Cap. VI - ORDINAMENTO POLITICO

 

1. STATUTO E DIVISIONE DEL POTERE

Nel preambolo al catasto del 17 febbraio 1566, dopo i riferimenti encomiastici al sovrano pontefice Pio V eletto il mese prima e al dominante Marcantonio Colonna, si legge come i notai Giovanni di Antonio e Berardino Palombo, con l'aiuto dei signori Rosato Ricci e Pietro di Antonio, avevano compilato « il catasto di tutti e singoli beni stabili che si trovano nella terra di S. Stefano... in base alla commissione ed autorità a noi data dal Consiglio pubblico radunato nella chiesa di S. Sebastiano per mandato dei signori Libero Palombo e Giorgio Bonomo ufficiali di questo castello di S. Stefano » (1). Il testo mette in prospettiva la cornice giuridica dell'ordinamento politico del castrum S. Stefani quale era sempre stato, e cioè: il potere sovrano in mano al pontefice regnante canonicamente eletto; il potere effettivo delegato al feudatario — prima ai Ceccano ora ai Colonna — il quale, come solito nelle terre mediate subiecte cioè non sotto la diretta amministrazione della Camera apostolica, veniva investito di poteri civili e giudiziari, merum et mixtum imperium; mentre il potere amministrativo si basava sull'autonomia della comunità, la uni-versitas hominum che eleggeva i propri pubblici ufficiali e nella quale erano sopravvissuti i concetti delle libertà civiche romane.

Nelle comunità laziali, come altrove, i rapporti tra questi poteri costituiti erano disciplinati da uno statuto generalmente redatto di comune accordo tra i rappresentanti della comunità e quelli del feudatario regolarmente investito. Alla base di questi statuti era il rispetto e la difesa dell'autorità sovrana temporale della Chiesa: « Li-bertates et iura Romane ecclesie semper firma et illibata permaneant » (2). Scopo specifico degli statuti era la definizione delle prerogative feudali, di stabilire norme di convivenza civile in base alla giurisprudenza romano-ecclesiastica ed anche a pratiche consuetudinarie locali, e di sancire « le immunità e le libertà degli uomini della comunità e degli altri abitanti del castello » (3). Questi statuti formano un importante corpo giuridico delle libertà dei comuni rurali, e ad avvalorarne la natura sacrosanta, essi venivano promulgati al cospetto di tutto il popolo nella piazza, pubblica presenti le autorità feudali ed ecclesiastiche (4).

Anche il castrum S. Stephani ebbe il suo statuto probabilmente dal tempo della signoria ceccanense, forse ancora reperibile in qualche archivio; l'ultimo statuto venne concesso al comune da Marcantonio Colonna, come si desume da una lettera in data 3 agosto 1841 del priore Michele Bravo al governo di Ceccano. « Esiste in questa segreteria comunale in originale lo statuto locale firmato dall'em. principe Marc'Antonio Colonna... col quale al tempo della cessata baronia si giudicava tanto relativamente alla commissione (di atti) criminali e civili quanto nella causa di danno dato... lo scritto è poco intellegibile stante l'antichità, vi manca la maggior parte della carta. Una copia peraltro intellegibile ed intiera esiste presso questo uditore locale (di casa Colonna, a Ceccano) servendogli (nel passato) di norma nel giudicare le cause di danno dato » (5).

Tutti gli statuti feudali decaddero nel 1816 in seguito alla abolizione del sistema feudale nelle terre della Chiesa, e la giurisdizione sopra tutti gli aspetti dei governi comunali passò alla Congregazione del buon governo.

 

2. STRUTTURA E FUNZIONAMENTO DEL GOVERNO LOCALE

Gli statuti, che si fondavano sulle norme del diritto pubblico romano, conferivano cittadinanza nella comunità alle genti, cioè ai nuclei familiari, divisi per fuochi, e rappresentati dal capofamiglia nella universitas homi-num cioè nel Consiglio generale; questo Consiglio eleggeva in adunata pubblica il Consiglio pubblico, soggetto alla conferma da parte del feudatario, che aveva il compito di formulare e mettere in esecuzione la politica amministrativa della comunità.

Il Consiglio pubblico — che a S. Stefano nel Seicento consisteva di venti membri eletti per metà in anni alterni — nominava a sua volta due membri, chiamati sin-daci, con incombenza annuale, i quali avevano il compito di condurre gli affari giornalieri, intervenire in situazioni contenziose e convocare il plenum, del consiglio pubblico, il cui numero variò con i tempi. Le sedute si tenevano nel locale dell'archivio della curia e ad esse doveva essere presente anche il rappresentante o luogotenente di casa Colonna per controfirmare tutte le delibere (6).

Le sedute allargate, come quella già ricordata relativa alla preparazione del catasto del 1566, si tenevano nella chiesa di S. Sebastiano che da quello dei conti di Ceccano era passata al giuspatronato della comunità di S. Stefano. Quando poi si trattava di discussioni d'interesse generale, il Consiglio pubblico deliberava e votava alla presenza di tutto il popolo adunato nella piazza antistante la curia, come per la discussione sul debito pubblico del 7 ottobre 1719 convocata dai sindaci Ambrosio Lucarini e Giovanni Palombo dopo aver fatto « buttar bando hiersera e questa mattina per tutti li luoghi soliti di questa terra dal pubblico mandatario Giuseppe Calor-gio coll'intervento del molto ili. sig. Gio. Batta Leo luogotenente ove è intervenuto maggior parte del popolo » (7).

; Alle sedute del Consiglio poteva assistere, senza diritto di voto, il delegato ecclesiastico, che era generalmente il vicario foraneo. Il disbrigo degli affari giornalieri veniva fatto da un gruppo di ufficiali pubblici, nominati prò tempore dal Consiglio, e poi confermati dal barone Colonna, quali il notaio, l'esattore, il medico condotto, il balio, il maestro di scuola e le guardie di paese e campestri.

