Cap. 8 - CONDIZIONE SOCIALE

Chi è cresciuto in un paese come Villa S. Stefano durante i primi decenni del presente secolo si è trovato a vivere al margine del medioevo. Quel raro seme d'umanesimo che cadde nelle terre del Basso Lazio si consumò sul rogo con Aonio Paleario di Veroli, e neanche la breve spalancata di finestre seguita all'arrivo delle armate repubblicane francesi ebbe risultati durevoli. L'abolizione del sistema feudale lasciò intatta la mentalità da esso alimentata, e che riuscì a preservarsi oltre il regime del Buon governo, quello sabaudo e fascista, fino alla rivoluzione sociale dei nostri giorni; e non solo> politicamente e socialmente, ma anche in materia di religione; non sono pochi a ricordare ancora quando, durante le missioni, il predicatore si flagellava a sangue tra i pianti e le grida isteriche dei fedeli adunati in chiesa, peccatis exigentibus, secondo la vecchia formula.

E' possibile ricostruire abbastanza accuratamente, in base agli statuti comunali, la condizione sociale che prevaleva nelle comunità rurali come quelle di S. Stefano, condizione la quale, dato il lento processo dei cambiamenti sociali nell'ultimo millennio, rimase essenzialmente immutata dal Mille.

La società rurale era divisa in due classi: quella dei signori, i nobiles e mìlites, e quella dei villani o pedites, cioè quelli che accompagnavano il feudatario in battaglia a piedi. Questa distinzione di classe si trovava indicata nei documenti del Cinquecento di S. Stefano con il prefisso dominus o signore al nome, dato anche agli appartenenti alla casta ecclesiastica.

Non si venne mai a formare una classe media o borghese, anche perché gli artigiani e commercianti i quali avrebbero potuto costituirla rimasero in effetti lavoratori della terra e coltivatori diretti, e perciò a far parte della classe villana. La divisione di classe, che era stata all'origine militare, poi affermatasi economicamente, divenne parte essenziale del sistema sociale e regolò a lungo i matrimoni che così la preservavano.

Ma la classe signorile, ristretta in numero, non poteva sempre provvedere a matrimoni nell'ambito della propria condizione sociale dato che non era pensabile che una figlia di signore sposasse un figlio di villano o anche di artigiano, si doveva ricorrere così a sistemazioni forestiere o ad unioni tra consanguinei, e nel primo caso c'era l'inconveniente del passaggio di beni dotali in mano a proprietari di altri paesi; non era però raro il caso che i discendenti di queste unioni con forestieri si trasferissero stabilmente a S. Stefano, come nel caso di quelli di Tornasse e Muzio Marella di Ceccano. Il cardine di questa società era l'istituto famigliare nel quale si assommavano valori sociali, politici, economici e religiosi, con il capofamiglia in possesso di molti dei diritti e prerogative del poter familias romano; egli era il fattore della proprietà, membro del Consiglio generale della comunità, responsabile del focatico e per l'imponibile catastale; decideva sui matrimoni e sulla successione. Tutti i membri della famiglia gli dovevano rispetto ed obbedienza, ed egli aveva il diritto di « castigare la famiglia, anche famigliare o servitore suo... et... non sia tenuto a pena alcuna, se non per huomicidii et percosse fatte con arme di ferro... e con effusione di sangue sfoderate », ma allo stesso tempo era responsabile di danni dati ad altri dai componenti della sua famiglia che, nel caso che egli forse anche capomastro, includeva apprendisti, manuali ed altri operai che lavoravano alle sue dipendenze (1).

Forse una delle sue più importanti responsabilità sociali era la divisione della proprietà tra gli eredi e l'assegnazione della dote per le figlie; la preparazione del testamento era, dopo la procreazione, l'atto supremo della sua vita in quanto nella successione e nella progenie che sarebbe venuta a godere di questi beni si perpetuava la famiglia e la propria gente. Il testamento non era soltanto un atto di successione, ma in esso erano spiritualmente presenti tanto i morti, quanto quelli da nascere, e occorreva perciò provvedere anche all'eterno riposo dei propri morti passati presenti e futuri con lasciti e donazioni pie (2).

