come eravamo

LA NOSTRA ESTATE

di Conte Mancinella

"A 'sto punto, aridàteme le mie cè e cinquanta e me ne vado a dormì". Questa perentoria richiesta, sibilata da Paolo alle tre di una notte d'estate, calda come una patata alla "urunza", ci colse di sorpresa, ma la risposta che ne seguì avrebbe scoraggiato persino l'intrepido ardore di Muzio Scevola. "C'arivuoi tu?", e la susseguente, sghignazzante risata del branco consigliò all'incauto postulante di non insistere su una richiesta destinata a sicuro fallimento.

Eravamo noi, giovani apprendisti-teppistelli di paese, a irridere con ferocia il simpatico turista romano che, ignaro degli usi e della nostra balordaggine, si era fatto coinvolgere in una colletta - prezzo unitario: 150 lire a cranio - per una pizzettata notturna ideata e gestita da Antonio d'Alberta, sedicente cuoco di primo livello, ma, in realtà, modesto impastatore di improbabili intrugli di acqua e farina.

Tutto era pronto; le latte di pizza erano allineate con geometrica accuratezza, come le bare ai funerali di Stato, ma il fornaio, accidenti, tardava a sbucare dalle "case spallate" per aprire il forno e dare avvio al sospirato rito della cottura. Stravaccati sul selciato della "piazzetta", avvertivamo con crescente fastidio segnali inquietanti di tensione e di nervosismo per una nottata che rischiava di naufragare e di andare, come si dice, "a puttane". Da qui la storica richiesta di risarcimento di cui sopra.

Mi sembra del tutto pleonastico aggiungere che di quelle pizze Paolo non assaggiò nemmeno un "cantuccio" poiché Antonio d'Agesina, con mano lesta e furtiva, aveva provveduto a farcirle con abbondante, piccantissimo peperoncino calabrese. Risultato: molti aderenti alla colletta, ma davvero pochi i fruitori finali.

Azzannavamo il tempo così, noi giovani di incerte e nebulose speranze, in un paese raggomitolato sulla sua annosa apatia, con le autorità - si fa per dire - politiche e religiose che sembravano avere un solo cruccio: affogare la loro inadeguatezza nel timbrare, con quotidiana ignavia, il loro sdrucito cartellino di stanchi funzionari, al servizio del nulla. Incapaci di riappropriarci del nostro diritto- dovere all'indignazione e alla reazione, eravamo costretti a convivere con la rassegnazione, trascinando la nostra esistenza come le catene dei "balladroni" alla processione del venerdì santo. La strada era la nostra casa e il bar di zi' Michele il nostro quartier generale, una sorta di Sinedrio dove, alle cinque della sera, si decidevano le sorti del mondo e non solo.

La nostra giornata iniziava nel primo pomeriggio, quando la persistente penuria di danaro liquido ci costringeva a cimentarci con la terrificante "passatella ad acqua", un gioco di carte basato sulla migliore "primiera" che attribuiva al fortunato vincitore il diritto - insindacabile - di appioppare ai derelitti partecipanti l'obbligo di tracannare decine e decine di boccali d'acqua di rubinetto. Calda. Come all'orto degli ulivi, molti di noi provavano, quando le pance diventavano otri, a chiedere l'allontanamento da sé degli amari calici, con risultati, invero, molto vicini a quelli ottenuti da chi siede alla destra del Padre.

Ubriachi d'acqua, attendevamo l'arrivo dei nostri eroi che, alla spicciolata, prendevano posto nell'arengo. I soliti convenevoli, i soliti sospiri per l'afa opprimente "mai come quest'anno", i soliti esercizi di pastoso scatarramento (ah, le Nazionali senza filtro!!) per schiarirsi la voce, poi il diluvio delle parole. In quei frangenti erano i governi, per lo più, a passare dei brutti quarti d'ora e i ministri, con o senza portafoglio, scrutavano con malcelata apprensione i loro destini appesi ad un filo. Ma il clou sarebbe arrivato di lì a poco. Il copione era scolpito, da sempre, sulle infuocate pietre del muretto che separava il Sinedrio dalla piazza del Comune, ora sostituito da una orripilante muraglia che grida vendetta e anni di galera per il suo ignoto ispiratore.