Il notaio, classificato anche come cancellarius e pu-blicus depositarius per il suo controllo del sigillo comunale e dell'archivio, partecipava alle sedute del Consiglio e ne redigeva i verbali autenticandoli, rogava tutti gli atti pubblici, controfirmava gli atti finanziari e sorvegliava l'andatura di tutta l'amministrazione; al termine del suo mandato doveva sottomettere il suo operato al giudizio di sindacatori comunali. Più tardi, molte delle sue funzioni vennero assunte dal segretario comunale. Dopo il notaio, l'ufficiale pubblico più importante era l'esattore, carrier arius, nelle cui mani passavano tutti gli introiti della comunità. Egli veniva scelto dal Consiglio tra candidati capaci di offrire, personalmente o tramite mallevadore, un deposito cauzionano uguale al gettito complessivo delle imposte. Nel 1837 Carlo Buzzolini veniva eletto esattore « con sicurtà di Francesco Bonomo »; e nel 1857 venne scelto Filippo Popolla dopo aver posto « alla ballottazione la sicurtà prestata in persona dal proprio padre Gio. Lorenzo Popolla col vincolo ipotecario sopra i di lui beni ». Il Popolla venne eletto con voti « favorevoli n. 17, contrari neri n. 1 » sopra l'altro concorrente Enrico Panfili che divenne esattore alcuni anni più tardi (8). La carica dell'esattore era molto ambita per il guadagno personale che se ne poteva trarre; e la più invisa al popolo. « I municipali della terra di S. Stefano — diceva una lettera anonima inviata al Delegato apostolico il 19 febbraio 1860 — smunti sino alle midolla da ciascuno degli esattori comunali... (chiedono) all'ecc.za v.ra R.ma perché si degni porre un qualche riparo alla voracità di questi ladri domestici » (9).

Fino alla metà del Settecento, il publicus mandata-rius o balius era ufficiale di un certo rilievo nella curia comunale con funzioni giudiziarie ed amministrative, tra queste ultime quella di banditore pubblico, ma la sua posizione decadde in quella di usciere incaricato fra l'altro di sequestri e sfratti. Del medico e del maestro si parlerà altrove. Le guardie campestri, oltre a sorvegliare le proprietà pubbliche e a far servizio d'ordine, accertavano i capi di bestiame ed altre attività produttive per il fisco; i vigili paesani avevano il ruolo più modesto di sorvegliare le fontane, le cantine, la pulizia delle strade e di calmare i baccaglianti.

L'organico del governo di S. Stefano rimase sostanzialmente inalterato durante gli ultimi secoli, cambiando solo la terminologia della sua ufficialità. La rivoluzione francese abolì i due sindaci rimpiazzandoli con un maire., il quale titolo in francese ebbero i capi dell'amministrazione locale durante il quinquennio napoleonico (10); poi l'ufficiale unico fu chiamato gonfaloniere, priore e ancora sindaco e potestà secondo il vento politico del momento. Variò anche il numero dei consiglieri comunali, tra 20 e 17. Nel 1817, l'organico degli impiegati salariati del comune consisteva delle seguenti posizioni: gonfaloniere, segretario comunale, esattore, depositario, procuratore a Roma, procuratore in città, cioè forse a Prosinone, bali-vo, medico chirurgo, moderatore dell'orologio, postiglione, famiglio, due contatori di bestiame, maestro, predicatore (11).

La gestione del governo comunale fin dal Medioevo fu e rimase in mano di una ristretta oligarchia terriera locale trasformatasi dalla classe dei milites o cavalieri comitali, con l'influsso di funzionari forestieri che poi presero residenza nel paese.

Furono sindaci durante il Seicento: Giovanni Cori, Filippo Jorio, Domenico Jorio, Pietro Lucarini, Pietro Jorio, Pietro Gentile, Giovan Battista Grande, Pietro Bonomo, Stefano Valle, Sebastiano Tambucci; durante il Settecento: Nicola Cori, Paolo Antonio Poccia, Ambrosio Lucarini, Giovanni Rosso, Benedetto Maselli, Giovanni Leo, Pietro Masi; e nella prima metà dell'Ottocento; Francesco Passio, Domenico Jorio e Francesco Leo furono i maires o sindaci del periodo rivoluzionario, e quindi Salvatore Leo, Biagio Jorio, Luigi Petrilli, Giovan Battista Jorio, Michele Bravo ed altri. Carlo Leone e Biagio Carlone furono notai tra fine Seicento ed inizio Settecento, seguiti da Feliciano Lolli di Prossedi, Andrea Jorio, Domenico di Biagio Jorio e Giovan Battista Top-petta. Tra gli esattori troviamo Antonio Poccia, Pietro Galante, Filippo Jorio, Giovanni Gori e Carlo Leone nel Seicento; ed in tempi più vicini, Virgilio Jorio, Luigi Jorio, Matteo Bonomo, Carlo Buzzolini, Giuseppe Lucarini, Filippo Popolla, Enrico Panfili.

I comuni rurali del Basso Lazio conservarono a lungo le proprie autonomie., seppure condizionate dal potere feudale, grazie anche alle garanzie contenute negli statuti. Il potere esecutivo rimaneva però in mano al feudatario che lo esercitava localmente attraverso un suo vicario, il quale era anche castellano o capitano della rocca. Al tempo della signoria di Ceccano, il vicario di S. Stefano dipendeva direttamente dalla curia comitale; ma con il passaggio del feudo ai Colonna, egli rispondeva al governatore di Ceccano, anch'egli funzionario di casa Colonna.

Frattanto, per varie ragioni di politica locale ed europea, gli antichi poteri politici feudali incominciavano a declinare, specialmente in seguito alla creazione della Sacra Congregazione del buon governo, la cui giurisdizione venne estesa nel 1701 alle terre baronali. Dal lato umano, i feudatari di Campagna vennero ad identificarsi sempre più con l'aristocrazia romana nella quale prevalevano interessi economici sopra quelli politici e i vecchi feudi, una volta pedine di accanite lotte tra barone e barone, diventarono terre di rendite per le corti principesche attorno al soglio pontificio. Anche la funzione del vicario cambiò, diventando fattore dei beni baronali; a S. Stefano troviamo Giovanni Andrea Passio qualificato come « affittuario luogotenente di S. E. Colonna di questa terra di S. Stefano ». Egli stesso si firmava luogotenente: « Interfui ego Joannes Andreas Passio locote-nens» (12). Il suo compito era quello di amministrare i beni del suo signore, sorvegliare le attività del comune e promuovere i propri interessi. Oltre al Passio, furono luogotenenti dei Colonna a S. Stefano durante il Settecento Giovan Battista Leo, Giacomo Jorio e Giacinto Popolla.

L'arrivo dei francesi alla fine del secolo marcò la fine del sistema feudale che poi venne giuridicamente abolito dalla Chiesa, e la Delegazione apostolica di Fresinone prese direttamente il controllo degli enti locali. Cambiata l'impalcatura politica, gli uomini rimasero quelli di una volta nei governi distrettuali e nei sottogoverni dei paesi; dopo la restaurazione pontifìcia tornò a S. Stefano, con il titolo di vicegovernatore, Giacinto Popolla.

