Cap. III - VICENDE STORICHE

Con la disgregazione dell'impero romano di occidente, e durante i secoli successivi, la valle dell'Amaseno fu coinvolta nelle vicende politiche del Basso Lazio che videro alternarsi in una serie senza fine le guerre tra impero d'oriente e barbari, tra barbari e barbari, tra Chiesa e Sacro Romano Impero, Roma e Sicilia, papato e baroni di campagna, e più tardi quelle di successione di Spagna e d'Austria, l'invasione napoleonica e l'amara liberazione marocchina del 1944.

Un primo chiarimento sullo stato politico della regione si ebbe con la sanguinosa rivolta di Campagna contro le forze d'occupazione bizantine nel 727, seguita dalla guerra tra i franchi ed i longobardi di Astolfo che, con la donazione di Pipino il Breve, costituì il patrimonio di S. Pietro e fece del papa il sovrano temporale sopra il territorio « a ponte Ceperani usque Radicofanum ». Dopo la sua formazione, il castrum S. Stephani venne incorporato nel principato dei conti di Ceccano, del quale seguì le alterne vicende politiche.

Questi conti, già vassalli della Chiesa verso la fine del decimo secolo, rimasero ligi alla politica pontifìcia per poco più di un secolo; essi al principio del millecento si ribellarono cercando di affermare il proprio potere assoluto su buona parte della Campagna. Nel 1123, brigando con alcuni baroni napoletani fautori di Ruggero di Sicilia, i conti Goffredo, Landolfo e Rainaldo — i conti di Ceccano governavano collegialmente, con il primogenito primus inter pares — fecero assassinare per mano del loro castellano di Maenza il conte Crescenzio rettore papale in temporalibus delle terre di Campagna. Papa Callisto II, irritato dalla temerarietà di questi baroni, scese col suo esercito nella Marittima, occupò Maenza, fece mozzare la testa al castellano colpevole del crimine, ordinò che si gettassero la moglie e i figli di lui sul lastrico, e dopo un severo ammonimento ai tre fratelli di Ceccano tornò a Roma.

Ma questi, impenitenti, perseverarono nelle loro attività contro la Chiesa, e nella primavera del 1125 il nuovo papa Onorio II fu costretto ad intervenire nuovamente con una spedizione punitiva, e occupò vari castelli ceccanensi, « e dette alle fiamme Pisterzo, Roccasecca, Giuliano, S. Stefano, Prossedi, liberò S. Lorenzo, e poi si fece giurare fedeltà dai conti Goffredo, Landolfo e Rainaldo » (1).

S'iniziava così uno dei più turbolenti periodi della storia della provincia di Campagna e Marittima, divenuta teatro di operazione non solo dell'accanita lotta tra baroni prepotenti e l'ambivalente politica della Chiesa, ma campo di battaglia nella contesa tra Sicilia, papato ed impero. Leggendo le scarne annotazioni dei cronisti del tempo è facile immaginare quale sia stato il costo umano e materiale delle popolazioni colte nell'avvicendarsi di eserciti e bande armate nelle loro terre.

Nel 1139 il papa, in guerra con Ruggero di Sicilia, bruciò Falvaterra, Isola e S. Angelo; l'anno seguente il re di Sicilia occupò Sora, Arce e Ceprano; i siciliani tornarono nuovamente nel 1144, ed il figlio del re invase le terre di Pietro, nel 1149 venne bruciata Ceccano; nell'estate del 1155, un esercito comandato dal cancelliere del re Guglielmo di Sicilia bruciò Ceprano ed altri castelli del Basso Lazio, occupò Frosinone e dette alle fiamme Ticlena; nel 1159 bruciarono Priverno e Fumone; nel 1164 gente di Alatri e Frosinone pose fuoco alla chiesa di S. Maria della Carità causando la morte di molti partigiani del re di Sicilia ivi radunati.