L'attaccamento alla famiglia, cioè alla propria gente nel senso latino di questa parola, era un fattore sociale di grande importanza, e il capo famiglia che non aveva eredi rimetteva i suoi beni, ma non quelli della moglie, nell'ambito della sua gente, come faceva con testamento del 30 luglio 1795 Biagio Jorio del quondam Domenico lasciando tutti i suoi beni ai « suoi nipoti carnali figli del quondam Giuseppe di lui germano fratello » specificando che ne assegnassero parte per le doti delle sorelle Virgilia e Margherita (3).

L'assegnazione della dote richiedeva particolare attenzione da parte del capofamiglia, signore o villano che fosse, in quanto costituiva uno stralcio di beni dal patrimonio famigliare che così passavano a quello di un'altra gente; d'altra parte, la sistemazione della figlia dipendeva dall'entità della sua dote. La dote aveva in oltre un valore sociale in quanto essa conferiva personalità giuridica alla donna, i cui beni dotali rimanevano di sua proprietà, erano allibrati separatamente a quelli del marito, e spettava a lei disporne testamentariamente.

Un documento del 1771 c'informa « che sia stata lite fra Angelo ed Ermenegildo Gentile da una parte, e Domenico Paggiosso... sopra un testamento della quondam Cecilia di loro sorella, e moglie, avendo lasciato usufruttuario il suddetto Domenico suo marito sopra li suoi beni... e doppo ricade alla ven. Confraternita del Purgatorio di S. Stefano »; il testamento, rogato nel 1757, attesta l'assoluta proprietà della donna sopra i suoi beni dotali, che infatti passarono al Purgatorio dopo la morte di Domenico Paggiossi (4).

Un altro documento, il testamento di Petronilla Fiocco, oltre ad illustrare la libertà della donna a disporre dei propri beni, ci rivela anche lo stato d'animo di una donna di famiglia benestante nel suo rapporto alla vita presente e a quella dell'aldilà: «Avanti a me notare... (il testamento venne rogato il 17 novembre 1770 dal notaio Giovan Battista Toppetta) Petronilla Fiocco di un Giovanni... moglie di Biagio Jorio... della terra di S. Stefano... a me cognita, la quale giace nel suo letto inferma però di corpo, sana per la Dio grazia di mente... sapendo esser certa la morte, incerta però l'ora... ha risoluto di fare... il suo ultimo nuncupativo testamento ». Dopo aver chiesto sepoltura nella chiesa parrocchiale, stipula che « oltre gli funerali si faccia celebrare dalli R. R. capitolari di S. Maria di S. Stefano una messa cantata di requie... lascia ad Orsola sua cognata figlia del quondam Domenico Jorio un panno di rascia usato, una tovaglia a pernicchie, un zinale... per il bene affetto che le ha portato, e per le servitù prestateli nella sua malattia... nomina suo erede universale Biagio Jorio suo caro consorte... mentre vivrà, e dopo la sua morte ricade a Domenico Clemente suo figlio » (5). Ovviamente, il figlio Domenico morì, e l'eredità di Biagio Jorio passò ai nipoti, come s'è visto.

La donna occupava una posizione nella società rurale come madre, moglie e quale forza levitante; un antico detto augurale paesano diceva: « possi crescere come il pane nell'arca », e la donna era infatti la madia, la forza generatrice e preservatrice della vita della comunità. I catasti di S. Stefano del Cinquecento e del Settecento ci hanno lasciato i nomi delle donne più agiate del paese, dei quali ne trascriviamo alcuni, anche per illustrare la tendenza ad apparentamenti dentro la classe signorile: Morgana di Lucio Tambucci, moglie di Giovanni Lucarini; Giovanna Di Pietro Tambucci, moglie di Libero Lucarini; Berardina Fabi, moglie di Girolamo Sfarra; Berardina di Giacomo Prosperi, moglie di Giulio Foci; Nanna Gori-Rabini, moglie di Giovanni Di Francesco Foci; Berardina Di Angelo Leo moglie di Prospero Pulici; Sindrella di Giovannello Leo, moglie di Nicola Sfarra; Angiolella di Benedetto Leo, moglie di Giovanni Aloisio Palombo; Lucrezia di Benedetto Leo, moglie di Prospero Leo; Berardina di Nicola di Prospero, moglie di Giovanni di Oliviero Palombo; Berardina di Nicola di Nardo, moglie di Oliviero Palombo; Vittoria di Bar-tolomeo Poci, moglie di Berardino Valle; Antonia di Antonio di Giacomo Palombo, moglie di Berardino Lu-carini; Lucrezia di Berardino Lucarini, moglie di Giovanni di Antonio Tambucci; Violante di Luciano di Antonio Paolo, moglie di Antonio Petrilli; Francesca di Giovanni Rabini, moglie di Bartolomeo Lombardi; Cam-milla di Antonio Jorio, moglie di Francesco di Biagio Carlone; Lucia, moglie di Marcantonio Jorio; Petronilla Fiocco, moglie di Biagio Jorio; Angelella, moglie di Asca-nio di Marcantonio; Gerardina, moglie di Sebastiano Palombo; Antonella, moglie di Angelo Reatini; Maria Top-petta, moglie di Carlo Rossi; Florinda Jorio, moglie di Giovan Battista Toppetta; Loreta Paggiosso, moglie di Domenico Jorio e molte altre.

