali; Giovan Battista Leo fu luogotenente baronale, Giovanni ufficiale comunale. Michele custode degli Agri pubblici, Pietro Antonio notaio, Giovan Battista ecclesiastico; Ambrosio Lucarini sindaco, Carlo e Filippo consiglieri comunali; Salvatore Masi consigliere; Domenico e Pietro Palombo ecclesiastici, Giovanni consigliere comunale e Francesco sindaco; Bartolomeo e Matteo Petrilli mandatari e Giovan Battista consigliere comunale; Antonio Poccia esattore e Paolo Antonio sindaco; Vincenzo Reatini mandatario; Erasmo Rossi mandatario e Giovanni sindaco; Ignazio Tambucci arciprete e don Luigi ecclesiastico.

Nuove famiglie arrivarono nell'Ottocento, tra esse quelle dei Perlini, Panfili, Marella, Anelli ed altre. Durante questo secolo l'onomastica santostefanese subì un ampio processo di diversificazione: per differenziare tra i componenti di una gente entro la quale si ripetevano spesso gli stessi nomi, si ricorse all'aggiunta di soprannomi, con la stessa logica dell’agnomen romano; esigenza che dette poi mano libera alla tendenza già presente nel linguaggio popolare a classificare nelle singole persone i temperamenti e peculiarità individuali, creando una nuova e pittoresca anagrafe che, nell'uso comune, distingue ancora oggi le varie stirpi di una gente. Eccone alcuni estratti da documenti della prima metà del secolo XIX: Angelo Lucarini Leggiero, Francesco Lucarini la Penta, Chiara Rossi Schioppo, Giuseppe Rossi Pappone, Lucia Palombo Cafegna, Angela Palombo Scarapincia, GioBatta Bonomo Caluffo, Lucia Fiocco Musicante, Francesco Titi Pallocchitti, Rocco Filippo Sentinella, Domenico Tranelli Vecchione, Carlo Galli Cocciolone, Rosa Leo Vertecchia, Giuseppe Jorio l'Avvocato, Luigi Jorio Pauruso, Angelo Jorio Marcone, Biagio Jorio Carlone; e poi: Ruagnolo, Cipollaro, Polenta, Panciacca, Ghiavone, Sordo, Zoppo, Ciacculetta, Trezzampe, Pizzacalla e così via ad infinitum.

Nel Settecento, oltre al panorama demografico, era cambiato anche il rapporto economico, con le nuove famiglie decisamente in testa alla categoria dei benestanti, come risulta dal Catasto del 1753 che elenca così i censi delle maggiori famiglie:

