Cap. VII - SITUAZIONE ECONOMICA

 

L'agricoltura è stata la base della vita economica della popolazione di S. Stefano durante quasi tutta la storia della comunità; solo negli ultimi cento anni, con l'emigrazione all'estero e più recentemente con l'apertura delle zone industriali nella valle del Sacco e nella pianura pontina, si è venuta a creare una nuova struttura economica fondata sul reddito salariale operaio. Oggi la popolazione attiva del paese è composta di operai ed impiegati pendolari e locali, di commercianti, professionisti, imprenditori, mentre l'agricoltura è scomparsa come fonte di reddito, salvo il limitato allevamento di bufale da latte.

L'agricoltura aveva formato la matrice economica e sociale della vita nella valle dell'Amasene dal tempo dei volsci e dei romani; la situazione si mutò con la grande crisi che si riversò sull'impero di Roma nel III secolo d. C. che risultò, fra l'altro, nello spopolamento delle campagne e l'abbandono dei campi al pascolo, meno oneroso e più redditizio. Fu la Chiesa che, alcuni secoli dopo, con un'aggressiva politica agricola attraverso la creazione di domuscultae e masserie, e stimolando le attività fondiarie dei grandi monasteri laziali portò al ricupero alla coltivazione delle terre precedentemente date al pascolo e aprendone delle nuove, portando a quella rifioritura economica della quale si è già parlato.

Questo assestamento economico rese possibile alle popolazioni delle valli di sopravvivere alle devastazioni barbariche e saracene e continuò a formare la base economica quando la società rurale dovette riorganizzarsi nel sistema feudale dei castra. Sfortunatamente per un continuato sviluppo, i signori feudali concepivano qual-siasi bene economico sotto il loro controllo come forza effettiva a loro disposizione nelle lotte per accrescere i propri poteri, senza il minimo riguardo per le popolazioni a loro soggette, e restrinsero qualsiasi libero movimento del prodotto agricolo, costringendo gli agricoltori a vendere ai loro granai a basso prezzo le eccedenze della produzione, che poi essi mettevano in commercio al prezzo di mercato.

A parte il soffocamento di qualsiasi incentivo all'allargamento della produzione, questa politica economica arbitraria dei baroni creava problemi nella situazione annonaria della Chiesa, e vari pontefici, e tra essi Sisto IV e Giulio II, emanarono provvedimenti per incoraggiare l'agricoltura ed in particolare le colture cerealicole e, nel caso di papa Giulio, elevando sanzioni contro baroni che impedissero ai proprietari dei fondi di portare a vendere direttamente i loro prodotti sui mercati di Roma; ma rimasero lettera morta.

I signori feudali, e nel caso di S. Stefano i conti di Ceccano prima e i principi Colonna dopo, oltre a controllare il commercio di derrate, imponevano dazi e gabelle a qualsiasi movimene di prodotti agricoli da comunità a comunità e sulla produzione, e inoltre monopolizzavano i mezzi di trasformazione dei prodotti con l'esclusivo diritto sopra mulini, frantoi, forni e presse in genere.

Tra le proprietà di casa Colonna a S. Stefano nel Settecento troviamo elencate: « un sito di casaleno detto il Forno di mezzo... (sotto la piazza)... Una casa in cui vi sta la Mola in territorio di S. Stefano nel confine di Pisterzo... Una casa entro la terra di S. Stefano in contrada l'Aurizia... in cui vi è il Forno (detto da capo o di sopra)... Altra casa con forno che si dice Forno da piedi (o di sotto) in contrada la Portella... Una casa in detto territorio di S. Stefano alla Piazza pubblica ove è il montano (frantoio) per macinare le olive e far oglio ».

I feudatari spesso davano in concessione alle comunità e ad individui, dietro pagamento di annuo canone, l'esercizio limitato di tali prerogative padronali; il luogotenente Passio aveva, nella sua casa alla Piazza, un « forno da cocere il pane uso solo di casa propria con una concessione ottenuta da S. E. P. con pagare giuli cinque annuative di canone alla casa Ecc.ma (Colonna) »; egli gestiva inoltre un altro frantoio padronale in « una stanza terranea alla Piazza, di fuori, parte le mura della terra... il montano per premere l'olive macinate che sono nella pietra di S. E. P(rincipe) per uso pubblico sia di cittadini che forestieri ».