Si dirà che in tutti i bar dello Stivale, d'estate, vanno in scena simili rappresentazioni tragicomiche. Nossignori. Da noi non c'era spazio per tuttologi, replicanti e orecchianti; noi avevamo i G4, ognuno con una specifica competenza monotematica. Lì, tra una partita a scopa e una a bazzica, si riscriveva la Storia, quella vera, non quella scribacchiata da supponenti storiografi all'amatriciana e codificata nei libri di regime. Altro che Assiri e Babilonesi, altro che Curtatone e Montanara, Mazzini e Garibaldi, Eurialo e Niso, Cosma e Damiano, Burgnich e Facchetti.

La Storia vera ce la raccontava Malizia, grande esperto della fame nel mondo e a Ceccano in particolare. Mentre in Normandia si sbarcava, a Stalingrado ci si scannava e a Fondi si marocchineggiava, a Ceccano si erano perse le tracce di cani, gatti e altri animali da cortile. Estinti. E i prati? Non un filo d'erba, non una pianta, non radici commestibili: Ceccano era diventato uno spettrale paesaggio lunare, al pari del mare della Tranquillità. "La fame è brutta, azzo se è brutta!" Un giorno si sentì un sordo rumore metallico - "nghèn-nghèn, nghèn-nghèn, nghèn-nghèn" - provenire dal cortile della caserma (a Ceccano non c'era cibo, ma la caserma sì). Cos'era? Erano, pensate, due reclute che si rincorrevano attaccati ai manici della callara nella quale era stato cotto il rancio per la truppa. Il motivo del contendere? 27 chicchi di riso rimasti appiccicati sul fondo della suddetta suppellettile. I militi, accecati dalla fame, si battevano alla morte, più che in prima linea, per mettere le mani, e la bocca, su quei miseri resti. Unica lacuna della storia tramandata da Malizia: non si è mai saputo chi dei due la spuntò. Dettagli che non inficiano la tragica drammaticità di una situazione che - se la guerra si fosse prolungata - avrebbe potuto sfociare in antipatici fenomeni di cannibalismo? Su questa agghiacciante evenienza Malizia - e come dargli torto? - non si pronunciò mai, ma dai suoi sospiri stropicciati e da qualche mugugno soffiato sulla schiuma di una birra Moretti ognuno avrebbe potuto dedurre tutto il deducibile.

Su quali testi di storia si sarebbero trovate tracce significative di questo autentico psicodramma ceccanese? E chi avrebbe saputo dei torbidi retroscena legati al distaccamento tedesco a Villa se non ci fosse stata la testimonianza diretta di Antonio " 'i négr", indiscusso esperto della Wermacht, che, appollaiato sul muretto, attendeva con impazienza la fine della lectio magistralis di Malizia per intrattenere un uditorio sempre più affollato e incuriosito su vita, morte e miracoli degli odiati nazifascisti. Intimidazioni, stupri, schioppettate, grandi abbuffate di kartoffen, retate, deportazioni, nascondimenti, fughe precipitose. E quando il crescendo rossiniano iniziava a lambire gli esigui margini del nostro stupore, Antonio interrompeva all'improvviso il resoconto delle sue memorie e, con un pirotecnico volo pindarico, si catapultava a piedi uniti sulla nostra quotidianità, sacramentando con inusitata violenza contro i soliti tentativi dei soliti "poteri forti" di mettere a repentaglio la sua pensione che si era guadagnata con anni ed anni di ozio forzato.

Storia e cronaca, passato e presente erano sapientemente miscelati in una fantasmagorica prolusione verbale, a volte incerta e approssimativa, che non risparmiava nemmeno i laureati, i diplomati e gli acculturati - vero chiodo fisso di Antonio - per i quali " due anni di piccu e pala" sarebbero stati più che sufficienti ad azzerare la loro spocchia.