Nonostante la sua posizione economica, la donna rimaneva costantemente sotto l'autorità tutoria della famiglia: non poteva maritarsi senza il consenso del padre, e morto lui, quello dei fratelli, come anche le vedove con figli minorenni; non avevano la facoltà di vendere o donare cosa alcuna senza il permesso del padre o del marito; come unica fonte di filiazione legittima, l'adulterio dalla parte della donna veniva punito con forti ammende e con la fustigazione « spogliate nude... per tutta la terra », ma solo per accusa del marito o di consanguinei. Gli ordinamenti statutari erano molto severi nei casi di violenza carnale contro la donna « stupro... adulterio... incesti e congiungimenti nefandi » al punto che « chi rapisse o portasse via forzatamente una donna coniugata o una vergine o una monaca a Dio dedicata e la sottomettesse all'adulterio o allo stupro, venga punito come per omicidio », salvo se chi commetteva lo stupro fosse disposto a sposare la vergine o la vedova liberamente e consenziente (6).

La donna offriva una certa stabilità sociale e contenuto umano alla vita giornaliera, spesso spietata; la sua vita si svolgeva perlopiù dentro il paese, salvo in tempi di raccolto quando il suo lavoro diventava necessario nei campi, ed in continuo contatto con altre persone nelle faccende da sbrigare, che spesso si svolgevano con ritmo sociale, al forno, ai lavatoi, alla provvista di acqua nelle fontane, come pure nella cura dei bambini per le strade, le chiacchiere con le vicine, il recitar dei rosari in gruppo sedute chi sugli usci, sui profferii o per la via. A loro spettava dar tono alla gaiezza, nei battesimi, nozze ed altre feste di famiglia mentre gli uomini s'inebetivano con il vino, e sfogarsi nel corrotto, o gran lamento funebre, in casa del morto ed alla esternazione del dolore nei funerali, strappandosi « i panni dal petto e dalle braccia » (7). L'importanza dell'elemento femminile veniva sottolineata dalla religione con le tante feste annuali della Vergine Maria.

Più dura e fosca era la vita del villano, homo ru-sticus, lavoratore della terra, del quale la novellistica italiana ha lasciato una galleria di ritratti vivaci ma caricati per sollazzare e compiacere la classe signorile, mentre il paese di Bengodi fatto intravedere a Calandrino rifletteva la realtà di una fame mai soddisfatta; dietro la goffaggine e la minchioneria stilizzata di questo carattere, si muoveva un personaggio di carne ed ossa con tutte le aspirazioni che la natura umana infonde, tragico nella sua semplicità ed ignoranza, curvo sulla terra dalla levata alla calata del sole come una ombra dantesca, succube del ciclo persefonico della sua terra, soggetto all'inclemenza del tempo e alla rapacità degli uomini.

Egli passava da una fugace fanciullezza alle responsabilità del lavoro della terra acquistando quell'andatura ricurva difficile da raddrizzare anche nella morte, viveva per lo più solitario, taciturno, anche nel mezzo della famiglia quando tornava a casa la sera; unico svago il giocare alla passatella nelle cantine di domenica pomeriggio, per tornarsene a casa brillo. Accadeva però che durante le grandi feste paesane e le stagioni della mietitura e della vendemmia, si risvegliava in lui lo spirito bacchico portando ad esplo-sioni di sentimenti e di passioni. Per i pastori, la vita giornaliera era meno squallida e meno greve, ed il muoversi da prato a prato, da colle a monte a testa alta con un orizzonte più ampio, dava ai loro giorni più respiro e fantasia, anche se il contatto continuo con gli animali e soprattutto la solitudine incidevano sul loro modo di sentire il significato della vita. Non meno squallida dal punto di vista umano era la condizione dei signori, indolenti e spesso ignoranti, senza ambizione alcuna oltre ad aver la rendita, ed era raro il caso di quello che prendeva interesse personale nella conduzione delle propria terre; il loro orizzonte non spaziava oltre le mura castellane.

