Cap. II - IPOTESI SULL'ORIGINE DELLA COMUNITÀ DI SANTO STEFANO

L'alta valle dell'Amaseno si divide in due conche di diversa formazione geologica: quella di Amaseno, scavata dall'azione del fiume che vi ha le fonti, e quella che si allarga da S. Stefano, a Giuliano e Prossedi, che ha origini in una grande depressione carsica — catauso — alle falde del monte Siserno, colmata da materiale eruttivo dei vulcani albani consolidatosi in crosta tufacea e poi modellata in colli e valli dalle acque correnti.

Sulla sommità di questo mucchio di scorie che si addossa alla montagna, sorge S. Stefano e sotto si aprono i colli che digradano verso il fiume, l'ultimo dei quali si spinge verso il centrovalle e la piana di Priverno; catastalmente conosciuto come colle Formale o Fornara, popolarmente viene chiamato colle dell'Ouzzo dalla voragine — ouso — che si apre a settentrione dove sbocca il lungo condotto carsico della caverna del Diavolo.

Anticamente questa zona era conosciuta come Soffraulata, soffornata, cioè terra sprofondata, a ricordo del crollo del tetto della caverna, che prima arrivava fino al fiume, che creò l’ouso, la ripida scarpata che limita il colle a settentrione. A meridione l'Ouzzo confina con la stretta forra della fontana del Carbone, che lo divide dal colle di S. Silvestro, dove anticamente sorgeva una chiesa dedicata a questo santo papa, mentre a ponente incomincia a calare verso la sponda del fiume e la strada degli Spagnoli.

Dietro il colle dell'Ouzzo, in dirczione della montagna, si estende una zona pianeggiante — più ampia prima del crollo della caverna del Diavolo — nella quale si aprono le contrade dell'Ara del Tufo, di Valcatora, della valle del Vescovo e S. Giovanni con terre fertili ed abbondanza di acque. Questo piccolo altipiano occupa il centro dell'alta valle, e prima che vi passassero le moderne strade, si trovava già al centro della viabilità della valle; verso di esso scendeva la strada della Palombara che attraversava il fosso di Valcatora sullo scarnito ponte romano che ancora resiste alle intemperie, per incontrarsi poi al basso dell’Ouzzo, con la strada proveniente dalla deviazione dell'Appia che da Sezze e Priverno risaliva la valle diretta a Vallefratta e Ceprano.

La bontà del suolo, la sua posizione all'incontro di strade ed il facile accesso ai pascoli montani sui Lepini e gli Ausoni e a quelli pontini rendevano la zona particolarmente adatta ad insediamenti di popolazione. Mancano sufficienti resti archeologici che ci possano dare indizi sulla storia antica; di vestigia romane, oltre al ponte di Valcatora, rimangono sul colle Ouzzo i ruderi di quella che fu forse una villa rustica di età imperiale, probabilmente rifatta sopra una precedente di antica data.

Nel periodo pre-volsco l'altipiano dell'Ara del Tufo era zona di attraversamento — Varcatora, Valcatora — per uomini ed armenti, diventando punto d'incontro per le genti della valle. L'arrivo e l'insediamento di nuclei famigliari volsci rese l'Ara del Tufo importante raccordo logistico per la confederazione volsca nella sua espansione verso l'area pontina; è ben probabile che nella località siano sorti posti di comando e di smistamento. Con la vittoria dei romani, l'Ara divenne il centro del pagus della valle, e nei suoi dintorni si svolgevano i raduni sociali e nei santuari i riti agresti e lustrali.

La villa rustica che sorgeva sopra l'Ouzzo fu naturale punto d'attrazione per quei gruppi ed individui che fuggendo da Roma cercavano rifugio nell'alta valle dell'Amaseno, e presto intorno ad essa si formò un aggregato di abitazioni.

Il passaggio dei barbari, rendendo le campagne malsicure, rafforzò questo nucleo urbano, e poi il sopravvento del cristianesimo vi accentrò le attività di culto e dell'amministrazione della parrocchia; e qui sorse la prima chiesa, con il fonte battesimale, dedicata al protomartire S. Stefano, che dette anche il nome alla comunità.

S. Stefano era un santo molto venerato nella zona pontina, e a lui erano dedicati vari monasteri ed abbazie, come quella sull'altipiano a ridosso di Terracina, ora monte S. Stefano, quella di Malviscido poi detta Valvisciolo presso Carpineto, di Marmosolio a Ninfa, di Valvisciolo presso Sermoneta e quella di Fossanova prima che passasse dai benedettini ai cistercensi; perciò la scelta del protomartire a patrono della comunità appare logica; potrebbe anche significare che questa parte dell'alta valle dell'Amaseno appartenesse allora ad una massa dipendente da uno di questi enti ecclesiastici.