II controllo padronale si estendeva a tutte le attività economiche; « la comunità gode di due fiere infra annue concesse dall'Ecc.mi Principi Colonnesi fino ab antiquo una li 26 ottobre (sic) giorno di S. Stefano protettore con un giorno avanti e l'altro dopo. Li 24 giugno festa di S. Ciò. Batta, con un giorno avanti e l'altro doppo, franchi suddetti giorni da ogni dazio e gabella (per) i forestieri che vengono a vendere e comprare » (1). Altrettanto facevano i « principi colonnesi » cedendo al comune i loro diritti al pascolo sul monte Siserno dietro pagamento di un canone annuo. Ma altri fattori contribuivano a limitare la produttività della terra e a tenere precario il livello alimentare della popolazione, non ultimo le. devastazioni che accompagnavano le frequenti azioni di guerra e che richiedevano anni di lavoro per riportare i campi a livelli normali di produzione. La terra stessa, dopo l'uso secolare che se n'era fatto, rendeva sempre meno, al che si cercava di rimediare tenendo a maggese ogni quarto anno parte del fondo brucian-dove stoppie, seminandovi vecce, lupini ed altre leguminose e portandovi a pascere capre e pecore, cosa non sempre fattibile quando si trattava di piccoli appczzamenti.

C'erano anche fattori sociali come la frammentazione dei fondi con ciascun atto di successione che gravava sul costo umano del lavoro, dovendosi i coltivatori spostare da un capo all'altro del territorio per i lavori stagionali. Le colture, in particolare quelle di cereali, erano rimaste quelle dei volsci e dei romani: fargo, sorgo, segala, avena e miglio; solo al principio del Settecento si registrò un salto qualitativo con l'introduzione del mais, chiamato a S. Stefano cilijànu, cioè grano siciliano; i frumenti vestiti di qualità nutritiva inferiore vennero così destinati agli animali d'allevamento. Più positiva e meno onerosa in alcuni casi era la coltivazione della frutta negli albereti, nelle vigne dove le viti venivano maritate ad alberi da frutta ma più spesso a olmi e orni; alle qualità di frutta locali erano state aggiunte delle nuove venute dal Medio Oriente con i saraceni ed i crociati, in specie gli agrumi. Importante economicamente era la conservazione e l'essiccazione della frutta: fichi, noci, castagne, ecc.

L'olivicoltura richiedeva più impegno lavorativo; il terrazzamento della fascia di mezza costa, tra Tartarone e Lavina dove essa era concentrata, con macere per impedire lo smottamento del suolo, era fatica ciclopica, e altrettanto laboriosa la raccolta del frutto maturo sopra il terreno sassoso, e poi il trasporto al paese.

Integravano l'economia agricola le colture di ortaggi in qualsiasi pezzette di terra riperibile alla periferia del paese. Limitavano la produzione anche i metodi ed i mezzi usati, rimasti quelli dell'età romana; la zappa, anche prima della vanga, era l'attrezzo comune, e l'aratro non era adatto per i piccoli fondi ed inoltre richiedeva animali per la trazione. Il ciclo georgico rimaneva quello cantato da Virgilio.

Alle colture alimentari aggiungevano valore economico quelle della canapa e del lino dalle quali si rica-vavario le fibre tessili usate per la manufattura locale del panno, e la vegetazione spontanea di querce e castagni.

Al principio del Seicento, a seguito di una bolla di Sisto V che cercava di stimolare la produzione della seta nelle terre del Patrimonio, anche a S. Stefano si piantarono gelsi e si sviluppò una moderata produzione di bozzoli per la seta che continuò fino ai primi anni del Novecento.

L'agricoltura, attività economica primaria, s'intrecciava nella vita religiosa e con quella sociale, ed il calendario agricolo ricalcava quello religioso con la semina dei grani a Ognissanti e ai Morti, potature, innesti e zappature e preparazione di sementai d'orto a S. Biagio e Candelora, mietitura e battitura a S. Giovanni, e la vendemmia in tempo per aver vino nuovo a S. Martino.