Al margine di questa società giuridicamente e socialmente stilizzata si muovevano gruppi ed individui ad essa estranei, anche se in vari modi compartecipi della vita giornaliera di essa: ebrei, diseredati, mendicanti, vagabondi, mulieres puttane ed altri detriti sociali lasciati dalle guerre, carestie e dall'incuranza umana. Gli ebrei facevano gruppo a parte perché, anche se emarginati socialmente e culturalmente, spesso si trovavano in agiate condizioni economiche. Ma già alla fine del Quattrocento, a S. Stefano, la maggior parte di essi era da tempo convertita al cristianesimo, e le poche famiglie rimaste attaccate alla loro religione, vissero nei loro caseggiati alla Guizia fino al Cinquecento, quando vennero forzati ad abbandonare la comunità.

In questi caseggiati, essi si radunavano la sera del sabato per i loro riti religiosi, ed il canto triste e spesso desolato che accompagnava queste celebrazioni a porte chiuse, udito dalla gente circostante, contribuì al linguaggio popolare la frase « cantare il torio », cioè il Torà, detto di persona piagnona.

La conversione al cristianesimo veniva considerata con sospetto, ed a ragione perché occorrevano almeno due generazioni prima che si concellasse dalle loro anime il secolare attaccamento all'antica fede; e per questo venivano considerati cristiani di seconda classe, e durante i riti religiosi, nella chiesa parrocchiale, i recenti convcrtiti dovevano assistervi appartati, cioè « dalla parte degli ebrei », come ancor oggi si dice. Il giudeo fatto cristiano è rimasto sempre bandito dal suo gruppo e non completamente accettato dall'altro; ebrei erranti, se ne incontravano in giro nelle terre del patrimonio fino al secolo scorso, cercando elemosina (8).

Nelle comunità rurali, vigevano restrizioni contro la partecipazione degli ebrei alla vita civile: « Nessun giudeo in alcuna causa civile o criminale o mista, scin-dico, procuratore o difensore per alcuno christiano sia admesso »; ma il vero sentimento della comunità cristiana verso gl'israeliti viene espresso da un altro articolo dello stesso statuto che dice: « volenno al vitio et morbo dei giudei et usurari medèla (rimedio) adhibire, statuirne che centra qualunque contratto di giudei... (che) si producesse in giudicio... oltre sei anni dal dì del contratto fatto, tal giudeo o usuraro nessun effetto con-seguischi »; e dato che gli ebrei dovevano avere procuratori cristiani per patrocinare i loro interessi, la proscrizione sessennale di detti conratti risultava a loro danno (9).

Quale sia stata l'importanza degli ebrei in varie attività della vita civile trapela chiaramente da queste disposizioni statutarie; il « vitio e morbo » degli ebrei era un conveniente spauracchio da sollevare per servire gli interessi della classe dirigente che era poi quella che dipendeva dagli ebrei per prestiti, pignoramenti, acquisto di stoffe e di preziosi, cure mediche e medicine; come nel caso dei villani, la letteratura ne presentava un quadro tendenzioso e stereotipo per appagare i gusti di chi leggeva. Per la popolazione minuta, specialmente quella rurale, la convivenza con gli ebrei era un fatto storico e sociale; essi vivevano nel mezzo della comunità cristiana, strani nel modo di vestire e di vivere, ma parte del panorama umano.

Questo accomodamento sociale durato per secoli venne prima scosso e poi distrutto dai venti della Controriforma che resero più restrittiva la politica della Chiesa nei loro confronti, fino ad accomunarli con i malfattori e le donne pubbliche e poi costringendoli ad abbandonare le loro residenze secolari in quasi tutte le comunità del Basso Lazio. A seguito della bolla coercitiva del febbraio 1569, famiglie intere di ebrei si convertirono alla religione cristiana, specialmente nelle zone rurali, e quelli rimasti fedeli alle leggi mosaiche, o partirono per terre lontane, o andarono a popolar il ghetto romano portandosi dietro, nei loro cognomi, il ricordo dei paesi di origine: Alatri, Velletri, Terracina, Sonnino, Piperno, Anticoli, Pontecorvo ed altri (10). Con tutta probabilità, i pochi rimanenti che ancora professavano l'antica religione a S. Stefano si convertirono.