 

3. SERVIZI PUBBLICI E PRIVATI

Gli statuti tracciavano spesso minuziosamente le responsabilità delle amministrazioni comunali, prescrivendone la struttura ed il funzionamento sia nei rapporti con i poteri costituiti ecclesiastici e feudali, che nella condotta dei servizi pubblici e sociali, d'ordine, di lavori, igiene e sanità, scuola, attività festive e organizzazione dell'annona.

Il mantenimento dell'ordine pubblico, era compito di un corpo di guardie che presidiavano le due porte, controllavano l'esuberanza dei cittadini nelle taverne e per le strade, multando bestemmiatori e turbatori della calma e della quiete, sorvegliavano boschi e campagne intimorendo cacciatori di frodo, tagliatori abusivi di legna, furfanti indigeni e girovaghi, e assicuravano un minimo di pulizia nel paese e nelle fontane e fontanili, come pure la viabilità campestre intimando il periodico sfrondamento delle fratte lungo le strade. Il magro stipendio delle guardie veniva integrato con parte delle
ammende imposte ai contravventori.

Questi erano compiti di vigilanza comunale; il potere giudiziario era di competenza feudale, esercitato anticamente dal vicario con i suoi uomini d'arme. L'accentramento amministrativo imposto dai francesi al principio dell'Ottocento e l'aumento dei brigantaggio cambiarono il ruolo della forza di polizia; i vigili vennero inquadrati nei corpi di guardie civiche, e a S. Stefano venne creato un comando di piazza sotto un brigadiere dipendente dalla tenenza di Ceccano. Nel 1819, la brigata composta di nove carabinieri era alloggiata « nella casa di Matteo Bonomo posta sulla piazza », ma verso la metà del secolo il nucleo, il cui effettivo variava secondo la necessità, venne spostato nella caserma di proprietà comunale « in contrada via della Rocca ».

Non era raro il caso, quando la lotta contro i briganti diventava più intensa, che truppe regolari venissero dislocate nell'alta valle dell'Amaseno, come nel 1867 quando troviamo accampato nel territorio di S. Stefano un battaglione di cacciatori. Questo nuovo ordinamento venne a pesare sopra il bilancio comunale, dato che metà delle spese per il casermaggio e vitto dei gendarmi era a carico della comunità (13).

Durante il medioevo, i lavori di pubblica utilità e necessità, sia per la comunità che per il signore feudale, venivano fatti con prestazioni di giornate lavorative da parte della popolazione; nel Sei-Settecento questi obblighi vennero fiscalizzati e l'onere del loro finanziamento spettava al comune che procedeva secondo le risorse a disposizione; nell'agosto 1769, il Consiglio pubblico autorizzava a « comperare numero 6 alberi di cerque » per la costruzione di un ponte (14). I lavori venivano messi in appalto dal comune con la procedura della candela; si accendeva nella sala dell'archivio comunale una candela e i lavori venivano aggiudicati al miglior offerente prima che il moccolo fosse consumato: « Si metta la luce di candela in orologio di chi meglio fa per la comunità oppure che si tralasci di farlo accomodare » (15).

Nell'Ottocento, troviamo un numero di lavori pubblici eseguiti dal mastro muratore Giuseppe Buzzolini con il figlio Carlo: « Costruzione di un chiavicene nella piazza dell'Olmo... e restauro della strada che conduce alla fontana... risarcimento del muro fuori della porta dell'Olmo », lavori « a fonte Rivo » e alle fontane e fontanili. Spesso i muratori procedevano a completare i lavori a proprie spese, dovendo poi presentare al comune richiesta dopo richiesta per essere rimborsati. I muratori fungevano anche da vigili del fuoco; il 18 settembre 1847 si sviluppò un incendio « nella contrada lo Spedale Vecchio... E' solito il Buzzolini, come muratore e ugualmente ad altri muratori, di accorrere » (16). Venuta meno la necessità di mantenere e restaurare le mura castellane, il costo sociale e monetario per i lavori di pubblica utilità erano notevolmente diminuiti, con gran vantaggio della popolazione.

Le condizioni d'igiene pubblica a S. Stefano verso la fine del Settecento non erano granché peggiori di quelle di altri paesi e città europee; con la distruzione degli acquedotti romani; i barbari avevano rovinato tutto un sistema di vivere, e quello che non fecero i barbari venne completato dall'insegnamento cristiano che concepiva il corpo umano come una sentina d'impurità e peccati. Mancava l'acqua nel paese, salvo poche cisterne private, e le fontane della Salce e della Rentre, dove erano anche i lavatoi e gli abbeveratoi, distavano dall'abitato; nelle strade abbondavano rifiuti e sterco animale, e scolavano acque, morchie ed altre impurità, e chi vi si attardava a sera rischiava di sentirsi scaricare addosso broda ed anche altro. Ma passiamo la penna agli osservatori di quei tempi: « Che si giri per il paese onde osservare le strade ed altri luoghi che di nuovo sono stati ingombrati da immondizie, lordure ed acque corruttibili », così scriveva in una sua relazione al Consiglio comunale Gaspare Jorio nel 1837, ed esortava poi i suoi colleghi acciò reagissero: « ingiungendo ai proprietari di subito ripulire sotto la pena già stabilita di baiocchi trenta... essere la cosa urgente, e anche per non gravare la popolazione con altri riparti (di contributi)... che il denaro per la pulizia venisse dato dal Comune... Nel borgo fuori di Porta vi è un raduno di acque sordite e materiale corruttibile e propriamente sotto la fenestra dell'Ecc.mo Principe Colonna abitato dal sig. Domenico Antonio Marcila e da questi prodotto mediante gettiti di acque e d'immondizie dalla fenestra ». Gaspare Jorio, che era stato incaricato dal Consiglio comunale del quale faceva parte di fare un giro di ispezione per tutto il paese, chiudeva la sua relazione chiedendo che venisse intimato al Marella di smettere l'abuso, « come pure che sia condottata l'acqua del molino oleario dei sig.ri Bonomi (sic), qual'acqua ingombra la pubblica strada e piazza del paese col restagno di esse e che... siano intimati agli eredi proprietari Bonomo (sic) » (17).

Questa situazione al principio dell'Ottocento può dare un'idea di quella che sia stata la condizione igienica del paese nei secoli precedenti. Ma che le cose non progredissero ce lo dice un esposto anonimo indirizzato alle autorità provinciale inoltrato alla cancelleria di Ceccano il 17 agosto 1861 dal primo anziano del Consiglio comunale Luigi Petrilli e che portava il titolo: «La verità esposta dai santostefanesi ».