Gigi l'americano, invece, non faceva mistero sulle sue predilezioni pro-yankees. Aveva lavorato per anni negli USA e di questo grande Paese aveva ricevuto le stimmate della sua supposta - molto supposta - superiorità tecnica ed economica. E a noi, cronici squattrinati della prima ora, sbrilluccicavano gli occhi nel sentirlo pavoneggiarsi dei lingotti d'oro accatastati a Fort Nox, come una montagna del Colorado. Erano la riserva aurea degli Usa. Di questi lingotti Gigi sapeva tutto: numero, grandezza, grado di lucentezza, carati, peso totale e peso specifico. Ma quando, con occhio commiserevole, iniziava ad arrischiare dolorosi paragoni con la derelitta situazione nostrana - come se le nostre "riserve" fossero costituite da lingotti di barbabietole da zucchero - arrivavano i nostri, anzi il Nostro, mitico Cesarotto a rinfocolare e a difendere l'amor patrio.

Cesarotto, una sorta di anarchico insurrezionalista, comunistoide ma non comunista, nazional popolare ma non populista, allarmista ma non catastrofista, si ergeva dalla cintola in su per difendere le nostre amate sponde. " L'Italia non conta niente? Ma è come un bastone tra le gambe: non fa niente, ma dà fastidio". " I tedeschi dell'est rischiano la vita per passare ad Ovest? Vanno a Bonn a cambiare i rubli, frégate". Non c'era verso di prenderlo in castagna. Un giorno arrivò trafelato e con gli occhi sbarrati: la notizia che ci propinò era di quelle che, in piena stagione di guerra fredda, avrebbe dovuto allarmarci parecchio. Gli americani - gli odiati americani di Gigi l'americano- avevano programmato lo sventramento di Monte delle Fate per nascondere diverse rampe di missili a testata nucleare. Non fu preso sul serio, ma Cesarotto non si scoraggiò. Il giorno dopo tornò con un enorme cartello simil-pacifista con lo slogan "No ai missili, sì alla fabbrica di scodelle" che attaccò ad un vicino palo della luce.

Arrivarono due gendarmi, senza pennacchi e senz'armi, ma con la ferma determinazione di mettere fine alla pagliacciata. "Chi è stato?". Silenzio assoluto degli astanti. Cesarotto, come d'incanto, si era dileguato. "Tu - intimò uno dei due con la pancia e con i gradi di brigadiere - togli quel cartello!". Quel "Tu", era Ezio - il mio grande, caro amico Ezio, rubatoci con troppa fretta da chi fretta non dovrebbe avere - che, sentendosi tutti i nostri occhi puntati addosso come le frecce conficcate su San Sebastiano, ebbe un insospettabile e inaspettato sussulto d'orgoglio: "me lo chiede per favore o per obbligo?", fu la sua piccata risposta. "Per obbligo", ringhiò di rimando il brigadiere. "In questo caso, sì..." concluse ingloriosamente Ezio, accingendosi ad obbedir tacendo.

"Ho stato io". La voce di Cesarotto piovve all'improvviso dalla finestra della sua casa, quando la tensione mi aveva indotto a replicare a muso duro al milite non ignoto per la sua arroganza che noi avevamo tutto il diritto ad esprimere le nostre idee e le nostre proteste. Lo portarono in caserma - pensate un po' in che razza di paese vivevamo - e al suo ritorno Cesarotto non proferì verbo alcuno: ma dal suo sorriso incerto e ambiguo come la Gioconda, deducemmo che le modalità del confronto, come è noto ai no-global della caserma di Bolzaneto a Genova, dovevano essere state piuttosto persuasive.

Quando i nostri eroi avevano terminato la loro esibizione, la ciurma si spostava in piazza, davanti al bar di zà Jola (quanti bar e botteghe a Villa!). La sera ormai era inoltrata: era il momento della chitarra. Un'ora per accordarla, un'ora per discutere sul repertorio, due minuti per cantare la solita "Stella d'argento che brilli lassù". Ma la notte a Villa non porta consiglio, men che mai a noi che, quando tutto taceva, decidevamo, con sciagurata perfidia, di andare a rubare i filaccioni di funghi porcini che le nostre madri solevano appendere alle finestre per l'essiccazione. Non gli davamo tempo, soprattutto ai filaccioni appesi alle finestre più basse. Un gioco da ragazzi salire uno sull'altro, a cavacecio, e arraffare tutto l'arraffabile.