Una giornata tipica, nel paese, si apriva e si chiudeva al rintocco di campana. Prima ancora dell'albeggiare, contadini, artigiani e donne di casa, svegliati dal canto del gallo, si preparavano per i lavori della giornata al lume di candela o lampada ad olio, e poco a poco le strade si animavano con gente ed ammali. Nelle case dei signori, ancora al letto, la servitù si dava da fare nelle cucine e nelle cantine preparandosi per le varie faccende del giorno.

Le donne che avevano passata la notte a preparare il pane, si dirigevano ieraticamente, le spianatoie con le pagnotte cresciute in capo, verso i forni per la cottura, mentre nei frantoi durante la stagione invernale gli addetti ai lavori raschiavano fondelli e macine, ammucchiavano fiscoli, accendevano i fuochi per l'acqua bollente e raccoglievano i grassi affioranti nel purgatorio, dando il via ad un'altra giornata lavorativa.

Frattanto, alla Porta e alla Portella, la gente aspettava che all'ora stabilita le guardie spalancassero i battenti per uscire con i loro animali ed attrezzi verso i campi. Suonava intanto la campana della messa, i ragazzi scendevano in strada a fare i giochi di stagione o, se c'era il maestro, avviarsi alla sua casa per l'istruzione; le donne davano mano ai lavori domestici soffermandosi di tanto in tanto a chiacchierare con comari dalle finestre; ed i signori, fatta colazione, andavano, doppietta in spalla, a dare una occhiata ai loro fondi o a caccia, o passeggiavano per la piazza a chiacchierare con i fun-zionari della curia e, nei giorni d'udienza, con querelanti o querelati; per i vicoli si alternavano le grida del pescivendolo, del cardalana, del cenciaio e delle vendi-trici di arance ed altra frutta venute montagna-montagna da Fondi.

Forse l'evento più elettrizzante si aveva quando due donne, una da capo e l'altra al fondo di una strada o da finestra a finestra, baccagliavano con voce stentorea rinfacciandosi le magagne e le sozzure delle rispettive famiglie, mentre il vicinato ascoltava, fino a quando quelle si calmavano spossate, come il temporale che si allontana brontolando.

La giornata si svolgeva a ritmo pacato col suonare del mezzogiorno, lo sforchettare del pranzo nelle case dei benestanti ed il riposo pomeridiano, e solo a sera il paese si rianimava col ritorno dei lavoratori dai campi, lo sghignazzare di chi giocava ad passerellam nelle cantine, il rullo del tamburo e la voce del banditore pubblico, e finalmente il coprifuoco che ordinava tutti a casa; salvo nelle sere di Natale, del Venerdì Santo e dell'Assunta. Chi aveva buona ragione poteva trovarsi per strada dopo il coprifuoco, ma era tenuto a portare un lume; e non potevano esser ci più di tre persone per lume. Girare dopo il coprifuoco si rischiava anche imbattersi in qualche persona malintenzionata, cani famelici e, peggio ancora, in un lupo mannaro, e ci si azzardava solo chi, strisciando contro i muri, si recava ad un appuntamento amoroso. Le notti erano quiete; e mentre nelle loro case i signori rimanevano a tavola fino a tarda ora a chiacchierare, in quelle contadine, allo spegnersi delle ultime brage, erano già tutti al letto, e chi non dormiva si aggirava nel mondo dei fantasmi e poteva udire il sommesso mormorare delle anime sante del purgatorio; per gli amanti, cantava l'usignuolo e l'assiolo scandiva il passare del tempo.

