Cap. IV - TERRITORIO E PROPRIETA' FONDIARIA

Già nel Tre-Quattrocento il Castrum S. Stephani comprendeva una fascia rettangolare di terre che dalla sommità del monte Siserno scendevano, tra i tenitori di Giuliano e S. Lorenzo, alla sponda del fiume e che, per naturale posizione, si dividevano in zone montane, terreni alla periferia del paese e contrade di campagna che dalle mura castellane si allargavano verso valle come un ampio zinale.

A queste terre o contrade, si accedeva per mezzo di alcune strade primarie, che poi si sfilavano in tanti viottoli e sentieri che portavano ai cancelli delle proprietà anche le più piccole; esse prendevano il via dalle due porte principali che si aprivano nella cinta muraria: la Porta e la Portella.

La strada che usciva dalla Porta, si biforcava: una risaliva lungo il fossato verso la chiesa di S. Sebastiano da dove incominciava ad inerpicarsi per sentieri usati da caprari e porcari per portare i loro animali a pascolare in montagna, l'altra s'inoltrava tra gli orti che una volta occupavano lo spazio dell'odierna piazza Umberto, oltre la chiesetta di S. Antonio Abate, e scendeva verso la Pezza fino ad incontrare la strada degli Spagnoli vicino la chiesa di S. Maria della Pozza per proseguire quindi alla volta della Selva, del Pantano, delle Prata e della Mola su fiume.

Dalla strada degli Spagnoli, che veniva giù da colle Porcini e da Vallefratta e che dava accesso al Monti-cello e ai prati di capo la Selva, si potevano raggiungere tutte le contrade lungo il fiume e quelle a mezza costa.

La strada che usciva dalla Portella era di gran lunga la più importante per il paese in quanto dava accesso alla maggior parte delle terre; essa scendeva, tagliata nella scarpata tufacea, fino alla cona o edicola della Portella, ora Madonna delle Grazie, dove si divideva: quella a sinistra portava, immediatamente, alla fontana della Salce e alla contrada Rivienna dove si facevano i semenzai, jraginali, per gli ortaggi e poi al Ficoreto e allo Spirito Santo; ma prima di scendere alla Salce, la strada si biforcava nuovamente per diramarsi nelle strade delle Strette, Mogito, Parasacco ed altre minori che arrivavano fino al fiume intersecando in vari posti la strada degli Spagnoli. *

La strada a destra della cona della Portella scendeva sotto la muraglia di tufo tra bagolari e fichi alla fontana della Rentre nella contrada Sottollòrta e si snodava tra castagni e cerri in direzione della contrada Spirito Santo, raggiunta dall'alto dai sentieri di Vallaréa, di Ciglia o Stretta Cupa e di Drento o Durante.

Alla cona dello Spirito Santo, dove nel primo Settecento venne costruito il tempio dedicato alla Madonna, si aveva un nuovo bivio: a sinistra si apriva la strada dei colli che raggiungeva quella degli Spagnoli per proseguire verso il fiume; a destra si arrivava all'antica chiesa e valle di S. Giovanni, dove la raggiungeva la strada della Selvotta che scendeva dalle Fontanelle, e proseguiva quindi verso le terre della primitiva comunità in due tracciati, quello delle Sparelle che portava alla chiesa e colle di S. Silvestre, e la strada degli Spagnoli che a questo punto veniva a toccare la riva del fiume, mentre l'altra che calava verso Valcatora e l'Ouzzo s'incontrava con la strada della Palombara ed insieme raggiungevano anche esse la strada degli Spagnoli diretta all'agro pontino.

I terreni alla periferia del paese erano coltivati a orti e frutteti, e quando la valle e i colli erano inaccessibili a causa di azioni di guerra, la popolazione doveva sfamarsi dal ricavato di queste terre e dall'ammasso nei granai privati e pubblici.

In questa zona, che faceva da anello sbilenco alle mura castellane, e comprendeva le contrada di S. Sebastiano, S. Antonio, cona della Portella, Rivienna, Rentre, Sottollòrta e Vallaréa, si coltivava una quantità di frutta, fichi, susine, noci, viti e ulivi, castagne e ghiande, che in tempi di gran carestia venivano macinate per farne pane, ma soprattutto fagioli, lupini, cicerchie, fave, scalogni, rape, erbe eduli di prato e di fratta usate, prima della introduzione del mais, per fare la putta o polenta di verdure.