La refurtiva serviva per le pizzettate notturne già menzionate. Ma le reazioni delle nostre madri si sentivano la mattina successiva, quando da quelle finestre profanate da mani rapaci straripavano fiumi di contumelie di varia natura e di varia consistenza. Si passava da un innocente "Uà pozzana accida, ùa e le madri uostre", ad un più allarmante " 'sti spellacchiuni, figli di puttana" (e non sapevano, le sventurate, di autocitarsi), per finire sul pesante "Uà pozzana menì a raccolla cui capìzz".

La nostra estate finiva il 17 Agosto, il giorno dopo la festa di San Rocco, con i commenti incentrati su tre filoni di discussione: i ceci, 'i spari e il/la cantante. Le opinioni non erano quasi mai convergenti. I ceci: concallati per alcuni, sciapìti per altri, troppo cotti, troppo crudi, troppo conditi, troppo pepati; un festival di "troppi" che metteva in ambasce il sindaco in cerca di rielezione che non avveniva, badate, per le opere compiute nel corso del suo mandato, ma per il successo di almeno due dei suddetti pilastri della festa.

Sui fuochi di artificio ('i spari) si registrava, al contrario, quasi sempre una certa unanimità di consensi, soprattutto se i "colpi scuri" avessero messo a dura prova le orecchie e i vetri delle finestre.

Sul cantante, infine, non era certo la voce ad attirare attenzione e curiosità, ma il "contorno". Mi spiego. Un anno ci fu la calata di tale Virginia da Brescia, un donnone dalle forme rotonde e dirompenti che con il petto non ci faceva nessun "do", ma che pare abbia provocato un sensibile calo della vista dei ragazzi di Giuliano di Roma, che, come da tradizione, erano venuti a piedi con gli immancabili maglioncini avvitati al collo (ad Agosto!), a far gazzarra sotto il palco. Questa benedetta Virginia, più che da Brescia, sembrava essere stata prelevata da una delle chiacchierate "piazzuole" del raccordo anulare di Roma. E pagata pure.

Poi, il silenzio. Passata la festa, il santo non veniva gabbato ma Villa riacquistava il suo aplomb di zitella inacidita. I "forestieri" sciamavano su direttrici diverse (Roma, Frosinone, Latina, Aversa, Caserta, Cesa) e restavamo solo noi a scrutare il cielo in attesa della pioggia e, di conseguenza, della stagione delle ciammotte e, soprattutto, dei funghi. Quando la siccità si prolungava oltre il dovuto, gli impazienti cominciavano a chiedere a gran voce la "cacciata" della Madonna dell'Acqua (domanda: si son venduti anche la statua della Madonna dell'Acqua oltre a quella di santo Uallardino?) per accelerare l'arrivo delle precipitazioni. Spesso il cielo si riempiva di allettanti nuvolaglie nere ma ancor più spesso tutto quel ben di Dio stentava a superare Monte Siserno e si dirigeva " à regna", ovvero verso il regno delle Due Sicilie con nostra grande, disperata incazzatura.

Vivevamo, così, noi giovani leoncini in gabbia e non era, a ben vedere, un bel vivere. Ma il tempo lenisce le ferite, attenua i rimpianti, offusca i ricordi e nella dolcezza delle nostre sere a volte riandiamo con il pensiero, amaro ma non cattivo, a come eravamo e a come siamo ora, seduti a cena da Franco il cardiologo - grande cardiologo (se non dico così, va a finire che da domani mi toccherà pagargli le visite) - a trangugiare, sotto lo sguardo arcigno di Margherita-non-lo-sa, un leggerissimo piatto di coda alla vaccinara.

Oggi i nostri giovani sono diversi? Vivono meglio? Non lo so. So, però, che è un delitto lasciarli soli, come fecero con noi. E se all'improvviso si svegliassero dal loro torpore, si unissero, scendessero in piazza e dessero vita ad una sacrosanta rivolta? Spes ultima dea.

 

P.S. Spero che le persone e i personaggi citati in questo guazzabuglio di parole, scritte senza riflettere, non ce l'abbiano con me. Alcuni, peccato, non ci sono più; altri vivono e vivranno per chissà quanto tempo ancora (forse troppo). Loro, per me, sono stati grandi amici e importanti punti di riferimento di una gioventù ormai lontana.

 

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27.3.2012

www.villasantostefano.com

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