Dopo aver rivolte accuse al priore Cesare Perlini e all'amministrazione comunale, l'anonimo scrivente diceva che il paese era talmente sporco che « basta aver occhi per vederlo » ed in contrasto alle norme di sanità, « stalle piene a ribocco di fetido letame, entro di esse bestie suine da allievo (allevamento)... sporchissime le strade, (i suini) vanno di mattina e di giorno e di sera vagabondando, in qualche parte del paese cloache aperte che tramandano fetori. Miracolo che non siamo ancora consunti dalle peste ». Nella sua nota di accompagnamento a questa denuncia anonima, l'anziano Petrilli difendeva l'operato del Perlini e dell'amministrazione, spiegando che « fin dal principio dell'anno furono eliminate le troie di razza dall'abitato, e si tollerò che restassero solo gli animali suini da ingrasso » (18). Come molti possono ancora ricordare, maiali ed altri animali da cortile ebbero stalle e pollai dentro l'abitato fino a poco tempo fa, oltre ai somari e capre che vi rientravano a sera dalle campagne. Ma non erano solo gli animali a far lordume, prevaleva anche il cattivo gusto di defecare ed orinare negli angoli di strade; fortunatamente, venivano gran piogge e nubifragi a spazzare con le loro piene le sporcizie a valle.

Questa situazione non incideva eccessivamente sullo stato di salute della popolazione per le immunità acquisite, la quale peraltro era soggetta all'alto tasso di mortalità comune nei secoli passati; non esistevano concetti di profilassi e cura medica oltre a quelli empirici, e spesso si ricorreva a rimedi tra superstizione e stregoneria; la morte era di casa nella vita giornaliera del paese, e forse il fetore delle immondizie per le strade attutiva quello proveniente dai corpi umani in decomposizione tumulati nelle chiese. Tra le malattie più temute rimanevano sempre il vaiolo che se non uccideva sfigurava, la malaria ed altre senza nome che apparivano con forte virulenza per poi spegnersi; ma il gran terrore era quello della peste e poi del colera che cavalcava sul suo cavallo ischeletrito lasciando nel suo passare cumoli di cadaveri.

A S. Stefano, come in altre terre del Lazio, fin dal medioevo il comune stipendiava un medico condotto per i bisogni della popolazione; il primo del quale abbiamo conoscenza è un certo Borba la cui condotta venne confermata in una seduta dal Consiglio comunale del 28 gennaio 1720 (19); nel 1772 venne eletto « medico a condotta » Vittorio Nicolucci da Bassiano: II « medico chirurgo », come tutti gli ufficiali comunali, doveva essere confermato dal principe Colonna (20).

S'è già accennato alla esistenza in S. Stefano fin da tempi antichi di un ospedale o ospizio comunale, nella contrada che da esso aveva preso il nome Hospitale. Un visitatore del 1585 ce ne da un breve riferimento: « Con le elemosine, che la comunità elargiva, si sostentava l'ospedale dell'Annunciazione che era sub protetione et gubernio della comunità » (21).

L'ospedale, che poi venne detto vecchio con la costruzione del nuovo, occupava un casamento sotto la Urizzia addossato alle mura in buona parte ancora esistente, che oltre allo spazio per i ricoverati includeva un « cortiletto... la stanza dove fa il fuoco lo spedaliero e la stanza dei mendicanti dietro le mura del paese... e cisterna » (22).

Dopo l'apertura dell'ospedale nuovo all'alto di via Lata, il casamento proprietà del comune venne dato in affitto, ma con il crescente pericolo del colera che dal 1832 si era riversato in Europa dall'Asia e per essere pronto ad ogni eventualità, il comune nel 1836 decise « che per il locale dell'ospedale di cura resti destinata la casa comunale ora si ritiene affittata ad un certo Sebastiani, e che costui trovi casa altrove » (23). Nel 1837 temendo un imminente sconfinamento nel Basso Lazio del morbo asiatico che imperversava nel regno di Napoli, e dubitando della sufficienza dei due ospedali per i bisogni della popolazione che contava allora 1100 anime, la Congregazione della deputazione sanitaria del paese, in una seduta del 7 luglio 1837 propone di « utilizzare come ospedale il palazzo Colonna anche per tenere gl'infetti fuori del paese, (e che) s'intimi subito al... Marcila di sloggiare dal detto locale » — il Marella, che vi abitava, era il rappresentante di Giovan Lorenzo Popolla, affittuario dei Colonna, trasferitesi a Roma. Inoltre la Congregazione ordina all'esattore di stanziare somme necessarie per l'acquisto di letti nel caso il contagio si sviluppasse « disgraziatamente... nelle nostre contrada, che Iddio e il nostro protettore S. Rocco tenghi lontano »; e per coprire tutte le eventualità propone che venga messa una soprattassa sul fuocatico o si trovi altro modo per reperire i fondi necessari (24).

E il peggio venne. Non abbiamo dati sull'intensità del contagio, ma dovette essere pesante; nelle parole del farmacista Cesare Perlini, si vedevano « deserte le sacre funzioni » e si dovette ricorrere a suffumigi nella pubblica chiesa onde tener lontano il contagio specialmente nella tumulazione dei cadaveri in detta chiesa (25). Il colera si abbattè sull'Europa in varie ondate per tutto l'Ottocento e sul principio del nuovo secolo; frattanto la scienza medica faceva giganteschi passi in avanti ed i nuovi regolamenti sanitari limitavano la diffusione dei contagi. Ultima grande epidemia, di portata mondiale, fu la febbre spagnola del 1918 e del primo dopo guerra, che anche a Villa S. Stefano portò molte anime al Redentore.

Nel medioevo la scuola faceva parte delle attività ecclesiastiche e rimase tale in Italia e nello stato della Chiesa nei secoli che seguirono; nei paesi come S. Stefano il maestro era generalmente l'arciprete, o un chierico, che istruiva ragazzi intelligenti e volenterosi avviandoli verso la religione e la carriera ecclesiastica. La scuola laica, anche se non esisteva, non era concetto totalmente estraneo al pensare di certe persone. Durante una seduta del Consiglio pubblico il 16 gennaio 1720, nella quale si discusse anche del finanziamento per la scuola comunale, rispondendo al collega Michele Galante il quale proponeva chiedere contributi ai Luoghi pii, cioè agli enti ecclesiastici, il consigliere Virgilio Jorio disse « che la scuola è bene pubblico » e che spettava alla comunità provvedere i fondi necessari (26).