Giovanni Andrea Passio scudi 190,50

Marcantonio Jorio » 125,75

Francesco fu Giovan Battista Jorio » 116,50

Notaio Andrea Jorio » 111,80

Felicia vedova di Francesco Palombo » 105,00

Giovan Battista Testa » 96,66

Massimiano Leo » 89,40

Francesco e Vito Jorio » 75,90

Antonio Lucarini » 72,00

Giacomo di Marcantonio Jorio » 61,35

Tomasso fu Cesare Palombo » 61,00

Domenico di Pietro Jorio » 60,00

Notaio Giovanni Antonio Jorio » 59,70

Caterina Galante » 56,35

Paolo Jacoucci » 54,05

Giuseppe Jorio e fratelli » 52,80

Domenico e Giulio Lucarini » 52,00

Romano e Domenico Palombo-Olivieri » 51,00

Paolo Antonio Poccia » 50,90

Camilla Carlone » 50,60

Francesco Galante » 50,20

L'incremento demografico che si verifìcò nel Settecento portò ad una ridistribuzione della popolazione dentro le mura castellane accompagnata da una intensificazione delle attività edilizie, e da un nuovo assetto topografico. Scompaiono i nomi di alcune vecchie contrade e vengono in uso sempre più i nomi di strade. L'espansione edilizia della contrada Corte proseguì lungo la via della Rocca fino a sotto il castello e piazza dell'Olmo; nella Urizzia venne aperta la via del Forno da capo che dalle case dei Leo che vi sorsero ai lati prese poi il nome di via Leonina, raggiungendo via dell'Ospedale nuovo, oggi via Lata, che dall'arco della Rocca scendeva ad incontrare via Rolognese che dall'Ospedale vecchio portava a S. Pietro; tutti gli spazi vuoti in queste zone, come a S. Pietro e in Campodoglio, scomparvero per il sorgervi di nuovi caseggiati, come attestano le date incise su alcuni archi di portone; rimaneva aperta sotto la chiesa l'area a giardino che dette a quella parte il nome di Campo di fiori, e su parte della quale sorse poi la casa dei Marella. Ma forse il cambiamento maggiore si ebbe con l'apertura del Borgonovo sotto Campodoglio verso la Portella che ripopolò fittamente la parte bassa del paese.

Verso metà Settecento il catasto di S. Stefano elencava 152 capifamiglia possidenti per una popolazione totale di circa 912 anime, senza contare i nullatenenti, gli indigenti ed altri elementi socialmente ed economicamente marginali. Ecco un quadro riassuntivo della distribuzione della popolazione sempre in base ai dati catastali:

Campodoglio 168 - 18,2%

Piazza 108 - 11,8

Rocca 108 - 11,8

Sotto la Piazza 84 - 9,2

Portella 60 - 6,6

S. Pietro 60 - 6,6

Aurizia 48 - 5,3

Campo di Fiore 48 - 5,3

Forno di mezzo 42 - 4,6

Sotto la Chiesa 36 - 4,1

Chiesa 30 - 3,3

Forno da capo 30 - 3,3

Ospedale nuovo 30 - 3,3

Ospedale vecchio 30 - 3,3

Forno da piedi o della Portella 18 - 2,0

Sottoportico Bolognese 12 - 1,3

In un giro per il paese durante questi anni, ci si sarebbe imbattuti e forse indugiati a far chiacchiere con gli antenati della maggior parte della popolazione odierna.

A Campodoglio abitavano: don Michele Bravo col fratello; mastro Giovanni Fiocco; Giovanni e Domenico Leo; Mattia Luciani; Agostino e Mattia Masi; Andrea e Domenico Palombo; Daniele Reatini; Francesco e Giovanni Rossi e Maria Toppetta vedova di Carlo Rossi; don Ignazio Tambucci, poi arciprete; Antonio, Girolamo e Carlo Titi; Giuseppe Toppetta; Giovanni, Salvatore, Giovan Battista e Sebastiano Tranelli; Francesco Valletta; Pietro Viella ed altri.

Alla Piazza e Sotto: Marianna Betti, della famiglia ungherese dei conti Beczy-Csaki; Giovanni Andrea Passio con la moglie Maria Bernardi ed il fratello don Giuseppe, vicario foraneo; Marcantonio Jorio con la moglie Lucia ed i figli Giacomo e don Domenico; Biagio fu Virgilio, Giuseppe e fratelli, Francesco fu Giovan Battista e Biagio Jorio con la moglie Petronilla Fiocco; Paolo de Fabijs; Stefano di Antonio Lucarini; Francesco, Giuseppe, Silvestro, Giovanni e Geralda Palombo; Paolo Antonio Poccia; mastro Giacinto e Carlo Reatini; Rocco e Giovanni Tambucci.

A Chiesa e Sotto: Matteo Bonomo; Camilla Carlone, nel vicolo della Chiesa, oggi della Sagrestia; Giovanni Carlo e Francesco Galante; Ermenegildo Gentile; Antonino Palombo; mastro Giovan Battista Petrilli; Giovan Battista Testa; Carlo fu Gaudioso, Carlo fu Giuseppe e Giovan Battista Tranelli.

Alla Portella: Giuseppe Bonomo; Cesario Filippi; Rosa Giacchitelli; Giovanni, Giacomo e Alessandro Jorio; Pietro Lucarini; Antonio Maselli; Domenico Rossi.