Anche se secondaria come attività economica, la pastorizia occupava una posizione rilevante a S. Stefano sia per l'entrate che l'affitto dei pascoli provvedeva all'erario pubblico, sia per l'allevamento famigliare che integrava l'alimentazione. L'allevamento brado dei suini nei boschi di querce e castagni « della montagna Si-serno per tutta la sua estensione di rubbia 350 », risaliva probabilmente al tempo dei longobardi, dai quali i conti di Ceccano discendevano; il diritto feudale d'erbaggio, passato ai Colonna, venne riscattato dalla comunità di S. Stefano per scudi 15 annui nel 1633, passato a 20 scudi con risoluzione consiliare del 23 ottobre 1707 (2).

Il pascolo suino di montagna continuò fin quando non scomparirono completamente i querceti ed i castagneti; in tempi non lontani, ogni mattina il vergare faceva il giro del paese raccogliendo di stalla in stalla i porcelli da ingrasso che gli venivano regolarmente consegnati e seguito dallo stuolo grugnente risaliva la montagna fino ad un recinto da dove venivano quindi lasciati andare a pascolare nel bosco; a sera gli animali venivano ricondotti in paese dal porcaro fino alla piazza, dove la torma si sbandava ed ognuno correva a tutta forza per le vie del paese bofonchiando a ritrovare la propria stalla.

L'alta montagna veniva affidata per l'addiaccio estivo, mentre i prati dei Porcini per i « quarti d'inverno », come s'è già detto. Nei prati lungo il fiume e nella zona del Pantano pascolavano vacche e bufali che a sera venivano ricondotti per la strada che ancor oggi porta il nome di Mugito, ad un ricovero notturno presidiato da guardiani, detto Vitello, per la mungitura e, quando occorreva, per la macellazione.

L'allevamento famigliare di maiali provvedeva la carne ed i grassi animali per dar sapore ai pasti durante l'inverno. La capra dava latte e i capretti da arrostire per le grandi feste, ma più spesso da vendere; essa era fedele compagna del contadino e lo accompagnava nella discesa verso i campi il mattino brucando per i margini delle strade e le fratte, e al rientro la sera nella stalla di casa per custodia e mungitura. Il pollame ruspava dappertutto per le strade, per rientrare a sera nei pollai ricavati in angoli di cantina o nei sottoscala, da dove immancabilmente il gallo annunziava l'arrivo dell'alba.

La famiglia era la struttura chiave della società rurale; era in essenza un'azienda agricola condotta dal capofamiglia, all'operazione della quale contribuivano con il loro lavoro tutti i membri secondo le proprie abilità, dal ragazzo che teneva gli animali, agli adulti che lavoravano i campi e le donne che li aiutavano tenendo dietro anche alle faccende di casa, ai vecchi che guardavano i bimbi e le vecchie che filavano.

Le proprietà erano in mano del capofamiglia, il quale poi le divideva in eredità per i figli maschi e doti per le femmine, salvo lasciti ad enti religiosi per il riposo della propria anima e dei morti di famiglia. La dote rimaneva proprietà della moglie anche se gestita dal marito, ed era lei a deciderne la successione.

Dal punto di vista economico, il matrimonio reintegrava beni fondiari, rimediando in un certo modo alla frammentazione che seguiva la successione testamentaria. Con la manodopera dei suoi membri, la famiglia lavorava i fondi di sua proprietà, ma spesso o per necessità o per avere maggior rendite il capofamiglia decideva di prendere in concessione terre altrui, in particolare quelle di enti religiosi, chiese, cappelle, confraternite, dei signori locali e di altri assenti secondo le norme dei vigenti patti agrari, che erano in genere in enfiteusi, a mezzadria, a colonia ed in affitto; prevaleva il patto « a quarteria, cioè rende il colono d'ogni cosa la risposta del quarto », che però era ridotta al quinto per il raccolto della frutta. Il contratto di colonia poteva variare nella durata, ma il terreno veniva generalmente « dato a colonia per quattro anni, rinnovabile, scadendo però con la vendita o l'alienazione del fondo da parte del padrone (3).

Oltre ai lavori dei campi, gli uomini della famiglia dovevano anticamente adempiere obbligati di corvè ed altri oneri di fatica dovuti al signore feudale; quando la necessità urgeva o non avevano sufficiente lavoro nei loro campi, essi si mettevano a giornata, come facevano anche più regolarmente le donne, specialmente in tempi di mietitura, di vendemmia e e della raccolta delle olive.