Nel 1165 l'arcivescovo Cristiano Di Magonza, cancelliere di Federico Barbarossa, venne dalla Tuscia con le sue truppe occupando Campagna e Marittima « e fece giurare a tutti fedeltà a Pasquale (antipapa) e all'imperatore »; ma appena ripartiti i tedeschi « arrivarono i conti Gilberto e Riccardo di Gaia (Gaeta) con un esercito del re di Sicilia... ed insieme a contingenti romani occuparono Alatri e Ceccano ed investirono Arnara, ma non riuscendo a prenderla, si riversarono nella valle di S. Lorenzo e dettero alle fiamme i castelli di S. Stefano e Prossedi... In quest'anno vennero bruciate anche Ripi, Torrice, Isola ed il castello di S. Lorenzo ».

Erano anni terribili, ed i presagi venivano dal cielo ed i disastri si abbattevano sulla terra: già nel 1098 era « apparsa una stella cometa, e il cielo si fece di fuoco e si oscurò il sole », e i segni continuarono nel nuovo secolo con ecclissi di sole e di luna, piogge di stelle, nel 1132 s'era visto il sole con un cerchio come un arco tirato e nel 1160 apparirono in ciclo tre soli. Ma se questi fenomeni incutevano terrore nelle popolazioni, più immediati erano gli effetti delle calamità naturali: terremoti, particolarmente forti quelli dell'ottobre 1160 e l'altro che colpì all'alba del 17 gennaio dell'anno seguente; trombe d'aria che distruggevano case e abbattevano alberi, siccità, freddi intensi, piogge torrenziali con inondazioni e le conseguenti carestie come quella del 1202 « detto da tutti come l'anno della fame » (2).

Un periodo di tregua dalle turbolenze politiche si ebbe con l'avvento al potere del conte Giovanni di Ceccano nel 1182 e la sua politica di collaborazione con il potere temporale della Chiesa; ma i pericoli d'incursioni e saccheggi erano sempre presenti durante il passaggio delle armate imperiali dirette in Sicilia, e soprattutto per la presenza ai confini del Regno dei predatori tedeschi Marquardo di Anweiler, Dippoldo di Vohburg e Corrado di Marlenheim, baroni di Enrico VI. Aiutò la politica di Giovanni la presenza sul soglio pontifìcio di Innocenzo III, al quale si potevano riferire più che a Eugenio III le parole di S. Bernardo « tu non sei il successore di Pietro, ma di Costantino ».

E fu in questi anni che la valle dell'Amaseno visse il grande ed indimenticabile passaggio di Innocenzo III, nell'estate del 1208, diretto a Fossanova per la consacrazione della nuova chiesa abbaziale, scortato da Giovanni ed i suoi scintillanti cavalieri. Il corteo papale, composto di cardinali, curiali e domestici, sostò a Giuliano dove si fecero grandi feste religiose e profane, proseguì quindi per Priverno e Fossanova; terminate le celebrazioni nell'abbazia, il papa risalì il corso dell'Amaseno per la strada di Vallefratta, pernottando a S. Lorenzo e a Castro, recandosi poi a S. Germano, Montecassino e quindi a Sora dove installò il fratello Riccardo conte di quelle terre (3).

Le sorti di S. Stefano e degli altri castelli dell'alta valle dell’Amaseno seguirono successivamente quelle di Ceccano, diventata nuovamente ghibellina, e durante le guerre di Manfredi e Corradino contro Carlo D'Angiò, la valle fornì approviggionamenti e soldati alla parte imperiale.

Ma come s'è detto, oltre a trovarsi nel mezzo della grande politica europea con Anagni alterna capitale della Chiesa, la Campagna aveva una dialettica politica tutta sua, e con l'affievolirsi della potenza dei conti di Ceccano la lotta per il controllo politico della zona si radicalizzò tra le altre due potenti famiglie di Campagna dei Colonna e dei Caetani. La discendenza maschile dei conti di Ceccano si estinse prima della fine del Trecento ed i loro beni feudali e patrimoniali passarono ad altri casati per essere finalmente reintegrati in mano ai Colonna nel Cinquecento.

Gli ultimi discendenti delle due primogeniture create dal conte Giovanni di Ceccano nel suo testamento del 1224 furono Giacomo e Riccardo vetulus; i possedimenti del primo passarono alla figlia Cecca andata sposa a Giovanni Conti di Valmontone, quelli del secondo alla figlia Margherita e da lei al figlio Raimondello avuto dal matrimonio con Carlo De Cabanis siniscalco del Regno di Napoli.