A S. Pietro: Carlo Coco; Paolo Jacoucci, Francesco fu Antonio Jorio; Margherita fu Loreto Lucarini; Giovanni Luciani; Biagio Pagliei con la moglie Maria Stella; Filippo Toppetta; Stefano Tranelli.

Al Forno di mezzo: Paolo Grande, Giuseppe Jannotti, Felicia di Nicola Lucarini; Domenico fu Giuseppe e Lorenzo Toppetta.

Al Forno da piedi: Antonio Galante; Paolo di Pio Palombo; Eleuterio Ricci.

Al Campo di Fiori: Venanzio Leo; Giovan Battista Lucarini; Salvatore Masi; Caterina Paggiossi; Paolo fu Nicola Palombo; Pietro Poccia; Sebastiano e Desiderio Toppetta.

Alla Urizia: Antonio e Carlo fu Pietro Lucarini; Stefano, Tomasso fu Cesare, Tomasso fu Giuseppe e Domenico fu Onorato Palombo.

Ospedale vecchio: Giulio Cesare Olivieri; Romeo e Domenico Palombo « di cognome Olivieri »; Gaetano Reatini; Mariangela Tambucci; Loreta Toppetta.

All’Ospedale nuovo: Giuseppe, Santuccio e Francesco Galante; Maria e Cristofaro Leo; Eugenio Lucarini.

Al Sottoportico bolognese: Tomasso Paggiossi; Nicola Tranelli.

Al Forno da capo: Massimiano Leo; Francesco Bravo; Domenico e Giuseppe Fiocco; Gennaro Paggiossi; Matteo Palombo.

Alla Rocca: notaio Andrea Jorio; Domenico di Pietro, Matteo e Vito, notaio Giovanni Antonio Jorio; Filippo Leo; Domenico e Giulio, Delicata e Maria, Michele, Felicia fu Domenico e Stefano di Gabriele Lucarini; Teresa Maseli; Dionisia Masi; Clemenzia Palladini; Paolo fu Francesco Palombo; Agostino Titi; notaio Giovan Battista e Giovanni Toppetti.

Questo assetto topo-demografico si conservò fino all'ultimo Ottocento, con la popolazione oscillante tra i 1000 e i 1500 abitanti. Si ebbe anche una oscillazione economica a favore di alcune famiglie venute da fuori: Popolla, Perlini, Panfili, Marella ed altre. Due fattori incisero sulla situazione demografica di S. Stefano: le ondate di colera che si abbatterono sull'Italia e l'Europa e l'emigrazione oltratlantica che acquistò un sempre più forte impulso verso la fine del secolo; ma la crescita demografica che si registrava dappertutto allora in Europa minimizzò le perdite, ed al principio del Novecento la popolazione era arrivata a quel livello mantenuto fino al presente.

 

(1) I dati demografici e sociali in questo capitolo, se non attribuiti ad altre fonti, provengono dai catasti di S. Stefano ed altro materiale dell'ACVSS. La formula per calcolare la popolazione è quella comunemente usata di moltipliicare ciascun capofamiglia per 6.

(2) ASF. B/1139 F/2941; B/1144; B/1159; F/2890.

(3) I cognomi che terminano in i sono generalmente adattazioni del patronimico.

(4) II cognome Jorio appare variamente scritto nei documenti: Jorius, Jorij, Jorio, Iori; esso deriva dal nome Giorgio, come si vede in due tratti del Diario di Stefano Infessura: «A dì 23 aprile, lo dì di S. Iorio...» ed altrove «Vennero et pigliarono porta Accia lo dì di santo Iorio a dì 23 aprile ».

(5) ACVSS/Sed. Cons., passim.

(6) La storia della « contessa pazza » venne narrata con vividezza di particolari ali'autore da Mariangela Paggiossi, ultranovantenne, nel 1980, e nel passato era corrente tra le persone anziane che raccontavano i fatti del paese. Per il ricovero della Bernardi nell'ospedale, v. ASF B/1143.

(7) ASF. B/1132.

 

 
 

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