La scarsità degli animali da soma faceva ricadere sulle donne tutti i lavori di trasporto. Era questo un bracciantato avventizio che si adattava alle esigenze della situazione. Non vanno dimenticate poi le ragazze che prendevano servizio di domestiche presso le famiglie dei signori nelle quali rimanevano generalmente fino alla morte.

« In questa terra non vi è veruna fabrica di arti e manifatture », scriveva il vice governatore di S. Stefano Giacinto Popolla nel 1815 (4). Non mancavano però mastri artigiani che lavoravano in legno, nella pietra e nel ferro battuto, come pure calzolai, Calder ari e cardatori. Analizzando i dati onomastici nei documenti, si scopre un continuo arrivo in S. Stefano di mastro di mestiere, attirati forse da lavori in corso, i quali spesso vi rimasero; costoro compaiono con la qualifica di mastro senza cognome, che viene a formarsi più tardi in base al patronimico. I mastri erano in effetti a capo di una piccola impresa, che curava le lavorazioni dalla materia prima al prodotto finito; nel caso del muratore, s'incominciava con la cava delle pietre o del tufo, la squadratura ed il trasporto, mentre si accendevano le fornaci della calce e si cavava la pozzolana per procedere quindi alla costruzione, e dato che l'argilla non mancava, sembra che si provvedesse localmente alla manifattura dei coppi per la copertura dei tetti (5).

Altrettanto facevano i magistrì lignaminum il cui lavoro incominciava con il taglio degli alberi, la segatura dei tronchi in tavole e assi, trasporto alla bottega, procedendo quindi alla confezione di mobili, infissi, tini, botti e quant'altro era richiesto. Mentre molte materie prime erano disponibili localmente, per altre, come pure per gli utensili di mestiere, bisognava andare alle fiere.

A quello maschile si associava il lavoro artigianale femminile: sarte, ricamatrici, tessitrici. La confezione del panno era una industria famigliare, dalla piantagione della canapa e del lino al taglio, macerazione nei fossi, essiccazione, stigliatura e scotolatura, processo rimasto invariato da quello descritto da Plinio il vecchio; le fibre poi passavano nelle mani delle donne per la filatura, l'orditura e la tessitura nei telai situati generalmente in locali umidi e bui, dove le giovani tessitrici lavoravano dalla mattina fino a sera inoltrata al lume di candela, con le amiche che vi si fermavano a far chiacchiere, spesso cantando accoratamente tra la corsa della navetta ed il battere del pettine per alleggerire la tediosa fatica. I telai venivano costruiti e tenuti in efficienza dai falegnami locali.

Il commercio dentro il territorio era limitato per le gabelle e soggetto al monopolio feudale, come quello della panificazione e del macello; i mercanti che nel giorno prescritto mettevano i loro banchi nella piazza, del Mercato dovevano pagare la gabella « secundum sibi tas-satum fuerit » prima d'iniziare le vendite, e non mancavano di venirci i pecorari e caprai delle terre vicine con i formaggi, i porcari con i solsumina, e da Terracina i pescivendoli; il vino era venduto dai tavernai. Altra restrizione del commercio era la scarsità della moneta corrente, e perciò gli scambi erano perlopiù a baratto, e quando era necessario aver denaro, bisognava andare dai signori, che lo tenevano molto stretto.

II commercio vero si svolgeva nelle fiere dove arrivavano panni e stoffa raffinata, attrezzi e utensili, pelli e cuoio per i calzolai, barre di ferro per i fabbri, spezie e altre rarità. La fiera era di grande importanza per i contadini per l'acquisto di capi di allevamento, porcelli-ni, capretti e sementi.