Prima che l'abitato venisse ad occupare tutta l'area del pianoro tufaceo sopra il quale sorgeva il paese, rimanevano alcuni spazi aperti lavorati ad orto con casolari e stalle: uno, chiamato Allòrta, si estendeva dallo spiazzo fuori la Portella fino a dietro la chiesa di S. Pietro dove nel Settecento si costruì il Borgonuovo; un altro rimaneva sotto la rocca ceccanense, e parte del terreno venne utilizzato sul finire del Cinquecento per la costruzione della contrada di Corte, mentre nel rimanente si aprì poi la piazza dell'Olmo, scomparsa però un po' alla volta per le erosioni alle quali questa zona era soggetta; l'ultimo consisteva di una striscia di terra che dalla Porta costeggiava le mura lungo il ciglio del fossato, che riparato com'era dai freddi del settentrione si prestava alla coltivazione degli agrumi e di ortaggi.

Nell'ampia zona di terre tra la Pezza, e Valcatora le colture erano generalmente miste, sia per le caratteristiche del suolo, sia per la necessità economica di avere un raccolto diversificato abbastanza per l'alimentazione della famiglia del proprietario; perciò in un dato podere si potevano trovare pezze arative, arboreti, vigne ed anche uliveti nelle zone adatte.

In base ai documenti disponibili, che vanno dal Cinquecento all'Ottocento, è possibile fare un quadro delle colture che prevalevano nelle varie contrade, molte delle quali conservano tuttora i nomi che forse avevano già al tempo di S. Stefano in valle. Zone arative erano alla Fontana Nova, Vitello o cona Pietro Giovanni, Porcini, colle Campo, Prata, valle Fossa, colle Bocchino o Vallefredda, Pantano, S. Maria della Stella, vado Orlando, Canneto, colle Formale, Ara Bella Donna, Ara del Tufo, capo la Selva, grotte Saracene già morrone Saraceno, S. Salvatore, S. Silvestre, Volca, Homini morti, Valcatora, valle della Chiesa, valle del Vescovo o fontana Soccognali, valle Pretadammo, valle Martino, valle S. Andrea, valle Simione e vasca Martino; vigne al colle Formale, S. Giovanni o colle Cesa, fontana Zicagnega, fontana dell'Amico, Spirito Santo, Durante, Gorga, Pocara o Vado Marcello, ponte del Mogito, Ziovecchio ed altrove; terreni olivati al Pagliaro Palombo, Pretarèa, Preta d'Azzo, Ser-rone della Chiesa, S. Catarina, Prece o S. Marco, Piaggia o Grotte, Lavina, Stroppare, Tartanone, Pocara, Pezza dei Santi ed in altre terre di montagna diboscate nell'Ottocento; terreni alberati che spesso includevano frutteti, vigne, querce e castagne si trovavano dappertutto, da Po-cara, Prece, Ciglia, Durante a Valcatora, sui colli, al Pozzo di Maria lacono, Rivienna, S. Antonio e S. Sebastiano, mentre in alcune contrada prodominavano querce e castagni, come al Cercito, Farnito, Ciglia, Spirito Santo, Castagneto Sprecato, Parasacco, Pozzo Maria Antonello, S. Maria Maddalena, Sciuarelle, Selvotta e la Selva di S. Stefano che il Fossatello divideva da quella di San Lorenzo; nelle zone acquose, come a Vallefredda e All'isola presso la mola di Giuliano, abbondavano canneti il cui prodotto era utile non solo per la fattura di canestre, panieri ed altri contenitori, ma anche per la costruzione dei tralicci per mura di tramezzo nelle case; oltre il Pantano si estendeva la zona dei prati, con Prata Larghe, Prata del Signore, Prato Marcelle o Cannauicci, terre di Passio ed altre.

La zona montana del Siserno, che prendeva il nome dall'erba pastinacca, siser in latino, che vi abbondava nel sottobosco, si estendeva dal canalone del Tartarone alla contrada Pozza, poi chiamata Macchione, sotto Campo Lupino. La parte di mezza costa, che toccava quasi il nucleo abitato, fino al principio dell'Ottocento era coperta da una folta boscaglia di querce, castagni ed altri alberi d'alto fusto; vi sporgevano speroni di roccia calcarea con i cespugli di stramma, il tenace saracco, che sventolava i suoi lunghi pennacchi al sole, e in primavera ci fiorivano corbezzoli e ginestre.

Sull'alta montagna la vegetazione era rada, con macchie di lecci caspugliosi, lentischi, corbezzoli ed altri arbusti ed erbe che la rendevano adatta all'addiaccio estivo; vi si vedono ancora procoi, come la Mandra di Civito, di fattura quasi ciclopica, costruiti a maceria dai pastori negli ultimi secoli per proteggere il gregge da lupi ed altri predatori.

La copertura boschiva della zona montana era d'importanza ambientale ed economica, oltre a rattenere le acque piovane limitando le piene e le erosioni lungo i canaloni, provvedeva legna da fuoco e prodotti eduli ed entrate nell'erario comunale attraverso l'affitto dei pascoli.