Il territorio di S. Stefano si trovò così diviso tra i Conti e i De Cabanis, ma per breve tempo; Bonifacio IX destituì Raimondello di tutti i suoi beni per aver parteggiato per l'antipapa Benedetto, e per la stessa ragione confiscò l'eredità di Adenolfo e Aldobrandino Conti figli di Cecca; essendosi però questi ultimi ravveduti, vennero reintegrati nei loro beni ceccanensi e a questi venne aggiunto quel quarto del castello di S. Stefano che era appartenuto a Raimondello. All'inizio del Quattrocento, la maggior parte delle terre già dei Conti di Ceccano erano in mano ai Conti di Valmontone, discendenti della casa dei conti di Segni ala quale era appartenuto Innocenzo III.

Nel 1425 il cardinale Aldo Conti, nipote di Cecca, vendette i castelli di Morolo e di S. Stefano ad Antonio Colonna nipote di papa Martino V. Mentre la discendenza dei conti di Ceccano rimaneva dentro le due primogeniture, sopravvivevano rami cadetti con beni patrimoniali ma non feudali; uno di questi fu quello di Giovanni Antonio detto Giovanni di Riccardo, il quale fece ricorso alla Camera Apostolica contro la cessione fatta da Bonifacio IX ai Conti anche di quelle terre che non facevano parte dell'eredità di Cecca figlia del conte Giacomo. Eugenio IV, succeduto a Martino V, intento a ridurre il potere dei Colonna nelle cui mani molti di questi beni si trovavano, gli assegnò vari feudi tra i quali quelli di S. Stefano per sé ed i figli fino alla terza generazione.

Ma S. Stefano tornò presto in mano ai Colonna quando papa Callisto III lo reintegrò ai Colonna con tutti i loro possedimenti di Campagna e rimase feudo di questa casa fino all'abolizione dei feudi nel 1816 (4).

Forse il periodo più penoso per i paesi della valle dell'Amaseno e di tutto il Basso Lazio coincise con lo stato di anarchia generale che al principio del sec. XV mise l'Italia alla mercé di chiunque poteva comandare un esercito o assoldare una compagnia di ventura. Per restaurare l'autorità della Chiesa nelle terre del Patrimonio, Eugenio IV mise in campo quell'angelo sterminatore che fu il patriarca Giovanni Vitelleschi il quale, emulo degli arcivescovi guerrieri imperiali, prima domò le terre di Romagna e nella primavera del 1436 piombò su Campagna e Marittima, massacrando e saccheggiando quasi si trovasse in terra saracena o in crociata contro gli albigesi.

Giunto all'imbocco della valle dell’Amaseno, il Vitelleschi assediò Priverno, difesa dal capitano di ventura Antonio da Pontedera che era passato dal soldo della Chiesa a quello dei Colonna; assaltata e preso la città, il Pontedera riuscì a fuggire verso l'alta valle dell'Amaseno dove si rifugiò nella rocca di S. Stefano ligia ai Colonna; assaltato e preso anche questo castello, il Pontedera scappò nei boschi che allora coprivano il monte Siserno, ma venne raggiunto e catturato, e lo spieiato patriarca lo fece impiccare ad un albero d'ulivo (5).

Dopo tanto spargimento di sangue, morto Eugenio IV, come già notato, i Colonna riebbero possesso dei loro beni e per una ventina d'anni ci fu moratoria tra Chiesa e casa Colonna.

Al pricipio del 1482 scoppiò la cosiddetta guerra di Ferrara che contrapponeva, fra altri, papa Sisto IV e re Ferdinando di Napoli, con i Colonna partigiani di questo ultimo; parte dei combattimenti si svolsero nel Basso Lazio. Le truppe napoletano comandate dal duca Alfonso di Calabria invasero la valle del Liri passando poi per la valle di S. Lorenzo in marcia verso Roma; occuparono Terracina e si spinsero fino a Marino: « La valle dell'Amaseno fu messa a sacco e a ruba dall'esercito napoletano nel quale militavano anche truppe selvagge di cavalieri turchi che, dove passavano, non lasciavano che rovina e morte. S. Stefano seguì la sorte comune e il suo territorio fu orrendemente devastato » (6).