Ma l'istruzione pubblica rimase a lungo la cenerentola dei servizi comunali; e continuò a tirare avanti grazie alle sovvenzioni di enti religiosi, come la confraternita di S. Pietro Apostolo (27). Tra i primi insegnanti ricordati nei documenti troviamo Stefano Bravo, « maestro di scuola » nel 1774 (28). Quale sia stata l'entità della scuola a S. Stefano ce lo dice una relazione del novembre 1828: « un solo maestro » insegnava cinque classi composte di una quarantina di scolari, e l'insegnamento si faceva generalmente nella casa del maestro, infatti allora « la comune di S. Stefano finora non ha un locale proprio » per la scuola, condizione che infatti non era cambiata cent'anni dopo (29).

I maestri venivano generalmente da altre parti dello Stato pontificio, e quando non era possibile trovarne uno anche per il miserevole stipendio che gli si dava, si chiudeva la scuola, come accadde per due anni dal 1820 al 1822 (30). La situazione migliorò alquanto con l'avvento del regno Savoia, l'analfabetismo continuò a predominare nelle classi contadine ed anche in quelle artigiane, e nei primi decenni del presente secolo era la chiesa, nella persona dell'arciprete don Amasio Bonomi, ad aiutare i giovani con l'insegnamento personale, facendo anche venire insegnanti da fuori per la musica.

Per antica tradizione che probabilmente si rifaceva alle tradizioni pagensi romane, due volte l'anno a S. Stefano si usava sfamare il popolo indigente e i forestieri con elargizione di viveri in un'atmosfera di festa pubblica: nell'inverno, tra gennaio e marzo, si aveva lo sfamo del popolo con distribuzione di pane, ed in estate con quella di legumi cotti, detta liberanza dì agosto; il comune non conduceva queste attività in proprio, ma le appaltava ad imprenditori locali. « Si dia lo sfamo a Biagio Jorii... (e che) il pane di buona farina (sia) fatto e non di ghianda... farina di siciliano (granturco) e falloni (pani di granturco) » così deliberava il Consiglio pubblico in una seduta del gennaio 1769. Nel marzo del 1773 venivano fatti «li soliti bandimenti... per lo sfamo del popolo e specialmente per li birri e forestieri ». Il 22 agosto 1770 il Consiglio risolveva che « l'affitto della liberanza si dia a Paolo Leo per scudi sei e mezzo... e che però si sono (siano) distribuiti ceci dal granaio (pubblico) e quelli raccolti ». L'appaltatore si limitava ad organizzare la cottura e distribuzione dei legumi, mentre i ceci ed altri viveri venivano raccolti tra la popolazione ed integrati se necessario dalle scorte tenute nel granavo del monte, cioè quello comunale. Quando non era possibile raccogliere il necessario, allora si ricorreva a imposte, così durante la riunione del consiglio il 31 luglio 1769 venne proposto che « nell'entrante mese di agosto si deve esigere scudi cento in più di grano dato al popolo di S. Stefano... e si deve fare il solito granare o si deve esigere in denaro » (31).

Poco a poco, queste elargizioni di viveri, vennero integrate con le festività religiose di S. Sebastiano e di S. Rocco, ma la gestione rimase in mano alle autorità civili. Le feste di S. Sebastiano e di S. Rocco erano state sempre responsabilità delle autorità civili perché la chiesa di S. Sebastiano, e la cappella di S. Rocco che in essa aveva sede, venivano sotto il giuspatronato del comune che lo aveva ereditato dai conti di Ceccano. « Si faccia la festa del glorioso S. Sebastiano », decretava il Consiglio pubblico il 16 gennaio 1720. Nell'agosto 1774, fatti i soliti bandimenti per la liberanza, il consiglio veniva informato che « si è fatta la cerca per fare la festa di S. Rocco e si è fatto quartarelle 13 grano e più di una quartarella di legumi » (32).

La festa di S. Rocco fu e rimase una delle tante celebrazioni religiose, differente solo, come quella di S. Sebastiano, per la partecipazione delle autorità civili. Verso la fine dell'Ottocento, la ricorrenza di S. Rocco diventò la sagra principale del paese, e a renderla tale fu la confluenza in questa festività di varie tradizioni popolari, tra le quali lo sfamo, la liberanza, il trasferimento della fiera di S. Giovanni ad agosto dopo il 1845, lo spostamento dell'antica festività di Ferragosto dal principio alla metà del mese, il tutto a coincidere con la festa dell'Assunta che dai primi secoli era stata una delle maggiori feste dell'anno in tutto il Lazio.

Artefice di questa fusione di elementi sacri e profani in una gloriosa festa di mezza, estate, il 15 e 16 agosto, fu don Rocco Ventura arciprete di S. Stefano durante gli anni Sessanta. Fu solo nel 1861 che fu possibile celebrare con solenne festa di chiesa questo « santo confessore... di questa terra di S. Stefano avvocato e protettore... principale... il dì 16 agosto di ogni anno, essendosi ottenuta la licenza dalla S. C. dei riti nell'anno 1861 di poter celebrare messa solenne, nonostante, la concorrenza di prima classe nel dì per S. Ambrogio martire, e con facoltà al clero della suddetta terra di poter rimettere l'ufficio doppio in altro giorno » (33). Contribuirono ad aumentare il fervore popolare verso questo santo degli appestati le ondate di colera che si susseguirono dopo quella del 1837 nel 1847, 1853, e quindi nel 1865, 1869 alla fine del secolo ed oltre.

Si creò così una devozione quasi viscerale da parte del popolo verso questo santo taumaturgo e la sua festa diventò la più importante del paese, anche perché la stagione favorevole facilitava l'afflusso di forestieri. Alla festa di S. Sebastiano che veniva in pieno inverno mancavano questi requisiti; inoltre la « statua lignea dipinta » del santo non poteva essere portata in processione essendo l'albero al quale il santo era legato murato nella base della nicchia (34).

La statua di S. Rocco che tuttora si venera in Villa S. Stefano risale all'Ottocento ed è di probabile origine francese, mentre la macchina processionale fu opera di Giuseppe Tranelli, artigiano locale, che la fece al principio del Novecento (35).

 

4. FINANZA PUBBLICA

Per far fronte alle spese amministrative e sociali descritte, il governo comunale doveva rivalersi sulla popolazione attraverso tasse ed imposte che il Consiglio pubblico fissava e l'esattore riscuoteva. Queste includevano: fuocatico, imposte catastali, tasse d'esercizio e imposte indirette sulla produzione e consumi locali e dazi e gabelle sul movimento dei beni di consumo, oltre a multe e ammende « prò curia et fisco terre S. Stephani... centra infractos », come diceva la formula rituale (36).