Pellegrinaggi e feste offrivano periodicamente un sollievo da questo vivere spesso monotono e, attraverso l'esperienza religiosa, si aveva una vera catarsi sociale. Si andava in pellegrinaggio a chiedere speciali favori ai santi titolari del posto o a sciogliere voti; si partiva ammucchiati sopra barrocci tirati da buoi finché le strade lo permettevano e quindi a piedi per i santuari vicini come quello di S. Cataldo a Supino, e poi per quelli più lontani della SS.ma Trinità, di S. Domenico a Cocullo, della Civita, della Montagna spaccata presso Gaeta, e anche Montevergine e Loreto; partivano cantando inni e litanie e ritornavano stanchi, ma sempre inneggianti, e questo cantare in coro era il veicolo essenziale che innalzava gli spiriti verso il divino e li purificava.

A S. Domenico di Cocullo non si andava solo per la festa del santo e la processione caratteristica con i serpari, ma più espressamente ci andava, accompagnato dai suoi, chi era stato morso da serpe velenosa o da cane idrofobo; secondo testimonianze di chi si era trovato in queste condizioni, varcato il confine di Cocullo, il malato veniva scosso da fortissima convulsione epilettica, segno evidente che per opera del santo il sangue aveva rigettato il veleno.

Ma l'esperienza sociale più esilarante era quella delle processioni, che fino ad alcuni anni addietro coinvolgevano tutta la popolazione che presa da fervore religioso seguiva il santo inneggiando per le vie del paese. Durante gli ultimi cento anni, le feste più importanti sono state quelle di mezzo agosto dell'Assunta e di S. Rocco; come una volta per gli emigrati oltratlantico, queste feste continuano ad essere il punto di riferimento dell'anima santostefanese, il momento dell'anno quando tutti, presenti, oriundi ritornati e quelli rimasti lontano nelle Americhe ed altri in paesi fino all'Australia sentono forte il richiamo del paese; è forse il momento più drammatico nel quale rivive tutta l'anima popolare nella sua esperienza storico-sociale.

Il momento catartico si aveva, fino a qualche tempo addietro, il giorno della festa di S. Rocco « protettore vicini come quello di S. Cataldo a Supino, e poi per quelli più lontani della SS.ma Trinità, di S. Domenico a Cocullo., della Civita, della Montagna spaccata presso Gaeta, e anche Montevergine e Loreto; partivano cantando inni e litanie e ritornavano stanchi, ma sempre inneggianti, e questo cantare in coro era il veicolo essenziale che innalzava gli spiriti verso il divino e li purificava.

A S. Domenico di Cocullo non si andava solo per la festa del santo e la processione caratteristica con i serpari, ma più espressamente ci andava, accompagnato dai suoi, chi era stato morso da serpe velenosa o da cane idrofobo; secondo testimonianze di chi si era trovato in queste condizioni, varcato il confine di Cocullo, il malato veniva scosso da fortissima convulsione epilettica, segno evidente che per opera del santo il sangue aveva rigettato il veleno.

Ma l'esperienza sociale più esilarante era quella delle processioni, che fino ad alcuni anni addietro coinvolgevano tutta la popolazione che presa da fervore religioso seguiva il santo inneggiando per le vie del paese. Durante gli ultimi cento anni, le feste più importanti sono state quelle di mezzo agosto dell'Assunta e di S. Rocco; come una volta per gli emigrati oltratlantico, queste feste continuano ad essere il punto di riferimento dell'anima santostefanese, il momento dell'anno quando tutti, presenti, oriundi ritornati e quelli rimasti lontano nelle Americhe ed altri in paesi fino all'Australia sentono forte il richiamo del paese; è forse il momento più drammatico nel quale rivive tutta l'anima popolare nella sua esperienza storico-sociale.

Il momento catartico si aveva, fino a qualche tempo addietro, il giorno della festa di S. Rocco « protettore che ci salva da ogni malore » quando, finita la messa cantata, nella chiesa accalcata ed afosa per la calura estiva, i fedeli incominciavano a sfollare cantando seguendo l'antisegnano in cappa e pellegrina che faceva squillare concitatamente il campanello processionale; nella navata centrale avanzava quindi il grande crocefisso col paliotto, le nappe dei cordoni tenute da due uomini in camice bianco e cingolo, mentre dalle navate laterali si scuotevano gli stendardi delle confraternite dietro i quali s'infilavano i fratelli e sorelle; uscendo dal tempio, le donne si aiutavano ad accendere candele e ceri, taluni enormi da doverli portare a braccio, qualcuna di esse a piedi scalzi per speciale devozione; inni e canti s'inseguivano a ondate per le strade del paese.