Come s'è precedentemente detto, a S. Stefano si tenevano due fiere annuali che risalivano probabilmente al tempo della comunità a valle, poi passate sotto il controllo dei conti di Ceccano e quindi dei principi Colonna, i quali vi permisero il commercio franco di dazi: una per la festività di S. Giovanni Battista il 24 giugno e l'altra ^,il r26 ottobre (6).-

Per eliminare la concorrenza, nei giorni di fiera non si potevano tenere né fiere né mercati nelle vicinanze nel raggio di 20 miglia. Mancano dati sulla entità della fiera di S. Stefano, della quale si è perduto anche il ricordo nella tradizione popolare; quella di S. Giovanni è continuata fino a tempi recenti, sopravvivendo alla sua abolizione. Infatti, quando il Buon governo al principio dell'Ottocento emanò una disposizione che proibiva di tener fiere e mercati nei giorni festivi di precetto, qual'era quello del Battista, il Consiglio comunale con una risoluzione del 20 gennaio 1829 chiese ed ottenne dalla Delegazione di Fresinone il permesso di spostare la fiera al 3 agosto, festa dell'invenzione di S. Stefano, a cominciare dal 1846 (7).

Presumibilmente le due fiere del paese vennero abbinate. Le tradizioni popolari sono però lente a scomparire, e la fiera di S. Giovanni è continuata fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Abolite molte delle festività religiose dopo la caduta del governo temporale, la fiera ritornò al prato di San Giovanni, con una certa importanza per il commercio dei bozzoli e della seta; i vecchi del paese ricordano ancora come al principio del secolo tra le contrattazioni, il gridare dei venditori, le chiacchiere ed il via vai, dagli alberi pendevano capre e capretti macellati, quarti d'agnello si arrostivano alle brace e sotto i capanni di frasca che riparavano dal sole si mangiava e beveva.

La maggioranza della popolazione di S. Stefano visse per secoli in questa stagnante situazione economica grazie all'arroganza e nonocuranza dei signori feudali, l'ignoranza e grettezza di mente dell'oligarchia locale e l'abulia e sottomissione della classe lavoratrice; il tenore di vita è stato sempre basso, non di rado rasentando il livello della fame; per i più la vita era una lunga quaresima. Quando la situazione diventava disperata, i più energetici s'arruolavano come mercenari nelle compagnie di ventura, si davano alla macchia o andavano a riempire le file degli accattoni e furfanti nelle città.

Ma c'erano momenti gai anche nella vita, e tutto sembrava meno triste quando d'inverno si vedevano fumare al fuoco le grandi pignatte con i legumi in cottura, e d'estate si poteva mischiare un'insalata d'erbe varie condita con aceto e poche gocce d'olio (8).

La percentuale della popolazione indigente, nel paese, dovette essere costantemente molto alta; nel 1830 sopra una popolazione di circa 1100 anime, gl'indigenti erano 180, dei quali 79 uomini e 101 femmine.

 

 

 

(1) ACVSS. Catasto 1753, passim. «Opus catastai 1753... confe-ctum... de ordine et mandato DD officialium residentium Marci Antoni j et Dominici Jorio... Datimi S. Stephani die undecima mensis aprili j anni il753 » ; approvato poi nella seduta consiliare del 20 aprile dello stesso anno tenuta nello « archivio priorale di S. Stefano » firmato dal notaio Giovan Battista Toppetti davanti al quale si erano personalmente costituiti Carlo Lucarini, Francesco Galante, Giovanni Rosso e controfirmato dai deputati eletti dal pubblico Consiglio Giuseppe Passio, Michele Bravo, Ignazio Tambuca e Andrea Jorio.

(2) ASF. B/1138 F/2939-40: dal compendio preparato dalla Fèren-tina di Proprietà (F.P.) per la causa del comune contro i Colonna, pag. 4.

(3) APVìSS/Confrat. Purgatorio. INVENT. SPAp., 20 segg.

(4) AìSF. 6/1192.

(5) Lungo i fossi a valle verso l'Guzzo si trovano frammenti di cocci, derivanti probabilmente dai coppi di scarto.

(6) La fiera di S. Giovanni risaliva forse al primo medioevo ed era tenuta nel Cinquecento, Valeri, op. eli., 692. La fiera del «26 ottobre giorno di S. Stefano protettore con un giorno avanti ed un'altro dopo », come si dice in AGVSS/Ca. 1753, vuoi forse indicare una data più opportuna del 26 dicembre.

(7) ASF. B/1158 F/2972.

(8) « Grandes fumabant pultibus ollae », Giovenale, Satira XIV, 171. « Jamque salatinam variis mischiaverat herbis, datque salem su-pra, dat acetum, datque pochinas de fiasco -guttas olei », Merlin Coccai, Baldus II.

 

 

 

 

 
 

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