Alle entrate fiscali si aggiungevano quelle delle rendite dalle terre comunali per l'affitto dei pascoli e del fieno ai Porcini ed in altri prati e del pascolo della montagna il cui diritto di erbatico il comune riscattava con pagamento di un tributo annuo a casa Colonna; il comune aveva case ed altre proprietà dentro il paese dalle quali percepiva affitti. « Avendo l'offerta Pietro Viella di voler fidare gli suoi animali neri (suini) alii fusteti delle jande e nella montagna ed pagare scudi quaranta », il consiglio pubblico accettò l'offerta il 16 ottobre 1773, con la condizione che « non (vi) possono pascolare altre bestie di cittadini e forestieri ».

L'affitto dei « quarti d'inverno » al Porcini andava da ottobre a dicembre e da gennaio a marzo, dopodiché i prati andavano a fieno; nell'autunno del 1771, il consiglio approvava « che si sia dato al sig. Giacomo Jorio il quarto di erba d'inverno in contrada li Porcini... per scudi quarantacinque », e nel gennaio dell'anno seguente per le « capre e pecore di Crescenze (Luciani) » (37).

In paese, oltre alle tasse per esercizi pubblici come botteghe, spacci e cantine, il comune dava in concessione il macello ed il forno comunale, quello della Portella, per un periodo di tempo, con il sistema della candela. Dopo i soliti bandimenti, il 16 marzo 1720, Carlo Titi offre di fare il pane « per servizi pubblici cioè pane di tutta farina, per questo corrente mese darlo per baiocchi dodici e mezzo la decina, e per tutti (fino) li 20 di giugno darlo a 13 baiocchi la decina, però che non possa più vermi vendere altro pane ne da cittadini ne da forestieri ». Ai bandimenti « per l'affitto del macello » fatto nel marzo 1773, rispondeva solo Biagio Jorio (38).

Quando la necessità lo richiedeva, il comune organizzava collette per integrare le disponibilità del granaio pubblico, e imponeva anche oneri fiscali straordinari.

Non è chiaro quando e per quale ragione, ma fu probabilmente sul finire del Seicento che, non essendo le entrate comunali sufficienti a coprire le spese, si dovette ricorrere a prestiti fuori della comunità. Si creò così una voce nuova nel passivo della bilancia comunale, quella del debito pubblico. Il prestito era stato contratto presso uno dei monti finanziari di Roma, e già nel 1719 il pressante problema del pagamento degli interessi assillava l'amministrazione comunale e preoccupava la popolazione. Si discusse di questo problema in una assemblea pubblica nella piazza il 7 ottobre di quell'anno e come « far avere li quattrini che tanto tempo sono desiderati dal loco de' monti... scudi cento ». Il notaio Andrea Jorio deprecò la facilità con la quale il comune correva a far prestiti e il monte a concederli e proponendo che al sig. Giovanni Pelliccia, mandato a riscuotere gli arretrati, « li si diano scudi settanta però contato che bavera il denaro alii affitti (cioè quando si riscuotevano gli affitti comunali) ».

Ma le cose non andavano bene affatto, e in un'altra assemblea dieci giorni dopo « alla quale era intervenuta la maggior parte del popolo, si fa sapere... come tutti gli esattori si lamentavano le paghe fallire e citano li affìtti acciò li siano bonate (abbonate, cioè garantite)... Gio Batta Testa diede alcuno grano l'ultima volta alii tedeschi vole essere pagato e ha fatto citare li affìtti... si deve vedere la causa sia di Tambucci come del Passio in Ferentino che non vogliono pagare li camerali... Una persona si è offerta di bavere l'ordine di far pagare le robbe date alii tedeschi... Gio Carlo Galante dice che li esattori possessino la robba di quelli che dicono non si trovano per pagare li camerali ed altri beni comunali ».

La situazione diventa critica; il rev. Giuseppe Testa, vicario foraneo, fa richiesta alla Congregazione del buon governo che si permetta di « imponere la colletta... per sollevare la povera comunità da tanti interessi », e in data 18 novembre 1719, il cardinale Carlo Imperiali prefetto della Congregazione da «la permissione di imporre una colletta di uno scudo a foco alla quale vi debbano concorrere anche gli ecclesiastici per sostenere li debiti arretrati ».

Ma la vicenda continua; nel gennaio del 1720 arriva « ordine di mons. Ill.mo di Frosinone che se passano (paghino) li interessi sopra li mai pagati del milione e frutti... e che ogni giorno corrono (crescono) in interessi »; e nella seduta del 9 marzo, il Consiglio pubblico viene informato che « si è ricevuta l'intimazione del principale del milione che si deve fare e che non si trova chi l'esiggi e se si deve dare a forza all'esigenza... » (39).

La situazione si presentava ancor più critica per il piccolo paese che si affacciava all'era moderna tra la esigenza di dover pagare gl'interessi del milione, l'insolvenza dell'erario comunale che non rendeva possibile neanche il pagamento delle spese amministrative, la renitenza di alcuni signori a pagare le loro imposte camerali, l'insistenza di chi chiedeva pagamento per il grano anticipato « alii tedeschi » — cioè alle truppe imperiali austriache nella spedizione contro il regno di Napoli del 1706, durante la guerra di successione di Spagna, della quale la Chiesa dovette sopportare le spese, — ed ora l'imposizione di una soprattassa di « un scudo a foco » relativamente più gravosa per i piccoli proprietari ed artigiani. Per la mancanza di documenti, non sappiamo come andarono le cose; presumibilmente bene, dato che il problema del debito pubblico non affiora nei documenti comunali degli anni seguenti che ci sono rimasti; inoltre la vivace congiuntura economica che traspare dalle attività edilizie durante il resto del Settecento fa assumere che la situazione si sia risolta felicemente.

Durante l'Ottocento il gravame fiscale del paese, amministrato direttamente dal Buon governo, non si alleggerì, anche perché si dovette contribuire con acquartieramenti ed alimenti di truppa e gendarmi nella lotta contro il brigantaggio. Il comune cercò di liberarsi di quanto rimaneva de facto delle prerogative feudali dei Colonna sulla zona del Siserno per poterla valorizzare a beneficio della comunità e provvedere a nuove entrate (40).