Nell'interno della chiesa, spostata la selva di candele che bruciava davanti la statua del santo, i portatori anch'essi in camice bianco e cingolo, infilavano le stanghe nella base della macchina del santo incominciando a spostarla e sollevarla per metterla a spalla gridando ripe-tutamente a squarciagola: Evviva S. Rocco, evviva San Rocco! ai quali rispondevano le urla di evviva dei fedeli ancora in chiesa, tra essi malati ed altri impossibilitati a seguire la processione, gli occhi pieni di pianto.

Il santo, alto sulle spalle dei portatori, aspettava che la doppia fila di chierichetti con il crocifero s'incamminasse, mentre il turiferario davanti l'arciprete che portava la statuetta con reliquia del santo spandeva nubi d'incenso verso la volta. Il gran portale della chiesa, tutto festonato con archi di mortella, era spalancato fino in cima, e nella piazzetta antistante erano in attesa il sindaco con fascia tricolore e le altre autorità, ed anche la banda musicale, che all'apparire del santo prorompeva in una rumorosa marcia trionfale alla quale facevano concorrenza i botti dei mortaretti, il crepitare di castagnole nei vicoli adiacenti e lo scampanio delle campane a martello più eccitato del solito. Il santo sostava per un momento quasi per assaporare il caldo tributo della comunità, poi la banda s'inquadrava nella processione seguita dal sindaco, il gonfalone, i notabili, i chierichetti con l'arciprete ed ultimo il santo, dietro il quale si accodava il resto della popolazione.

Raggiunta la piazza la processione passava sotto l'arco per risalire verso la via della Rocca e scendendo poi per il vicolo Stretto nella via Leonina. Qui nel sottoportico, s'apriva fino al 1932 il portone di casa Leo con un'edicola mariana al lato, ed immancabilmente sulla soglia decorata con piante, fiori e lumi, la gentile signorina Flavia elegantemente vestita e acconciata nello stile fine Ottocento che favoriva, attendeva per dare al santo il suo saluto e quello della sua antica stirpe. Dalla via Leonina, la processione scendeva per il vicolo una volta detto del Crocefisso nella via Bolognese davanti al vecchio ospedale, proseguendo quindi per San Pietro, la Portella, il Cegneraro.

Durante il tragitto per le antiche strade del paese, i malati e tutti coloro che non potevano andare in chiesa attendevano ansiosamente la visita personale del santo, chi sugli usci, chi affacciato alle finestre, e gli allettati sdraiati nei loro giacigli sui profferii, impetrando la grazia dal taumaturgo.

Giunta a Campo di fiori, la processione risaliva verso la Piazza per uscire fuori Porta dove si era in attesa della benedizione delle caldaie fumanti di ceci tra il fragore dei mortaletti, nuovi squilli della banda ed il continuato scampanare dall'interno del paese.

 

 

(1) Statuti provincia romana; «Aspra» 41; «Tivoli» III, XVII; « Roccantiea » 59, 145.

(2) Pertz, « Annales Cecoanenses ».

(3) ASF/Archivio notarile di Amasene, Sebastiano Vona N. 168.

(4) APiV'SS/Confrt. Purgatorio.

(5) lina.

(6) Per la restrizione nella compra-vendita, v.: «Cave» 30-31; «Aspra» 148. Sull'adulterio: «Aspra» 14; « Tivoli » MGCCV, 150: «Mulier coniugata fustigetur per civitateni ad petitionem viri ». Per lo stupro ed altre violenze, v.: «Tivoli» ibid., «Boccantica» 58 ed altri.

(7) «Nulla raulier vadat ad ìfunus... corruptando e postquam defun-ctus portatus fuerit ad ecclesiam, statini mulieres reintrent domum defuncti et amplius non exeant ad corruptando de ipso domo», «Vi-terfoo » IV, 77; « Tivoli » 281-82.

(8) APVSS/Rendite Luoghi Pii.

(9) « Aspra » 54, 56.

(10) Un avviso della polizia romana dei costumi in data 21 agosto 1568 e riportato in Ludwig von Pastor Storia dei papi, Vili, 611, De-sclée, Roma diceva: «Le donne pubbliche saranno sorvegliate come gli ebrei ». Fu in questo tempo che un numero di famiglie di ebrei convcrtiti venne concentrato in Giuliano di Roma.

 

 

 

 
 

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