La proprietà fondiaria costituiva la base della cittadinanza nel comune rurale; aveva anche valori fortemente sociali in quanto, trasmessa alla progenie attraverso successioni e matrimoni, essa perpetuava il nucleo famigliare. Ma il suo valore più tangibile ed immediato era economico, e come tale la sua ripartizione rifletteva l'ordinamento civile e politico prevalente nei secoli scorsi, ed era divisa in proprietà demaniale-feudale, comunale, ecclesiastica e privata.

Con la costituzione del patrimonio di S. Pietro, la possessio delle terre demaniali passò dalle mani dell'imperatore in quelle del nuovo potere politico della Chiesa rappresentata dal suo capo, il pontefice. Nel quadro degli sviluppi storici dell'era di mezzo, il papa concedeva ai signori locali, talvolta di sua scelta, generalmente fino alla terza generazione, la proprietà, ma non la possessio, sopra zone « con case, vigne, boschi, acque, prati, pascoli, terre colte ed incolte, alberi fruttiferi, mulini », nonché diritti sopra i paesi che sorgevano nel territorio (1).

In effetti, passavano nelle mani del signore feudale, soggetto ai vincoli di vassallaggio verso il ligio signore il pontefice, le terre demaniali, cioè quelle terre che l'ordinamento giuridico romano classificava come ager publicus e arcifinus, dalle quali con la loro usuale propotenza, questi signori stralciavano parte per incorporarla nel loro patrimonio di famiglia.

A S. Stefano i conti di Ceccano controllavano perciò tutta la zona di montagna, la macchia, i prati lungo il fiume e quelli al capo la Selva, oltre ai loro beni patrimoniali che concedevano in enfiteusi o affitto ai loro cavalieri. Ma con la decadenza di questa famiglia nel Quattrocento, la comunità di S. Stefano riasserì i propri diritti sopra terre demaniali e pubbliche, mentre enfiteuti e affittuari acquistarono in proprio i beni patrimoniali della casa, al punto che nel Cinquecento esistevano pochi possedimenti classificati come bona curie Ceccani o bonacastri Ceccani.

La proprietà della comunità sopra queste terre venne contrastata dai nuovi padroni, i Colonna; e con la sua bolla in data 1° giugno 1605 papa Paolo IV riconosceva a Fabrizio Colonna, primogenito di Marcantonio, investito in perpetuimi nella sua discendenza maschile del principato di Paliano, che includeva S. Stefano, Giuliano e S. Lorenzo, « tutti i diritti, privilegi e giurisdizioni... i fiumi e altri corsi d'acqua, mulini, forni, pascoli, edifici... » (2).

Il comune di S. Stefano riuscì a conservare i propri diritti sui prati e la selva, ma non «sulla vasta estensione di rubbia 350 del monte Siserno», e per impedire l'indiscriminato sfruttamento di questa contrada da parte di operatori forestieri, ai quali veniva appaltata per il pascolo brado dei suini, la comunità fu costretta a riscattare dai Colonna il jus pascendi cioè il diritto al pascolo, ed in una risoluzione consiliare del 5 novembre 1633 « si disse voler comprare l'erbaggio di S. E. padrona » pagando un tributo annuo di scudi 15 ogni qualvolta la comunità « vende tutto il territorio della montagna per uso di animali porcini », canone che dovette poi essere aumentato a scudi 20 nell'ottobre del 1707. La vertenza tra comune e casa Colonna si protrasse anche dopo l'abolizione dei feudi, fino al 1860 (3).

Durante l'Ottocento s'incominciò a disboscare la montagna, in parte per prevenire azioni e movimenti di briganti, in parte anche per la lottizzazione che ne fecero i Colonna con la vendita a privati; un risultato benefico fu l'incremento della coltura di ulivi a mezzacosta; pesante il danno ecologico.

La proprietà ecclesiastica comprendeva i beni di enti religiosi, monasteri e diocesi, delle varie chiese attive e scomparse, aggregati quest'ultimi alle prime, i vari lasciti che si facevano in manomorta per dotazione di chiese, cappelle, altari e benefìci, le chiese stesse con tutte le loro res sacrae e profane, come pure i beni di confraternite, congregazioni e sodalizi di laici a scopo religioso.

Nel Cinquecento, molte delle primitive chiese e santuari erano scomparsi ed i loro beni integrati in quelli della chiesa parrocchiale dedicata a S. Stefano, ma avevano lasciato il loro nome alle contrade nelle quali sorgevano, come S. Maria Maddalena e S. Andrea. Dopo la parrocchiale, la chiesa meglio dotata era quella di S. Sebastiano, seguita da S. Pietro, S. Giovanni, S. Salvatore, S. Maria della Stella o della Pózza e S. Silvestre. (4).