Forse la comunità e la finanza locale avrebbero potuto trar vantaggio dalle rimesse degli emigranti nel Novecento, ma l'accentramento amministrativo del nuovo stato italiano eliminò i residui delle libertà ed autonomie locali mettendo tutti gli aspetti della vita del municipio in mano ai prefetti, intendenti e banchieri centrali.

 

5. ORDINAMENTO GIUDIZIARIO

Nel medioevo, il potere giudiziario nei castra del Lazio era prerogativa del vicario feudale, il quale lo esercitava personalmente nei casi di reati gravi — sanguinis pena, banna, furfacture — mentre per quelli minori delegava la responsabilità ai collegi di boni homines, ed in materia di dampnis datis, cioè di danno a cose, rimetteva la giurisdizione a uditori locali detti publici mandatari. Con l'estensione dei poteri della Congregazione del buon governo alle terre baronali, il mandato giudiziario venne rimesso all'autorità sovrana della Chiesa che lo amministrava, nei casi civili, attraverso curie laiche distrettuali, che poi vennero a dipendere dal Tribunale di Ferentino.

Oltre a regolare i rapporti tra cittadini e stato sovrano e potere feudale, gli statuti comunali contenevano veri codici di diritto privato fondati sulla giurisprudenza romana, ma con aperture a diritto consuetudinario venutosi a formare durante l'assestamento civile dopo la caduta dell'impero (41).

Si procedeva all'incriminazione per denunzia, accusa o inquisizione tenendo però in considerazione le libertà civili del popolo; non mancava ovviamente in questi statuti di natura concordataria una predisposizione classista che permetteva ai signori o milites di essere giudicati da tribunali composti di loro pari, mentre le persone socialmente ed economicamente emarginate erano lasciate alla mercé della curia.

L'accusato aveva diritto di conoscere i capi di accusa e l'identità dell'accusatore; e quasi tutti i reati, oltre che con l'incarcerazione, potevano essere scontati con il pagamento di multa da ripartirsi tra curia ed offeso, incluso il guidrigildo. Speciale considerazione veniva accordata ai minorenni, sotto i 14 anni per i maschi e sotto i 12 per le femmine, per i quali le pene erano dimezzate eccetto per « homicidio, furto, rapina, adulterio, incendio e tradimento in li quali casi... volemo che siano sottomessi a quelle pene... (de) li huomini di perfetta età », mentre i minori di 9 anni non erano soggetti a pena alcuna (42). La pena capitale veniva riservata per delitti contro lo stato, per briganti e fuorilegge recidivi, ed in alcuni casi per omicidio; la legge del taglione era applicata per reati gravi contro persona o proprietà, in particolare per incendio doloso.

Pene severe erano comminate per atti contro la religione: « chi bestemmia Iddio o la Beata Vergine Maria... e chi fa le fiche (« ficum... facere ») contro Dio, le sue immagini o quelle dei santi, o chi imprechi contro la santa Croce, la passione di Cristo, i chiodi, la corona di spini... e non sia in grado di pagare l'ammenda, verrà frustato per le vie del paese ». Una punizione simile veniva data alle adultere che non potevano pagare l'ammenda, le quali « spogliate nude... frùstinose per tutta la terra un dì di domenica o dì di festa, acciò che a tutte passe in esempio ».

Ma la maggior parte delle incombenze giudiziarie nei comuni rurali riguardavano infrazioni alle regole della convivenza sociale: « spinte... donna presa per i capelli... rinfacciamento dei propri morti... adulteri delle mogli... tradimenti., chi chiama una donna puttana, ladra, ruffiana, malafemmina... o dice ad un uomo cornuto, ladro, figlio di putta, minchione... » e così via (43).

Non abbiamo, sfortunatamente, il testo dello statuto di S. Stefano per darci una prospettiva della situazione giudiziaria; però, gli stralci qui presentati da statuti di altri comuni rurali laziali, con una stessa matrice giuridica e simile sviluppo storico, offrono un quadro realisticamente vicino alla vita come era anche nei paesi della valle dell'Amaseno fino al secolo XVII. Abbiamo però un gruppo di documenti, i Libri querelarum, o raccolte di querele sporte dai cittadini per danni ricevuti, che presentano uno scorcio molto movimentato e a tinte vivaci di signori e villani che si avvicendano nell'aula della curia davanti al publicus mandatarius curie laicali terre S. Stephani e al notaio, con due testimoni, a far valere i propri diritti. Erano perlopiù signori e possidenti che si querelavano l'un l'altro: « il sig. Romualdo Passio contro Domenico Jorio del quondam Biagio... Marco Aurelio Olivieri contro Romano De Fabiis... Marcantonio Jorio... sig. Nicola Berardi de Terra Loliani... sig. Rocco Tambucci... Saverio Petrilli ».

Il 22 agosto 1784, «il sig. Giacomo Jorio... accusa Domenico Viella per averlo trovato oggi a coglie uva nel suo arboreto in contrada Colle Stramma lavorato da Salvatore Masi e ne aveva fatto un paniere ». Due giorni dopo lo stesso Giacomo Jorio ritorna in curia e « per detto di Gabriele Toppetta accusa il somaro di Rocco Lucarini per avergli dato danno l'altro ieri nel suo alboreto in contrada Pocara con arbori di viti e fichi ristretto di fratta ». Nell'ottobre dello stesso anno il « Rev. sig. Giuseppe Passio (vicario foraneo)... querela chiunque abbia voltato un catenaccio nella sua porta in contrada S. Pietro ». Michele Tranelli « querela chiunque abbia colte o rubate le piante di tabacco che egli aveva piantate nel suo orto... in contrada le Fraginala ».

Molto accorata era la querela di Maria Maselli contro il tempo stabilito, attrezzi ed utensili venivano vensandolo di non averla pagata dopo che « ci ho coscito quatro camise... un lenzuolo novo... ci ho fatto il pane otto giorni... conciato il grano... andava a lavare ogni mese li panni... cuscito un paro di calzoni... una casacca al figlio... ».

Le querele venivano presentate al mandatario nei giorni di udienza il quale le esaminava e, presente il notaio, passava giudizio e comminava ammende o assolveva: « Dom. Viella... absolutus fuit hac die 29 augusti 1784 » dall'accusa sporta da Giacomo Jorio; un'ammenda di due baiocchi perché il ragazzo che custodiva le bestie della famiglia Ottaviani le aveva fatte sconfinare nei poderi altrui; un'altra al figlio di Vittoria Toppetta perché non curava la madre malata. E quando i colpevoli non avevano contanti per pagare le ammende, si ricorreva ai sequestri: « caldaia... vanga... piccone... padella... concone... zappa... caldarozza di rame » messi tutti nel deposito dei pegni nella curia, e se non riscattati entro Giovan Battista Tranelli in data 16 aprile 1733 accuduti « prò curia et fisco ».