I napoletani si scontrarono con i pontifici comandati da Roberto Malatesta e furono sconfitti a Campomorto presso Velletri, ed i Colonna ebbero i loro beni nuovamente confiscati; ma li riebbero con l'elezione di Innocenzo VIII. Nel 1500 i Colonna alleati con Spagna contro Francia e Chiesa, furono scomunicati da papa Alessandro VI, e i loro possedimenti — e tra questi S. Stefano ed altri castelli della valle dell'Amaseno — vennero integrati da papa Borgia nel ducato di Sermoneta creato appositamente per il fanciullo Rodrigo, figlio di Lucrezia e di Alfonso di Bisceglie.

Ma l'altalena del potere che caratterizzava la corte pontifìcia presto riportò i Colonna nell'anticamera papale con l'elezione di Giulio II, il quale abolì il ducato di Sermoneta, restituì loro tutti i beni confiscati e per tenerserli legati dette una sua nipote in moglie a Marcantonio Colonna, nipote del cardinale Prospero. La mano ferrea di questo papa mancò troppo presto, e l’inetta politica del successore Clemente VII portò all'orrendo sacco di Roma, per il quale i Colonna furono in parte responsabili.

Già nell'autunno del 1526 c'erano state ostilità tra la fazione dei Colonna ed il papa, il quale al principio del 1527 mandò truppe ad attaccarli in Campagna; da Priverno, dove erano state concentrate, le forze pontifìcie mossero vero l'alta valle dell'Amaseno occupando e saccheggiando S. Stefano, Giuliano, S. Lorenzo e Vallecorsa, inseguendo Sciarra e Camillo Colonna sopra le montagne. Arrivò poi l'armata imperiale al comando del connestabile di Borbone, parte della quale si sparpagliò nella Campagna prima di raggrupparsi per l'attacco contro Roma, foraggiando, saccheggiando e violentando a piacere: « Mali fuere Germani, peiores itali, hispani vero pessimi », così scriveva un cronista del tempo. Quello che seguì a Roma tra maggio e giugno è forse la pagina più vergognosa della storia degli italiani. Per i Colonna però significò vittoria di parte, e lo sconfitto pontefice dovette reintegrarli nei loro poteri. Ma la pace, per il Basso Lazio, rimaneva vaga ed inafferabile colomba.

Nel marzo 1541, Paolo III, Farnese, mise in campo il figlio Pier Luigi contro Ascanio Colonna, dichiarato ribelle, e in maggio confiscò tutti i beni colonnesi di Campagna e tra questi i castra di S. Stefano, Giuliano e S. Lorenzo, che presto però vennero restituiti ai loro padroni con l'ascesa al papato di Giulio III.

L'ultimo atto del conflitto tra Chiesa e casa Colonna si svolse durante il pontificato di papa Carafa, Paolo IV, napoletano, avverso agli spagnoli e ai Colonna loro fermi sostenitori; nel 1556 egli scomunicò Marcantonio, figlio di Ascanio Colonna, e lo dichiarò decaduto da tutti i suoi feudi di Campagna, che egli incamerò ed integratili ad altri costituì il ducato di Paliano che donò al nipote Giovanni. Durante la guerra tra Paolo IV e Filippo II di Spagna che scoppiò poco dopo, detta anche guerra di Campagna perché fu nelle operazioni militari in queste terre che si giocò la carta vincente a favore degli spagnoli, il viceré di Napoli, duca d'Alba, invase il Basso Lazio e mentre il grosso dell'esercito marciava contro Anagni occupando Veroli, Ceccano, Frosinone, Ferentino, Fumone e Alatri, reparti al comando del duca di Toledo entravano nella valle dell'Amaseno assoggettando i paesi ai soliti saccheggi e violenze e occuparono Priverno e Terracina e la Marittima fino ad Ostia; la caduta di questa roccaforte, di Anagni e Tivoli nell'autunno di quell'anno decise l'esito della guerra che, aveva coinvolto anche Venezia e Francia. I Colonna si trovarono così dalla parte vincente, e il nuovo papa, Paolo IV, annullò tutte le condanne contro Marcantonio Colonna riconsegnandogli i suoi beni, e nel 1569 Pio V eresse in principato quelle che erano state le terre del ducato di Paliano, inclusi vari castelli dell'alta valle dell'Amaseno, e ne investì il futuro ammiraglio pontificio a Lepanto, Marcantonio Colonna, con il diritto di lasciarlo in eredità ai suoi discendenti. Questa investitura venne confermata da Paolo IV con una bolla del 1° giugno 1605 che creò, tra le altre, la Baronia Colonna di S. Stefano (7).