Erano ancora in esistenza i beni vescovili concentrati nella valle del Vescovo, e con molta probabilità anche possedimenti delle grandi abbazie vicine; troviamo infatti che quella di Casamari possedeva ancora un terreno alberato nell'Ottocento (5). La proprietà ecclesiastica si allargò con la creazione della collegiata di S. Maria nel Settecento e l'istituzione di otto prebende per i canonici.

La proprietà privata comprendeva forse poco più della metà del territorio e si divideva in fondi di una certa consistenza appartenenti a famiglie della classe signorile, e piccoli appczzamenti delle famiglie artigianali e villane. Non esistevano grandi fondi, perché la proprietà si frazionava con le successioni e si reintegrava con i matrimoni, ed i possedimenti rimanevano sempre sparsi per il territorio; molte delle famiglie proprietarie del Cinquecento risalivano a genti fuggite dalla valle al tempo della distruzione della villa di S. Stefano.

Non mancavano le proprietà di comuni ed individui forestieri, in particolare di Giuliano e S. Lorenzo; a quelli di Ceccano s'è già accennato. Con la creazione della baronia Colonna nel Seicento, e durante tutto il Settecento, ci fu a S. Stefano un notevole movimento demografico con l'arrivo di funzionari e amministratori forestieri alcuni dei quali si accasarono nel paese e dato che erano personaggi di un certo censo, acquistarono possedimenti o li ricevettero come beni dotali delle mogli provenienti da famiglie benestanti locali.

Il catasto del 1753 elenca tutti i possidenti forestieri, tra i quali capeggiava il capitano Domenico Tamburrini di Amara che possedeva case alla Rocca, al Forno di sopra, alla Piazza, orti e terreni tanti da renderlo il più ricco del paese; avevano proprietà in S. Stefano: Panici e De Luca di S. Lorenzo, i Marcila, con beni dotali, di Ceccano; Megliore di Castro; De Filippis e Lauretti di Vallecorsa; Petacci e San Giuliani di Prossedi; Anticoli, Maselli, Narducci, Felice e molti altri di Giuliano; Tasselli e Luciani di Maenza. Nel secolo seguente troviamo anche proprietà della famiglia Antonelli, mercanti d'olio di Sonnino poi trasferitisi a Ceccano e a Roma, che aveva dato il nome ad una contrada sul Siserno.

Oltre ai forestieri, troviamo anche possidenti stranieri, e tra queste famiglie nobili ungheresi stabilitisi in Italia, quali i Possoni, Sotbani, Apponi e Beczy; nel 1734, la signora Anna Maria Betti (Becky), moglie del Signor Francesco Saverio De Beckzyo, fu coinvolta in una vertenza sopra terreni in S. Stefano con i Possonyi, e nel 1753 la troviamo in possidenza di una casa alla Piazza (6).

 

 

 

(1) Nel settembre del 1207 papa Innocenze III investiva a Feren-tino alcuni signorotti del frusinate con la seguente formula: «Vobis et vestrisque heredibus locamus et concedimus... usque ad tertiam ge-nerationem... (le terre) cum domibus atque vineis, silvia, aquis, pra-tis et pascuis, cultis et incultis, arboribus pomiferis, aquemolis et omnibus pertinentiis et territorio suo... (et) liberam tribuimus facul-tatem ipsum castrum possidendi, oitendi, melioranidi ». Augustin Thei-ner, Codex diplomaticus domini temporalis S. Sedis, I, 40-41.

(2) « Pro ipso Marco Antonio et Fabritio ejusdem nato primogeni tus, -et deinde in primogenitum masoulum in perpetuimi erexit et insitutit, ac illi sic erecto, et institutum territarìum ililus (Paleani) universum, cum omnibus vassallis, et hcminibus ejusdem, nec non castra Jennazzani, Olevani, Surronis, Pilei, utriusque Anticuli, Pophiis, Falvaterrae, Arnariae, S. Laurentii, S. Stephani, Juliani... curri omnibus vassallis, hcminibus territoriis... atque ipsius principatus ratione omnibus et quibuscumque insignifous, priivilegiis, jurisdiictionibus... fluminibus aquis, aquarum deousibus, molendinis, furnis, gaudere libere, et Icite posse valere et debere perpetuo decrivit et concessit ». ASF: B/1138, F/2239.

(3) Ibid. Esposto del 18 ottobre 1860.

(4) Per una più ampia discussione dei beni ecclesiastici, v.: capitolo IX.

(5) ASF: B/1136 F/29311.

(6) Archivio Comunale di Villa S. Stefano (ACVSS) Opus catostri 1753. Archivio Parrocchiale di Villa S. Stefano (APVSS) Liber que-relarum (L. Q.) 1734-1736, dove vengono riferite le vertenze che coinvolgevano i Sotbani e i Betti (Beckzy); ASPVSS. Introiti Luoghi Pii, per riferimenti agli Antonelli ed Apponi.

 

 
 

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