I magistrati della curia laicale di S. Stefano portavano il titolo di publìcus mandatarius e di publicus balius e dipendevano dal governo o magistratura di Ferentino; loro compito era di « giudicare soluzioni » tra querelanti, ma anche di mettere in atto sequestri, riscuotere ammende, accertare danni, sorvegliare pegni e così via. Alle loro udienze doveva esser presente un notaio il quale redigeva il verbale delle denunzie e le sentenze. Tra i mandatari che tennero la curia laicale di S. Stefano nel Settecento troviamo: Erasmo Rossi, Vincenzo Reatini, Bartolomeo e Matteo Petrilli; e tra i notai che sedettero con loro durante le udienze: Feliciano Lolli di Prossedi, Andrea e Domenico Jorio, e Giovan Battista Toppetta (44).

 

 

 

 

(1) ACVSS. Catasti del Cinquecento, pag. 153. Questi due catasti esistono in una copia con numerazione di pagine consecutiva e cuciti in un solo volume. Dall'esame del contenuto dei due documenti, è chiaro che il primo catasto si riferisce all'inizio del secolo; mancano però le prime pagine con la data di compilazione. Il secondo catasto ha inizio a paig. 153 con un preambolo nel quale c'è una confusione di date: il primo anno del pontificato di S. Pio V fu il 1566 nona indizione e non ottava come si dice nel testo.

(2) Francesco Tomassetti, «Statuto di Ripi MOOCXXI», art. 6 in Statuti della provincia romana, Istituto storico italiano, Roma, 1930.

(3) Tomasseti, «Statuto di Vico-varo MiCOLXXIII», op. cit., preambolo.

(4) Ibid.

(5) ASF. B/1137 F/2932. Non c'è traccia di questo statuto nel-l'A'CVSS. E molto probabile che copia dello statuto di S. Stefano sia rintracciabile nell'archivio Colonna o nel!'archivio di Stato di Roma dove venne trasferita ed aumentata la raccolta di statuti dello Stato pontificio che si trovava nel palazzo di Montecitorio.

(6) «Adunarono il publico Consiglio delli 20 consiglieri... Salvatore Masi e Giovanni Leo nell'archivio luogo solito col assistenza e presenza dell' Ill.mo sig. Già. Andre a Passiij luogotenente di questo luogo »; ACViSS. Sedute Consiliari (Sed. Cons.).

(7) lina.

(8) ASF. B/1139 F/2943.

(9) ASF. B/1140 F/294445

(10) Per una discussione del periodo di governa francese, v. capitolo XII.

(11) AiSF. B/1141 F/2946.

(12) ACVSS/Sed. Cons. 1772.

(13) ASF. B/1132 e B/1159 F/2981.

(14) AOVSS/Sed. Cons.

(15) AOViSS/Sed. Cons. 16 gennaio 1720.

(16) ASF. B/1135, 1136, 1158 e 1159 F/2984.

(17) ASF. B/1159 F/2890.

(18) Ibid.

(19) AOVSS/Sed. Cons.

(20) Ibid. .---..

(21) Valeri, op. ci*., 691.

(22) APVSS. Inventario beni di S. Sebastiano, 1866.

(23) ASF. B/1159 F/2890: Risoluzione consiliare del 7 novembre 1836.

(24) ASF. B/1159 F/2890.

(25) ASF. B/1159 F/2890. Da una richiesta del Perlina nel 1857 di pagamento « per i sufìfumiggi eseguiti al tempo del cholera » ordinata dal segretario comunale Caradonna, pagamento che venne rifiutato dal Consiglio.

(26) ACVSS/Sed. Cons.

(27) INV/SPAp., 47.

(28) ACVSS/Sed. Cons.

(29) ASF. B/1135.

(30) ASF. B/1141 F/2946.

(31) ADVSS/Sed. Cons.

(32) Ibid.

(33) APVSS/Invent. S. Sebastiano.

(34) La statua lignea di S. Sebastiano era sull'altare maggiore della chiesa nel 1585, Valeri, op. cit., 691. Parte della tradizione popolare era la credenza che la statua del santo non si dovesse portare in processione, non si sa il perché; e che una volta che ciò si fece segando l'albero dalla base della nicchia, appena la statua uscì dalla porta della chiesa si scatenò un tale temporale che la gente impaurita chiese che il santo venisse riposto nella sua nicchia dalla quale non venne più rimosso.

(35) Non si conosce la provenienza della statua di S. Rocco; qualcuno dice che sia di origine francese, e data la presenza di soldati francesi che da metà ottocento proteggevano lo stato pontificio dai garibaldini, ciò appare probabile. La macchina processionale venne fatta dall'intagliatore Giuseppe Tranelli, il quale aveva fatto anche quella di S. Biagio a Giuliano. Non è stato possibile rintracciare nei vari archivi alcun riferimento alla tradizionale panarda, sulla quale v. Ilio Petrilli « La panarda », in Sancto Stephano de valle, Cassino 1982, dove vengono citati documenti del secolo XVII dalTAGVSS, non ritrovati dal presente autore. La voce panarda è variante dialettale dell'italiano panata, minestra che si faceva inzuppando pane in legumi cotti e che non era altro che la putta o polenta della povera gente ai tempi idi Roma; cfr. spagnolo panada.

(36) APSVSS/L.Q. 1774.

(37) AOVSS/Sed. Caos.

(38) Ibid

(39) Ibid.

(40) ASF. B/1138, F/2939-40.

(41) « Et ubi dictum statutum non loqueretur, iura comunia ob-servabo », come si legge nello « Statuto di Roccantica », art. 2, edito da Vincenzo Federici in Statuti della provincia romana, Istituto Storico Italiano, Roma, 1910. Vedansi anche, nelle due raccolte, gli statuti di «Aspra» art. 32; « Viterbo » III, XVI; «Cave» 62 e 112.

(42) Per le pene contro i bestemmiatori, ibid.: Castel Fiorentino 11: «Cave» 16; «Tivoli» 145; «Ripi» 7 ed altri. Per le pene contro le adultere: «Aspra» 14.

(43) Ibid. « Roecantica » 132: «Castel Fiorentino» 49 ed altri.

(44) AOVSB. Libri Querelarum 1732-33, 1758-59, 1783-84. Le annate 1734-36 si trovano, come già citato, nell'APVSS.

 

 

 

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