L'affermazione del predominio spagnolo nell'Italia meridionale tolse Napoli e Sicilia dalle contese europee e le grandi guerre del Seicento e Settecento ebbero i campi di battaglia nel nord della penisola; ma il Basso Lazio rimase zona di attraversamento per gli spostamenti delle truppe spagnole verso il nord — e la cosiddetta strada degli Spagnoli nel territorio di S. Stefano ricorda ancor oggi questi movimenti — e non di rado veniva coinvolto in azioni di guerra come quando, durante la guerra di successione d'Austria, l'esercito di Carlo III di Borbone, ancora re delle Due Sicilie, proveniente dalla valle dell'Amaseno sorprese, il 10-11 agosto 1744, presso Velletri il Generale austriaco Giovanni Giorgio di Lobkovitz che comandava le truppe imperiali in marcia per riconquistare Napoli e Sicilia, e lo sconfisse.

Il Basso Lazio, e tutto lo stato della Chiesa, rimanevano come sempre passaggio obbligato tra nord e sud, e le terre e popolazioni soggette a devastazioni, rapine, uccisioni e violenze da parte degli eserciti in marcia, composti com'erano ancora della feccia sociale.

Il papato frattanto, decaduto come fattore politico negli affari italiani ed europei, si barcamenava cercando di salvare ad ogni costo il potere temporale, agendo secondo l'opportunità, subendo le imposizioni ora di uno ora di un altro contendente.

Nel febbraio del 1798 arrivarono i soldati della rivoluzione francese; dopo aver occupata Roma e proclamata la repubblica, occuparono la Campagna fino ai confini del Regno dividendola poi in due sottoprefetture, quella di Marittima con sede a Velletri, e quella di Campagna in Anagni. Restaurato il governo pontificio con il congresso di Vienna, tornò la quiete politica, rotta nuovamente nell'autunno del 1867 quando un contingente di garibaldini in marcia contro Roma venne intercettato e respinto da truppe francesi al servizio del papa in uno scontro sulle montagne di Vallecorsa e S. Lorenzo; nel settembre del 1870, prima di assaltare Roma, l'esercito italiano occupò il Lazio ponendo così fine al potere temporale della Chiesa.

 

(1)Pertz, Monumenta Germaniae historìca, Scriptores XIX «Annales oeccanenses ».

(2) Ibid.

(3) Ibid. Per la politica del conte Giovanni di Ceccano, v.: Arturo Jorio, « Il conte Giovanni di Ceccano e gli affari di Campagna tra Millecento e .Milleduecento », Terra Nostra, Anno XXI, luglio-agosto e setembre-ottobre 1982.

(4) Lombardi, op. cit., che seguo per le vicende della, signoria Colonna.

(5) Il Pontedera venne impiccato presso Priverno il 19 maggio 1436, v.: Luigi Simeoni, Le signorie vol. II, Milano 1956, e Ferdinando Gregorovius, Storia della città di Roma nel medioevo, Lib. XII, cap. I. Il Lombardi lo confonde con il ben più famoso capitano di ventura aibruzze Jacopo di Caldera morto nel 1439.

(6) Lombardi, op. cit.

(7) Archivio di Stato di Frosinone (ASF): Busta 1138, Fascicoli 2939-2940.

 

 
 

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