La comunità venne conosciuta come S. Stefano in valle, come l'altra che si era sviluppata contemporaneamente allo sbocco di Vallefratta aveva preso il nome di S. Lorenzo in valle. In questi tempi l'alta valle dell'Amaseno era conosciuta come valle di S. Lorenzo, valle di S. Stefano e, secondo alcuni, anche come valle di S. Michele, il quale arcangelo fu poi patrono della comunità di Pisterzo.

La comunità di S. Stefano in valle includeva le genti rurali, piccoli e maggiori possidenti, che discendevano dalla razza volsca-latina e formavano la maggioranza della popolazione, e i nuclei allogeni di estrazione urbana arrivati durante l'impero e che si erano imparentati, a parte gli ebrei, con i componenti rurali; aveva preso forma una nuova stratificazione sociale: i domini, signori, che possedevano i più grandi appezzamenti di terre e avevano in enfiteusi i beni ecclesiastici, i piccoli coltivatori che lavoravano le proprie terre e quelle dei signori a mezzadrìa, affitto o colonia, ed il gruppo urbano di artigiani che si era integrato in gran parte con la classe contadina, e al margine i nullatenenti e gli ebrei; la condotta degli affari pubblici era in mano alla classe ecclesiastica, che proveniva in gran parte da quella dei domini.

Il paese non aveva mura difensive, rimaneva il villaggio aperto tradizionale, con le abitazioni raggruppate intorno alla chiesa nella quale erano conservate le reliquie del santo patrono e presso la quale sorgevano il battistero e la curia della comunità. Qui abitavano i signori, gli ecclesiastici, gli artigiani che vi tenevano bottega e alla periferia di esso gli emarginati; anche molti contadini vi possedevano camere e stalle nelle quali si ritiravano con le famiglie e gli animali quando correvano rumori di guerra, ma la maggior parte di essi viveva ancora permanentemente nelle abitazioni campestri.

Questa nuova società, nella quale prevalevano i concetti romani della villa aperta, era ancora in assestamento quando si ebbero le prime razzie saracene, che tutti speravano e pregavano fossero transitorie come quelle dei barbari; cosa che non fu.

La caduta di Priverno segnò la fine di tutte le comunità del fondovalle, e come nel privernate, anche nell'alta valle le genti vennero costrette a cercar rifugio verso l'alto dove si profilavano le rozze torri degli armigeri dei conti di Ceccano, mentre i saraceni occuparono e devastarono S. Stefano in valle e vi si insediarono per circa un secolo controllando la valle ed il passo della Palombara.

La presenza dei saraceni è ricordata nella toponomastica locale e nella tradizione popolare; la zona tra il colle Ouzzo e Valcatora, dove essi si erano piazzati, era conosciuta nel Cinquecento come morrone Saraceno, probabilmente dal cumolo di pietre e rovine, mora, che erano allora ancora visibili, e nel Sette-Ottocento aveva preso il nome di grotte Saracene dalla presenza di ambienti sotterranei ricoperti da vegetazione, ancora in esistenza ai nostri giorni e nei quali la gente del posto nascose roba e suppellettili quando, durante la seconda guerra mondiale, la valle venne invasa dai marocchini, discendenti dei saraceni di una volta. Secondo quanto raccontavano i vecchi, in queste grotte venne seppellito con tutti i suoi tesori un grande principe saraceno ucciso in battaglia, e qui riportato dai suoi fedeli guerrieri.

Nella diaspora che seguì l'arrivo dei saraceni, le genti che componevano la comunità di S. Stefano cercarono di raggiungere i propri possedimenti e mandrie nelle zone montane, e così nuclei famigliari ed affini si trovarono rifugiati assieme nelle località dove sorsero poi Pisterzo, Prossedi, Giuliano e S. Stefano.

Verso la rocca ceccanense che sorgeva sul dosso tufaceo sporgente dal monte Siserno risalirono, oltre ad una parte importante della popolazione del paese che si portò le reliquie del protomartire, anche le genti delle contrade di S. Giovanni, S. Silvestro e degli altri colli, accampandosi nella parte bassa dello scosceso pianoro dove sorse poi la contrada della Portella con la zona poi detta Cegneraro.

Perduta ogni speranza di poter tornare a valle, i maggiorenti della comunità scampati sotto la torre dei conti di Ceccano intavolarono un parlamentum con il castellano arrivando così a quella che fu la prima definizione dello statuto della nuova comunità, il castrum S. Stephani, nel quale la popolazione che riteneva le sue proprietà ed autonomie si accomandava, cioè si metteva in mano al signore di Ceccano al quale rispondeva con tributi, tasse e servizi in cambio della protezione contro nemici esterni.

Il processo d'incastellamento, cioè dell'attacco delle mura difensive della comunità a quelle della rocca ceccanense, completò la trasformazione sociale e politica.

 

 
 

www.villasantostefano.com

PrimaPagina  |  ArchivioFoto | DizionarioDialettale | VillaNews